Classificare Mino Maccari tra i toscani sarebbe troppo se in questa schiera di uomini sempre scontenti, sempre pronti all’ironia e all’inventiva, sempre aggressivi non vi fosse come capo di lista Dante Alighieri. Vi è per giunta la sua statura al di sotto della media che è quella più favorevole a tutti i frombolieri. Il selvaggio di Colle Val dell’Elsa incominciò a mettersi sul sentiero di guerra nel 1924, un facoltoso di Poggibonsi ebbe fiducia in lui egli diede i mezzi per fare un giornale. Nel paesino della Val dell’Elsa vi era una modesta tipografia da fogli parrocchiali, tuttavia Maccari di scoperse nei ripostigli certi vecchi caratteri tipografici che andavano bene per il suo gusto romantico.
Il titolo fu facilmente trovato: Il Selvaggio, in un’epoca in cui altri si facevano ermetici pur di non restare muti, questo giornale si diede a sostenere la bella purezza di Strapaese contro le gonfiaggini di Stracittà e, nei limiti concessi dalla politica dominante, scagliava i suoi sassi contro i soliti italiani che non sapevano essere né carne, né pesce, smaniosi solo di imbuzzarsi. In un certo momento fu possibile al Selvaggio scagliare le proprie invettive ironiche anche contro Hitler. Ho conservato appeso nella mia casa di campagna a Zero Branco per tutta la guerra, le pagine esterne del numero del 31 Marzo del 1935, dove su di una era raffigurato un equilibrista che faceva roteare il mondo tra un volo di corvi e l’equilibrista aveva due teste: una di Hitler col ciuffo e l’altra di un prussiano con l’elmo. L’altra pagina col motto: “Son tornate a fiorire le rose” rappresentava Hitler che annaffiando il terreno faceva spuntare elmi prussiani, stivaloni e colbacchi degli ussari della morte. Su queste pagine del Selvaggio avevo incollato il primo proclama di Hitler, quello del 10 maggio del 1940, che terminava con queste parole: “La lotta che si inizia oggi deciderà del destino della nazione tedesca per i prossimi mille anni”. e sotto arrivai ad incollarvi l’ultimo messaggio di Hitler, quello del 24 Aprile del 45 che incominciava Shakespearianamente: “La lotta per l’essere e il non essere ha raggiunto il punto culminante”. Pochi mesi dopo la liberazione Mino Maccari ebbe la occasione di venire in macchina da Roma a trovarmi a Zero Branco egli mostrai quel mio trofeo che confermava l’antiveggenza del suo giornale.
Il suo compito non è finito
Era il primo amico dell’Italia al di là della linea gotica che rivedevo. Si entusiasmava nel vedere la mia organizzazione strapaesana nella mia casa di campagna, con mia madre che sentiva artisticamente come una donna dell’Ottocento, col mio orto e la mia cantina e il piccolo paese che subito con la sua improvvisa genialità fu da lui mutato nel nome da Zero Branco in Zerograd.
I suoi primi amici e collaboratori furono Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Curzio Malaparte, Leo Longanesi e Giorgio Morandi e Attilio Vallecchi finì col diventare il loro editore e mecenate. “Salvatico è colui che si salva” era il motto di questi strapaesani e invero tutti si sono salvati attraverso la furia politica di quel tempo. alcuni di loro sono morti, ma il ricordo attraverso le loro opere è tuttavia vivo e presente. Maccari, il capo di quella tribù, più che mai sente che il suo compito non è finito e non cederà mai di fronte alla stupidità perenne degli uomini ad assidersi per fumare la pipa della pace. vi sono sempre, anche se i tempi sono mutati, colossali bersagli da colpire. Egli dice masticando amaramente il suo mezzo sigaro toscano: “L’inanità della storia mi ha sempre indotto a fidarmi solo dell’immagine”. Ma le sue immagini satiriche dal 1924 a oggi hanno finito col dare consistenza a una storia, la storia del disgusto per tutte le mostruosità imperanti. Quel disgusto che gli fa a dire ancora: “Nei salotti noi siamo dei traditori”. Le sue immagini nervose, essenziali, acuminate si accoppiano con la stessa forza alle strofette da cantastorie che egli idea contemporaneamente.
E se nel 1935 scriveva: “Sia messo arrosto chi s’è messo a posto” oppure: “Perché mio bel modernista – chiami centauro un motociclista?”, ora nel 1959 raffigurando Cristo che mette una mano sulla spalla a un sacerdote scrive: ”Pensate più all’anima e meno al corpo (elettorale)”. Bisogna andarlo a vedere il sabato sera quando si mette al lavoro nella redazione del Mondo per comporre le sue invettive a colpi di pennello e di penna.
“Son tornate a fiorire le rose”
Tutti quanti gli si fanno attorno come un cuoco che stia confezionando un piatto speciale. Egli comincia con riesumare i fatti di cronaca politica o di costume che nella settimana hanno raggiunto più notorietà e che più lo hanno infastidito. Chiacchiera tagliente con l’uno e con l’altro e prende subito la rincorsa tratteggiando figure e figurette da prima sulla carta gialla che copre il tavolo poi passa ai fogli bianchi. Non ha mai un’incertezza nel tratto, fa subito centro. Tutti gli si serrano attorno e sorgono i primi sorrisi. Ma per decidersi a due disegni che saranno i prescelti dal direttore Mario Pannunzio, egli ne fa talvolta una decina che li butterebbe nel cestino se gli amici non li mettessero avidamente in salvo. Una sera mentre mi trovavo alla redazione del Mondo mi venne l’annuncio che avevo vinto una causa per plagio contro una casa cinematografica, esultavo dalla gioia, Maccari stava al suo tavolo, pareva ozioso e che non avesse sentito quello che dicevo. Stava curvo sul tavolo con la penna in mano e dopo pochi minuti mi chiamò per darmi un suo disegno. Vi ero figurato io, quasi gonfio, contro lo sfondo del paesaggio del lago di Garda, mentre parlavo a D’Annunzio vecchio e rattrappito e sotto egli vi aveva scritto: “Comisso, ingrassato dopo la vittoria sulla Ponti – De Laurentiis, riferisce al Comandante”. E’ un disegno bellissimo e qualcuno soggiunse che da quella causa vinta non avrei guadagnato altro di più prezioso.
La scontentezza satirica di Maccari non sorge solo dal suo spirito toscano, ma in fondo da un amaro suo personale che non fa mai di lui un uomo felice. Si tratta di quell’amarezza dei grandi ingegni, che è tale anche se suscita il sorriso e che si placa soltanto nell’attimo della creazione.
Nel 1938 egli stupì l’Italia intellettuale, che lo credeva solo un caricaturista, con la sua saletta alla Biennale di Venezia dove oltre ad alcuni dei suoi disegni più infuocati espose una serie di acquarelli che raffiguravano certe donne disfatte, Le sue veneri pandemie che nel crollo costante di tutte le illusioni vi apparivano le delusioni più trionfanti, il mito quasi della sola verità umana sfolgorante nello spappolamento fino a una seduzione idolatrica. Il successo fu vasto, era sorto il Maccari pittore ed era stato convalidato da una vendita quasi totale fatta a un americano: Clark Kennet. L’arte sassaiola di Maccari aveva dato il suo fiore che attenuava la sua costante amarezza. Oggi i suoi quadri si trovano nella scuderia della galleria La Vetrina ed è Tanino Chiurazzi che ha la cura assidua di venderli. Ma se, oggi, si parla con Maccari di questa sua arte, che dovrebbe dargli conforto, risulta invece che è per lui fonte di altro amaro, perché la nuova legge gli ha ucciso le sue modelle, e infierisce arrabbiato. E’ stato un poco come se a Toulouse Lautrec avessero demolito, vivente ancora, il Moulin Rouge. Però Maccari, nel comunicarmi la sua nuova scontentezza, mi è risultato male informato: Nella notte, dopo che alla sera lo avevo incontrato nella redazione del Mondo e nel rifarmi la storia della sua vita aveva nervosamente disegnato teste mostruose di donne su tutta la carta che copriva il tavolo, mi trovai a passare via Due Macelli e mi accorsi che, nonostante la chiusura delle case perverse, quelle donne erano rifiorite più imponenti di prima, quasi idealizzate, con un’eleganza proterva e con una spavalderia di sguardi appena mascherata erano veramente ritornate ad esistere come quelle signore d’altri tempi, erano esattamente: quelle signore. E anche per questo mito ritornato valido Maccari avrebbe potuto sottoscrivervi la strofetta che aveva usato per il germanesimo: “Son tornate a fiorire le rose”.
Giovanni Comisso
da Settimo Giorno del 16/03/1959