Lo scorso 16 marzo è uscito per Neo Edizioni La Passione secondo Matteo, ultimo romanzo di Paolo Zardi. Anche questa volta l’autore ha tracciato un solco perfetto: il romanzo mette in fila, infatti, tutta una serie di riflessioni sul nostro modo di stare al mondo, arroccati su certezze costantemente esposte a minacce, come la famiglia, il lavoro o la fede in una religione che ha perso gran parte del proprio mistero. L’amore, sentimento «inutile» per eccellenza, si staglia sullo sfondo di un Occidente afflitto dal vuoto spirituale e di un territorio – quello ucraino – martoriato da ferite profonde ma, allo stesso tempo, forte della propria dignità.
La Passione secondo Matteo rivela come, in nome di una giustizia superiore, l’amore possa scegliere di percorrere la strada più difficile, costellata da sensi di colpa e sofferenze.
Paolo, com’è nata l’idea di scegliere il mito biblico della crocifissione e di elevarlo a simbolo d’amore oltre misura?
L’incubazione di un romanzo è un processo molto lungo, talvolta tormentato, che passa attraverso una serie di decisioni non sempre consapevoli. Nel caso di questo libro, ci sono almeno due nuclei iniziali: La passione secondo Matteo musicata da Bach, che ho conosciuto nel 2008 grazie a un ascolto del tutto casuale, e un rapporto complicato tra un uomo fin troppo rispettoso delle convenzioni e un padre ingombrante e dal passato turbolento. Da principio i due temi hanno viaggiato lungo binari separati; con il passare del tempo, però, si è verificata una sorta di confluenza, favorita anche da certe letture di Campbell, che è uno dei massimi studiosi di miti e grazie al quale ho scoperto che esistono alcune “storie” che compaiono in tutte le culture, declinate di volta in volta in modo diverso.
Il Natale, ad esempio, e più in generale la storia del figlio di Dio che si fa uomo e poi viene ucciso, ha almeno cinquemila anni. Il Cristianesimo ha avuto il merito di aver fatto convogliare miti e tradizioni in un’unica grande narrazione: la teologia che si è sviluppata in Occidente, pur con le sue ingenuità e le sue mistificazioni, rappresenta oggettivamente uno dei punti più alti del pensiero umano.
Nel caso di questo romanzo, mi interessava l’aspetto del sacrificio e della salvezza, con tutte le sue ambiguità. Quando Gesù esala l’ultimo respiro in croce, sul Golgota, chi muore? L’uomo o il Dio? E chi viene salvato? Quando Dio caccia l’uomo dal paradiso terrestre, condanna il proprio figlio alla morte, un’esperienza esclusiva che Lui non potrà mai provare. Questa differenza è un solco enorme tra Dio e la sua creatura più amata; una frattura capace di compromettere per sempre l’evolversi del loro rapporto, che solo la crocifissione di Gesù riuscirà a ricomporre. Per certi versi, il sacrificio di Cristo salva Dio dal suo peccato originale, che è la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre. Eccetera eccetera. Non sono un teologo, e queste considerazioni evidentemente non hanno alcuna pretesa di essere prese sul serio, da questo punto di vista. Scrivo romanzi, il che richiede che io abbia una naturale inclinazione alla menzogna, alla deformazione sistematica e opportunistica della realtà. Platone odiava la tragedia perché mentiva: non riusciva a sopportare l’idea che qualcuno piangesse per qualcuno che faceva finta di morire; lo considerava umiliante e poco dignitoso.
Houellebecq, in un’intervista abbastanza recente, sostiene che uno scrittore non dovrebbe avere mai un’idea precisa, un parere strutturato, riguardo le cose che racconta, e in questo senso mi sento particolarmente avvantaggiato dai miei interessi eterogenei e tutto sommato vaghi. I fatti, le teorie, le grandi costruzioni del pensiero mi interessano soprattutto quando riesco a farli entrare in una storia per i risvolti rilevanti dal punto di vista drammaturgico; e se non ci entrano in modo preciso, non ho problemi a piegarle secondo le mie esigenze.
La Matthäuspassion di Bach che citi in epigrafe e che ritorna più volte nel romanzo mi pare abbia la funzione di segnalare i momenti più importanti in cui i personaggi vengono a contatto tra loro. Puoi dire qualcosa di più a riguardo?
Ricordo bene il momento esatto in cui ho sentito per la prima volta la Matthäuspassion di Bach: era la primavera del 2008, ero a casa dei miei genitori, seduto sul divano, e parlavo con mio padre. In sottofondo, Bach. Non credo di avere mai sperimentato la sindrome di Stendhal, ma in quel momento ho vissuto un’esperienza che potrei definire mistica. Sono ateo, ma questo non mi impedisce di provare sentimenti religiosi – di capirli. E la Matthäuspassion di Bach sembra parlare proprio a quell’area del cervello, o del cuore, che cerca una dimensione “superiore”, oltre i confini del mondo. Durante la scrittura di romanzo ho continuato ad ascoltare quest’opera, e la sensazione che avevo era che fosse un mondo che continuava a espandersi. Anche oggi, a distanza di tempo, l’ascolto dell’ouverture mi emoziona fino alle lacrime – è successo questa mattina, ad esempio, accompagnando i miei figli a scuola. L’intensità di questa musica, e il mistero della sua bellezza, mi colpiscono a livello fisico: credo che perfino l’ippocampo, perfino le strutture rettiliane del mio cervello, fremano al loro ascolto.
Ma “La passione” di Bach entra, di soppiatto, anche per un altro aspetto importante che definirei metaletterario. Nella Germania protestante, quest’opera è considerata il quinto vangelo; nel settecento e per gran parte dell’ottocento, si riteneva che la sua musica fosse nata per ispirazione divina. Leggendo alcune biografie di Bach, però, emerge in modo chiaro che la genesi della Matthäuspassion fu molto terrena; che alcune sezioni erano state composte per occasioni, diciamo così, secolari – matrimoni di potenti, celebrazioni di principi – e che furono riutilizzate in questo contesto del tutto diverso, con interventi minimi. E questa storia mi piace perché smantella un assunto romantico piuttosto diffuso secondo il quale dietro l’opera d’arte ci sono solo ispirazione e sentimento. Bach utilizzava la sua tecnica prodigiosa per creare musica divina. Mi piace pensare che questo sia l’obiettivo che ogni scrittore dovrebbe perseguire.
Tra i vari mali che affliggono l’Occidente dipingi un mondo del lavoro che sta diventando sempre più ostile, in cui si è costretti a difendersi da nemici invisibili e, forse per questo, ancora più insidiosi. La distopia prefigurata in XXI Secolo sta, dunque, diventando realtà?
Credo che qualsiasi tentativo di fare una previsione sul futuro che vada oltre i sei mesi successivi sia destinato al fallimento. Il mondo evolve secondo linee sconosciute, dove eventi microscopici possono scatenare una catena di eventi del tutto imprevedibili: un tipico sistema non lineare.
Quello che faccio quando scrivo, dunque, non è provare a immaginare il futuro, ma cercare di rappresentare il presente, e più in particolare gli effetti del presente sulla sfera della mia esperienza personale, con la lente deformante della fiction. Per me non è importante sapere se la realtà che racconto è verosimile dal punto di vista sociologico, politico o economico; se la tendenza dell’Occidente per i prossimi anni è il declino o un’impetuosa ripresa, la crescita inarrestabile o una stagnazione secolare. Ciò che mi interessa è riprodurre, con la massima fedeltà possibile, la percezione che ho come essere umano – come padre e marito e figlio e lavoratore calato in questo mondo.
E quello che sto vivendo ora, e che ancora di più ho vissuto negli anni in cui ho scritto “XXI secolo” e “La Passione secondo Matteo”, è la sensazione che sia davvero finito un mondo. Sono cresciuto in un’epoca in cui c’era grande fiducia nel futuro: i miei genitori erano più ricchi dei miei nonni, più istruiti, più sani; perfino più alti. Eravamo convinti che la curva di crescita avrebbe mantenuto sempre la stessa inclinazione positiva; che nel 2000 avremmo avuto basi permanenti nella Luna, e che non ci sarebbe più stata la fame nel mondo; e che non sarebbe mai esistito il problema di trovare un lavoro, o di dover tenersene stretto uno mal pagato e senza garanzie. Un pezzo alla volta, lo stato sociale è stato smantellato: è stata smantellata perfino l’idea che sia giusto, lecito, sacrosanto, volerne uno. Quando mio nonno ha iniziato a lavorare, alla fine degli anni venti, sapeva dove sarebbe stato il giorno in cui sarebbe andato in pensione; mio padre è andato nello stesso ufficio al secondo piano dell’istituto di fisica nucleare di Padova per tutti i quarant’anni della sua carriera universitaria; io, non so neppure che nome avrà l’azienda per cui lavorerò tra sei mesi. Ciò che caratterizza questo tempo non è il fatto che le cose stiano andando male – sono sicuro che ci sono stati periodi molto peggiori di questo: l’essenza del XXI secolo è che le cose stanno andando peggio. Improvvisamente ci siamo svegliati e ci siamo resi conto che il futuro che ci è stato raccontato era una favola senza alcun fondamento. Credo che i miei libri parlino soprattutto di questo: del disincanto che la mia generazione sta vivendo sulla propria pelle.
Mi pare tu non metta mai realmente in discussione l’amore, a volte disfunzionale, dei genitori verso i figli. Nel legame tra fratelli sembra rimanere qualcosa di magico proveniente dall’infanzia (penso anche a XXI Secolo quando scrivi «non si finisce mai di essere fratelli»).
I sentimenti per il proprio compagno o la propria compagna sono forse, invece, qualcosa di costituzionalmente più fragile, votato in qualche modo al fallimento?
È vero: in quasi tutto quello che scrivo, il sentimento amoroso che unisce due adulti, l’amore coniugale in senso lato, risulta piuttosto fragile. E credo che, come giustamente dici tu, questa fragilità sia costituzionale, intrinseca, ineludibile: il suo fondamento, il punto di partenza, è l’attrazione sessuale, una base sulla quale nessuna persona ragionevole sarebbe disposta a costruire neppure una capanna; eppure, proprio su questa forza mutevole e incerta si fondano progetti che, almeno nelle intenzioni iniziali, dovrebbero durare per tutta la vita – finché morte non ci separi. Dal punto di vista drammaturgico, questa instabilità di fondo del rapporto amoroso tra due adulti, questa contraddizione insanabile e terribile, è un motore inesauribile di storie. Quando mi chiedono come mai il matrimonio compare così spesso nelle storie che racconto, la prima risposta che mi viene in mente è sempre: e di cos’altro dovrei parlare? Del paesaggio?
Del rapporto tra genitori e figli amo, invece, soprattutto l’asimmetria e il fatto che non ci sia alcuna possibilità di scelta. Non esiste un istituto analogo al divorzio, in questo legame: qualcuno mette al mondo un essere umano e da quel momento in poi nulla sarà come prima. Un atto irreversibile, e quindi tremendo. I fratelli, invece, hanno la fortuna di percorrere insieme il tratto di strada più divertente e struggente della vita, che è l’infanzia: è raro che la dolcezza e la follia di quegli anni vengano dimenticate. E forse proprio questa bellezza senza troppe ombre è il motivo per cui è così difficile trovare buoni romanzi che parlino di fratelli. Caino e Abele sono una simpatica eccezione.
Penso spesso a quello che diceva Stendhal: l’amore è una galassia della quale siamo riusciti a descrivere solo due o trecento stelle, e neppure le più luminose. Esistono così tante possibili combinazioni di amore da riempire i romanzi dei prossimi tre o quattro secoli.
Anche nella Passione secondo Matteo, similmente a come fai in XXI Secolo, scrivi a un certo punto di «un cielo che continuava a pisciare pioggia». Chi sono i tuoi maestri o le tue fonti d’ispirazione?
[A me quell’immagine fa venire in mente Blade Runner, ma forse è solo nella mia testa!]
Confesso di essere uno dei pochi esseri umani al mondo che non ha mai visto Blade Runner (e ho il sospetto che ormai sia troppo tardi per recuperare: certi film vanno visti in un particolare momento della propria vita). Le mie fonti di ispirazione sono quasi tutte letterarie – ho una cultura cinematografica piuttosto ridotta.
Ho iniziato a leggere prestissimo, e nel corso della mia vita ho avuto diverse passioni; alcune sono rimaste, di altre ancora oggi mi chiedo: come è stato possibile?
Il mio personale olimpo: Franz Kafka, forse il primo scrittore del quale ho letto tutto, ancora adolescente; subito dopo un altro ceco, Milan Kundera, incrociato a sedici anni e mai più abbandonato: anche ora, a distanza di trent’anni dalla prima lettura de L’insostenibile leggerezza dell’essere, mi rendo conto di essere enormemente debitore nei confronti di questo romanzo; Philip Roth, probabilmente lo scrittore più importante della mia vita; Flaubert, inventore di quella parte di letteratura contemporanea che io amo; Martin Amis, inglese poco conosciuto in Italia, la cui lingua è un’invenzione continua; Cechov, con la sua capacità di creare esseri umani in carne e ossa; Vladimir Nabokov, forse il più geniale tra gli autori che amo, il più perfetto; e poi Flannery O’Connor, Saul Bellow, Céline…
Nei loro confronti provo una sincera adorazione, mitigata dall’ironia (che peraltro loro stessi hanno posto a fondamento delle loro opere). Ne sono stato influenzato e talvolta sono arrivati a plagiarmi: non è facile mantenere la propria identità di autore quando si leggono cinquecento pagine in cui, a ogni riga, si pensa “questo avrei voluto scriverlo io”. Qualche volta li ho ripudiati per trovare, o ritrovare, la mia voce, ma non ho mai smesso di cercarli. Da ragazzino, quando giocavo a calcio, battevo centinaia di punizioni cercando di imitare la perfezione di Platini: il fatto che non ci sia mai riuscito non mi ha mai fatto desistere dal tirarne un’altra.