Tengo in mano Lo spregio di Alessandro Zaccuri come per volerlo pesare.
Solo pochi grammi ma di grande impatto emotivo. La scrittura è essenziale quasi a ricordarci che le parole sono importanti, non vanno sprecate. Ampio il margine lasciato all’immaginazione del lettore che arrivato al termine di questo romanzo, vincitore dell’ultima edizione del Premio Comisso, e del Mondello Opera Italiana 2017 avrà l’impressione di aver letto, sentito e visto quanto narrato dall’Autore.
Padre e figlio, Bene e Male, Angelo e Salvo, il Moro e Don Ciccio, San Michele e Lucifero, Nord e Sud. Tutto nel romanzo sembra rispondere ad una logica dualistica nella quale però gli opposti si specchiano, si trovano, si perdono, lottano…La tensione narrativa culmina in un finale degno dei migliori noir.
Immaginiamo di trovarci al confine con la Svizzera, c’è una locanda, non ci puoi passare per caso, la devi cercare tanto è fuori dalle strade di comune passaggio. Il proprietario è un uomo schivo, di poche parole, lo chiamano il Moro. Si dice che nella sua locanda si facciano affari illeciti, anche se frequentata da persone rispettabili, si dice.
Si dice pure che sia diventato padre…
“Il suono non proveniva da un animale, ma da un fagotto abbandonato per terra, al centro dello spiazzo che faceva da parcheggio. L’uomo capì prima ancora di chinarsi. Il neonato smise subito di frignare e lo fissò con gli occhi grigi, trasparenti. Al Moro sembrò che si fossero incontrati.”
Una paternità senza legami di sangue quella vissuta dal Moro,…Stesso sangue invece scorre nelle vene di Don Ciccio e Salvo.Figli disposti a tutto pur di compiacere i padri:l’amore non basta, sono necessari rispetto e stima; padri disposti a donare la loro vita pur di salvare i loro figli…Quale concetto di paternità emerge da “Lo spregio”?
Nelle mie intenzioni, quello della paternità come occasione di bontà e, insieme, della bontà come rischio, come esperienza che cambia la vita fino a metterla in pericolo. Lo spregio non è il primo libro in cui affronto il tema della paternità, ma qui ho voluto portare l’indagine a un punto estremo: che cosa succede, mi sono chiesto, quando viene meno l’aspettativa di bontà che ciascuno di noi, in maniera più o meno consapevole, annette alla paternità? Un uomo che non è buono può essere un padre? Può essere un buon padre? Il mio tentativo di risposta sta nel personaggio del Moro, che non è un uomo buono, appunto, ma che lentamente, dolorosamente scopre questa dimensione rischiosa della paternità, intesa come dono di sé e non come imposizione della propria volontà.
Lo spregio, per me, è la storia della nascita di un padre e quel padre è il Moro.
Onore, rispetto, senso della famiglia, fede. Parole che ben rappresentano la logica malavitosa di Don Ciccio, una logica difficile da capire anche per il Moro. Emblematico in tal senso il dialogo tra i due dopo che Angelo si è macchiato dello spregio. Lo sapete anche qua al Nord che cos’è uno spregio? Aggiungendo lapidario “E per lo spregio non c’è perdono, che San Michele mi protegga”. Ad Angelo non è concessa redenzione, inutile lottare contro il destino?
Non è esattamente il destino. Il problema è che Angelo è cresciuto in mondo che non conosce più il linguaggio dei simboli. Davanti alla statua del santo, lui vede la statua, mentre Salvo, il suo amico, vede il santo.
Lo “spregio”, ossia l’offesa irreparabile, deriva da questa incomprensione radicale.
Nessuno dei due è nel giusto, sia chiaro, ma l’errore di Angelo deriva dal non sospettare neppure che esista un sistema di segni di per sé eloquente e potente. Fino all’incontro con Salvo la realtà, per lui, si è limitata al microcosmo della trattoria del padre, dove tutto è efficiente, spiccio, senza ombre. Perfino gli affari di malavita sono una specie di mestiere, da sbrigare come un obbligo. Angelo non ha mai guardato il mondo con lo sguardo di Salvo e proprio per questo non si rende che è uno sguardo diverso, molto più ambizioso e quindi molto più pericoloso.
Achille e Patroclo nell’Iliade, Eurialo e Niso nell’Odissea, Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse, Marco e Mattio di Sebastiano Vassalli, Sal e Dean di On the road…l’amicizia è un legame da sempre narrato nella letteratura, cogliendone sfumature e chiaroscuri. Angelo e Salvo sembrano essere amici inseparabili, compagni di scorribande, finché qualcosa si incrina “Angelo capì e la punta dell’invidia lo colpì alla nuca. Era la ferita che nessuno sospetta, la piaga che si nasconde sotto la seta.” Quali le caratteristiche del loro rapporto?
La differenza di visione della realtà, anzitutto, e del linguaggio in cui questa differenza si esprime. In modo superficiale, è la verbosità di una certa oratoria meridionale contro l’asciuttezza altrettanto ostentata della provincia settentrionale. Ma oltre alle differenze c’è la possibile alleanza che si fonda sull’età, sul desiderio di conquistare il mondo, sulla spensieratezza feroce dei vent’anni. Angelo è convinto che possa andare così per sempre: che questa festa di belle auto e ragazze facili sia destinata a ripetersi senza mai cambiare. Salvo, al contrario, sa che si tratta di una fase dell’iniziazione che lo porterà ad affermarsi come erede del padre. Tra i due interviene, in modo fatale, questa percezione discordante del tempo.
La loro amicizia, forse, si presenta fin dall’inizio in maniera troppo assoluta e divorante per essere autentica. Le differenze sono negate perché, in effetti, non sono neppure contemplate. Se non può essere tutto, un legame come questo diventa niente.
San Michele che lotta contro Lucifero: nel dipinto di una chiesa, in un santino, in una statua. Il bene che trionfa sul male. Per assurdo il Santo diventa il “carnefice di Angelo, simbolo di una religiosità ostentata, arcaica primitiva. Sono immagini che contrastano con il dolore composto di Moro e Giustina che salutano per sempre il loro unico figlio a pochi giorni dal Natale. La religione conforta o punisce?
Da credente mi viene da rispondere, in prima istanza, che l’esperienza religiosa esiste e non può essere negata, altrimenti si ripresenta in forme distorte e addirittura sacrileghe, come il culto perverso che don Ciccio e i suoi riservano a un san Michele fantomatico, più vendicatore che giustiziere. Non è una mia invenzione, ma una credenza abbastanza diffusa nelle organizzazioni criminali, e non solo in Italia. Secondo gli studiosi del fenomeno, chi si avventura nel territorio del male sa di aver bisogno di protezione: perché da carnefice può diventare vittima in qualsiasi istante, e prima ancora perché già essere carnefice è qualcosa di terribile, che richiede la tutela di un talismano.
Il conforto nella fede non è descritto con chiarezza nello Spregio, ma penso che sia intuibile per accenni, in una dimensione di cristianesimo naturale che, in fondo, è la conquista più difficile e importante conseguita dal Moro. Più che altro, però, mi interessava far avvertire questa presenza del mistero, come se sotto la concatenazione dei fatti agisse qualcosa di invisibile, inevitabile e grandioso.
Ho amato particolarmente Giustina, unica donna del romanzo. Giustina cresce con amore un figlio non suo, rimane sempre e nonostante tutto al fianco del Marito. Un patto il loro più che un matrimonio. Giustina assiste impotente a ciò che il destino le preserva, nel bene e nel male. Il suo essere donna è un limite o un punto di forza?
Giustina è una figura che divide molto i lettori. O, meglio, le lettrici. Quando parlo del libro nelle scuole, mi rendo conto di come, per le ragazze di oggi, il modello di femminilità espresso da Giustina sia pressoché impossibile da comprendere, figuriamoci da condividere. Da un lato penso che questo rifiuto sia un bene, perché davvero la sofferenza alla quale il personaggio si espone è in gran parte il prodotto di un contesto sociale malato e ingiusto. Nello stesso tempo, però, sono persuaso che Giustina faccia tutto quello che una donna della sua generazione sarebbe riuscita a fare in circostanze simili a quelle ipotizzate nel romanzo. Questi sono i limiti della sua esperienza.
Il punto di forza è che Giustina diventa subito, d’istinto, la madre di Angelo. Non ha bisogno del percorso tortuoso e straziante seguito dal Moro. Anche per questo, alla fine, è lei a custodire quel che resta della storia, nella veste di testimone e di superstite. Giustina c’era, ha visto e può ricordare.
“Non si leggono i classici per dovere o per rispetto ma solo per amore” (Italo Calvino, Perché leggere i classici). Nel suo ultimo libro, Come non letto (ponte alle grazie) lei cita 10 classici + 1 che possono ancora cambiare il mondo. Quali criteri ha utilizzato, oltre all’amore, per giungere a questa difficile selezione?
All’origine di Come non letto ci sono una serie di incontri realizzati a Milano negli scorsi anni per raccogliere generi di prima necessità da devolvere a un Centro d’ascolto Caritas: il racconto di un “grande libro” era un modo per incentivare la partecipazione all’iniziativa, ma bisognava che il libro fosse grande davvero, in tutti i sensi. Così ho scelto le opere più note, il cui titolo fosse ormai passato in proverbio, e che avessero anche una mole tale da infondere un po’ di soggezione nell’eventuale lettore. Per la selezione finale ho cercato di mantenere un minimo di equilibrio fra le diverse tradizioni linguistiche e letterarie, ma so bene che altri capolavori avrebbero meritato di stare a fianco di questi.
Dell’inclusione dei Promessi Sposi, però, vado particolarmente fiero. È uno dei più bei romanzi dell’Ottocento europeo, per accorgersene basta sgombrare la mente da pregiudizi. Riprenderlo in mano come se fosse “non letto”, insomma.