Le mucche stanno sparse sui pendii erbosi della conca, solcata dalla strada bianca, come avidi gorgoglioni appiccicati sul rovescio d’una foglia. All’alba esse sono scese dai boschi, dove hanno passata Ia notte, ed eccitate dal fresco ad improvvisi galoppi sono andate incontro al pastore che saliva dalla malga. Bigie, tutte nere o variate di bianco e di nero hanno ricevuto il loro nome dal colore del mantello. Al richiamo volgono lente e curiose la testa. Altre, come fossero donne, vengono chiamate secondo il loro paese d’origine: «Tè, tè, padovana». E alla voce nota la chiamata risponde mugghiando. Il pastore è salito verso un punto elevato da dove può dominare l’intera mandria. Ritto in piedi si appoggia ad un bastone ed il suo sguardo pacato segue il tintinnio dei campanacci che le più irrequiete portano al collo. Le ore passano lente, egli si regola per il variare del tempo guardando il sole o l’ombra d’un albero vicino. Di tanto in tanto qualcuna salta la stecconata per andar a brucare l’erba d’altri e allora egli scende correndo e la ricaccia con fischi o sassate. Nessuno passa di lì, il salire del sole domina il suo sangue, il suo volto si arrossa, gli si gonfiano le vene delle mani, i suoi pensieri si svegliano. Parla con sé stesso, intaglia il suo bastone, guarda la polvere della strada che si solleva alle automobili che passano, le conta ad una ad una, poi riguarda le mucche. Fiuta l’aria, osserva le nubi, cerca di scrutare il tempo che farà, conta i giorni che mancano per scendere alla valle, con gioia improvvisa si accorge che il giorno seguente sarà domenica e dopo la messa potrà andare all’osteria vicina per incontrarsi con gli altri pastori. Le mucche si spostano tutte verso la malga, il sole è a piombo nel cielo, il mezzogiorno è imminente.
Scende il pastore a grandi passi verso la malga dove lo attende il pasto con gli altri compagni, che hanno passata la mattinata tra la nera cucina attorno al calderone pieno di latte e il nitido ripostiglio dove le pezze di formaggio stanno a stagionare. Curvano tutti la testa sulle zuppiere di fagioli, mentre dai porcili vicini vengono i grugniti dei maiali eccitati dall’odore della minestra. La polenta illumina la tavola bianca lavata coll’acqua bollente, le loro mani sono lustre, arrossate e gonfie come nutrite dal latte.
Il primo benessere del pasto, che impone loro di allentare la cinghia e si manifesta in un sonnolento stiracchiare delle braccia, viene subito troncato dal padrone che impone la ripresa del lavoro.
Risale il pastore verso il pascolo e gli altri ritornano a scremare il latte, a palpeggiare i blocchi di burro, ad imprimere su di essi il timbro di legno della malga. Il pastore raduna le mucche con fischi, sassate e roteando il suo bastone. Le sospinge verso lo stabbio. Insegue correndo le restie che s’imbizzarriscono in fughe verso il bosco. Si sente la sua voce imprecare contro la Bigia e la Veronese, invano egli le attrae colla promessa del sale. Tintinnano i campanacci, infine tutte vengono rinchiuse nello stabbio, dove le mosche si addensano. Allora dalla malga partono gli altri compagni colle mastelle e la tinozza. Si siedono su bassi sgabelli e si mettono a mungere. Il latte spuma bianchissimo, appena la secchia è piena travasano. Si sente il rumore delle secchie e il parlottare degli uomini a cui le bestie rispondono mugghiando. Anche negli altri pascoli attorno tutte le mucche sono state radunate negli stabbi per la munta e sul verde dei pendii si vede addensata la macchia dei loro mantelli neri e grigi. Quando hanno finito, si scorge tutto un rapido agitarsi delle groppe: il pastore ha tratto dal borsellino, appeso alla cintura, il sale a manciate e dice: «Tè’, tè’, sale, sale». I musi avidi emergono dall’ondeggiare delle groppe, i grandi occhi si dilatano violacei, le umide froge si elevano come in uno spasimo, le bave colano, le ispide lingue si attorcigliano alla mano distesa attratta nelle fauci calde, viscide e ingorde.
La domenica mattina tra le alte cime dei monti subito è segnalata da canti vivaci di pastori che scendono dalle malghe per andare alla piccola chiesa vicina alla strada dove si radunano tutti i temporanei abitatori della conca.
E l’artiglier…
e l’artiglier…
spara un colpo
e poi va via…
Sono I giovani pastori che cantano scendendo a grandi passi per la stradetta scoscesa, colle braccia posate sulle spalle, l’uno dell’altro. Portano i pantaloni grigioverdi e cantano la canzone dei soldati, ma non sono ancora stati sotto alle armi: è solo per darsi arie fiere e mature. E attraggono i fischi dei ragazzi che devono rimanere sui pascoli in sostituzione di loro. La campanella della chiesa suona quasi come quelle appese al collo delle mucche. Davanti al piccolo portico stanno i malghesi: padroni e pastori vestiti da festa con accese cravatte. Sono divisi a gruppi e si parlano. I pastori che poco prima col passo e col canto vantavano la loro baldanza ai luoghi deserti, ora che si trovano aggruppati agli altri stanno silenziosi, timidi e Incuriositi. I padroni ridono stuzzicandosi maliziosi: «Mi sembra che ti sei ingrassato», uno dice all’altro. «Eh, cosa vuoi, qui non solo la porta è chiusa, ma anche le finestre». «Tu, invece, mi sembri palliduccio, cosa è che ti consuma? Fa venir su tua moglie». Ridono e si danno grandi colpi di mano sulle spalle, poi come presi da subitaneo pudore si fanno più composti e mutano discorso, raccogliendosi attorno ad uno arrivato dalla pianura, che porta notizie sull’ultima grandinata e sul prezzo del bestiame.
Ai primi di settembre col variare dell’aria che si è fatta più limpida e più fresca le malghe si chiudono e tutti scendono ai loro paesi. Accatastano sul dorso degli asinelli pentole e masserizie, prendono i loro bastoni, sospingono le porte in fretta, ansiosi di scendere dopo tre mesi di lontananza, e incolonnano le bestie che pare desiderino anch’esse il tepore della stalla. Giù ritrovano le loro donne, s’inaugura la stagione delle fiere e delle sagre, coi balli e le giostre. Le fiere si diffondono da un paese all’altro, come arrivano le mandrie giù dalle montagne. E sensali, zingari, baracconi, giostre, venditori ambulanti di stoffe, di cappelli e di scarpe sono pronti ad accamparsi nelle strade e nella piazza. La vendita della mucca porta di conseguenza la possibilità di acquistare il corredo per la figlia e tutto quello che occorre per gli altri. Ma prima bisogna venderla, e bene. Stanno le mucche legate alle corde tese in quadrato nella vecchia piazza del paese e altre sparse per le viuzze adiacenti, tenute a bada dal capo di casa o dalla moglie, se egli è sui lavori all’estero. Certe donne rosse in volto, marcato da linee fiere, hanno occhi chiari tenuti fissi come per un cruccio profondo, e il fazzoletto nero avvolto attorno al capo le incorona spavalde. Ma i sensali venuti dalla bassa sono uomini scaltri e tenaci. Alti e grossi nei corpi sembrano come appartenere ad altra razza. Portano tutti un corto bastone sul quale s’appoggiano nell’attimo di osservare i fianchi della bestia. Camminano tra la folla, cercando di non farsi riconoscere, adocchiando le bestie più belle e buttando quasi distratta la domanda del prezzo. Le donne non rispondono, sanno che bisogna resistere, che bestie cosi non se ne trovano giù verso le basse.
Incominciano le contrattazioni. Qualcuno comincia a vendere. Il sensale si piega sulle ginocchia e prova a mungere, tocca col suo bastone, palpa, guarda nella bocca, le fa camminare avanti e indietro. Vengono scambiate parole all’orecchio o colle dita si fanno segni di cifre, vengono prese le mani di chi vende e di chi compera e si costringono alla stretta confermativa col denaro di caparra: «Cinque carte, colla garanzia. Dai». Le mani si agitano restie, i volti si turbano, le voci gutturali dei sensali si fanno imponenti. Le donne si divincolano come si trattasse di liberarsi da un abbraccio, ma il colore dei fogli da cento intravvisti, come un’ebrezza sopraggiunta, le vince obbligandole a cedere.
Si agitano al vento nastri e stoffe appesi alle bancherelle nelle altre strade, giovani biondi ed acuti invitano a comperare con lunghi discorsi attraenti. E le brune zingare molli e discinte vogliono predire il futuro. Da altra parte incominciano gli spari del tiro a segno, le musiche seducenti della giostra e nelle osterie tumultuano i pastori a furibonde partite di morra dove le voci si alzano e si abbassano accompagnate dal ritmo continuo dei tonfi sulle tavole. Il vino diguazza, i volti si accendono e subito dopo mezzogiorno incomincerà il ballo nell’osteria vicina al ponte. Vengono per questo ballo donne e ragazze di lontani paesi attratte dal desiderio di uomini di altre valli, risvegliate nella brama dal senso della stagione che si muta e dal tempo che passa. Scendono dalle montagne e appena giunte alle prime case del villaggio si tolgono le scarpe di stoffa per calzare quelle da ballo, si accomodano i capelli e avanzano animate dalla lusinga che le ha fatte partire. Nella sala il ballo è un lento saltellare pigiato con la musica quasi soffocata dal vociare continuo. Ma basta, per incontrarsi e per stringere l’ispirato accordo. L’intera bellezza dello sguardo parla dominante nel volto dei pastori titubanti e dalla scaletta scendono a coppie sfuggendo nell’ombra.
Giovanni Comisso
da La Gazzetta del Popolo del 15/10/1932
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