La rada profumata. Hong Kong a febbraio. Impressioni di viaggio in Oriente di Giovanni Comisso

Proseguiamo il nostro viaggio in oriente in compagnia di una guida d’eccezione, Giovanni Comisso, che dopo averci fatto conoscere le perle della Malesia, ci accompagna ora nella rada profumata. seguiamolo…

Dicono che nel secolo scorso l’Inghilterra avesse pensato, per un momento, di disfarsi di quest’isola rocciosa e tempestosa. Ora è escluso che ciò si ripeta. Di qui essa penetra commercialmente in tutto il sud della Cina. Ancora, ha saputo crearvi un centro intellettuale di prim’ordine, aprendovi un’Università frequentata in massima parte da Cinesi. Oltre all’isola l’Inghilterra possiede una discreta zona di terraferma. Ci sono una linea ferroviaria con Canton, una rada meravigliosa e strade splendide in tutte le direzioni.

La città digrada sul ripido pendio del monte. Vi è un quartiere prettamente inglese con grandi palazzi d’alberghi, di banche e d’uffici, poi estesi o soverchianti quelli cinesi: quartieri di commercio, di divertimento, di miseria: vita frenetica, densa, aggrovigliata.

Nel mercato cinese

Hong-kong significa rada profumata. Due grandi strade si svolgono quasi parallele al porto, con insegne cinesi in forma di lunghe bandiere svolazzanti oppure fitte a tappezzare ogni angolo delle case, tutte con verande. Insegne dai caratteri bizzarri d’oro o rossi su fondi viola, verdi, gialli, che nella nebbia di certe mattine vibrano potentissime.

Grandi lanterne di carta pendono davanti a ogni negozio e alla sera s’illuminano. Raffinati e stupendi gli uffici di cambio: sala d’ingresso con antichi dipinti, finissimi ventagli sottovetro e massime augurali; lungo alle pareti sedie foderate di seta rossa ricamata, in qualche angolo grandi vasi con rami d’albero fioriti e narcisi sorgenti su da piatti di porcellana con il bulbo coperto da rametti di corallo.

Gli sportelli nel fondo, tra uno scenario dorato di trafori e sculture in legno. Gli affari vengono discussi accanto a una tazzina di tè; e quando viene la sera, i garzoni puliscono le monete facendole saltare nei panieri di bambù e tutta la strada risuona del tintinnio incessante.

Poi tutti fino all’ultimo servo si radunano attorno alla stessa tavola del padrone per la cena, e spenti i lumi si distendono le inferriate.

Così fa ogni negozio. Le farmacie cinesi non hanno diverso decoro. Medicine strane e incredibili esposte come tesori in urne di vetro.

Radici d’erbe, pietre, ossa, denti d’animali, pelli di serpenti, legnetti di misterioso potere, polveri indecifrabili e anche verdi serpentelli vivi. Roba che serve e non serve. Formule segrete, tramandate di padre in figlio. Tifo e vaiolo, dicono che sappiano curare perfettamente.

E la natura d’ogni male è indagata solo dall’attento ascolto del polso.

Negozi di pesce secco con le famose pinne di pescecane, delizia dei ghiotti, seppie d’ogni misura, pesci vari, tutti disposti con ordine, appesi al soffitto per specie, ogni pezzo a un filo di paglia.

Rosticcerie con porchetti lustri e rossastri come legni verniciati, polli squartati o compressi, interiora infilzate; teste d’anitra, ali, cosce, ciascuna appesa a un filo di paglia, formanti mazzetti dovunque.

Negozi di ceste, di cestini, di stuoie, di porcellane e terraglie, di mobili dalle forme quadrate, tutti frammisti ad altri di merci europee con giarrettiere, calze, cappelli, termos, lampadine elettriche e ventilatori.

Sarti e calzolai abilissimi e fedeli riproduttori di ogni esemplare. Guai a dare ai primi come modello un abito con una rammendatura: sono capaci di riprodurre anche questa.

Ma dal pendio scendono giù ripide e profonde oltre strade e stradette, con insegne di tela al vento e biancheria che asciuga fuori dalle logge e dalle finestre, e sotto tutto un sopraffarsi di bancherelle, un brulicare di gente, un risonare di richiami, di zoccoletti sbattuti, di parole armoniose.

Celerità, ritmo di vita

Bancherelle di fruttivendoli, di erbivendoli, di cianfrusaglie, persino con filze di denti umani: e fumose e rancide piccole trattorie. Un ragazzetto butta il suo soldino, afferra le asticciuole per mangiare, si sceglie un pezzo di fegato, lo bagna in salse diverse, lo volta e lo rivolta nella conserva di pomodoro, lo mangia e scappa a giuocare coi compagni.

Bambini innumerevoli: ve ne sono di piccini, che non avranno sei anni; sulla schiena, stretto in una coperta, reggono il fratellino nato da poco e giuocano mentre l’altro piange o dorme per suo conto.

Negozi pieni di lavoranti: chi batte pentole, chi intesse canestri, chi inchioda casse. Tutti con la frenesia di far presto.

Celerità nel lavoro e nel passo, quasi segno d’una convinzione profonda d’essere in troppi, che il cibo non basti e di dover fare gara a chi arriva prima.

Negozi d’anticaglie, dove il falso è mischiato all’autentico e agli oggetti europei più stupidi. Tazzine di giada accanto a lampadine usate e a vecchie serrature.

Nel retrobottega II padrone sta disteso sul suo letto a fumare l’oppio, con le dita arse e sottili va a cercare sul tavolino di porcellana le minute briciole d’oppio sparse e accuratamente le ripone.

Alle pareti antichi ventagli, in astucci foderati di seta vasi Kang-sj a fondo nero e quelli della Famiglia Rosa. Poi falsi bronzi, corrosi artificialmente. Sopra ad ogni cosa un grande Budda sorride tra rami fioriti.

Un funerale passa: il feretro è portato a braccia da una ventina d’uomini; le pareti laterali della cassa sono formate da un grosso tronco tagliato in quattro ; dietro vengono i parenti vestiti di bianco, ché questo è il colore di lutto, le donne col capo avvolto in un fazzoletto sono sorrette di peso, sotto alle ascelle, perchè segno grande di dolore è  dimostrare di sentirsi paralizzate le gambe, e le loro gambe pendono smorte.

All’aria aperta

Portatori, portatori dovunque che gridano per farsi largo tra la folla. Tutto è portato a bilanciere sulla spalla; le loro esili mani sdegnano il peso, solo sopportano quello delle vivande comperate.

Escono dalle botteghe, dal mercato, scendono dalle strade con gli acquisti tutti appesi alle dita con fili di paglia: un cavolo, un pesco, un quarto di pollo.

Dai bambini ai vecchi tutti sono per le strade: pare che non possano sopportare di rimaner chiusi in casa. Gli occhietti neri, fermi tra le palpebre socchiuse, e come assorti: invece attentissimi.

Tutto osservano e spiano con l’avidità dei semplici, ma non vogliono rivelare la debolezza di questo umano piacere. E’ raro sentirli ridere, vederli scherzare tra loro, rompere la severità del loro contegno.

Come è raro trovar dei mendicanti. E se ci sono, ecco per terra questo ragazzo addormentato col cappello sugli occhi e il fratellino appena nato tra le braccia: davanti, una carta spiega il caso e qualche moneta la trattiene al vento. Oppure quest’uomo seminudo, livido e panciuto, con certe linee di Budda, addossato alla muraglia, lo sguardo sperduto e la mano ferma in attesa.

Alla folla s’aggiunge un esercito di coolies. Hanno portantine o carrozzelle. Un cappello di paglia azzurro a cono e corta tesa piatta, portato in parte alla bersagliera sulla grossa testa; se fa caldo vanno a dorso nudo e se piove si coprono con un bizzarro impermeabile di liane. All’uscita degli alberghi, dei teatri, agli sbocchi dei vicoli, agli approdi dei battelli sono a compagnie che attendono urlando il richiamo.

Gente misera e gente ricchissima. Gente costretta a vivere con due lire al giorno e gente che ne spende diecimila solo per un pranzo.

Vi sono famiglie che vivono su barchette sotto a breve riparo di stuoia: là nascono e muoiono, un calderotto fuma nel fondo, una donna col figlio sulle spalle vaga senza paura tra l’incrocio dei vapori : ce ne sono a migliaia e ogni tanto, se non pensano i tifoni a sommergerle e a distruggerle, sono i proprietari stessi che per disperazione s’annegano. Altri dormono in dieci in piccoli stambugi, tane di vaiolo e di tifo, e a due passi sono i grandi alberghi di West Point, la Montmartre cinese!

I grandi alberghi

Qui vi sono sette grandi alberghi cinesi di cinque o sei piani, con sontuosi atri pieni di festoni di stoffa dorata e luci innumerevoli. Ogni albergo è diviso in grandi sale che vengono affittate separatamente. Superbe automobili americane arrivano cariche di cinesi, dall’apparenza severa come religiosi o sapienti, chiusi nella lunga tunica di seta.

Vengono ricevuti in sale speciali, con sedie tutte foderate di seta ricamata rossa o celeste. Grandi e ripetuti inchini del padrone.

Durante la cena di venti, trenta piatti vogliono orchestra o teatro appositamente per loro. In ogni salone vi è un piccolo palcoscenico e, con pose studiate e voci da gatto, attori e attrici si susseguono accompagnati da un ritmo tremendo di piatti, tamburi e cornette capace d’eccitare un’armata all’assalto.

Accanto alla tavola per mangiare vi è quella da giuoco e a certa ora il ticchettio delle piastrine del magiong domina tutto l’albergo e persino la strada. Dipinti bellissimi su seta alle pareti, tutte decorate in legno di tek e porcellana. Pertanto vi sono schiero di ragazze che vengono ad assistere alle cene, come graziose comparse. Sono ragazze che sperano un matrimonio, si fanno pagare per farsi vedere, rimangono cinque minuti in un salone, cinque in un altro.

Versano il liquore ottenuto dalla fermentazione del riso in minuti bicchierini, che segnano l’inizio e l’innumerevole variare dei piatti. Tutta la notte per loro è spesa cosi. In genere per noi riescono, più che ridicole, compassionevoli: ondulate e impastate esageratamente nei capelli, immerse in profumi banali, vestite alcune con toilettes europee stonatissime sulle loro figure di bambine.

Una che si chiamava Ciliegia attendeva da cinque anni l’occasione di sposarsi: intanto a forza di farsi vedere aveva raccolto discreto peculio e viveva in casa propria. I giovanotti cinesi solo per vederle e parlare con loro vanno pazzi e le colmano di regali.

Grandi rami fioriti dovunque, ma l’odore dell’aria è acre perché ogni salone ha anche i suoi letti per fumare l’oppio, e il frastuono indemoniato dei teatrini, con una musica da far ballare l’orso, non agita i fumatori annichiliti.

Giovanni Comisso

Pubblicato sul Corriere della Sera il 30 marzo 1930

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