Nella biblioteca del teatro di Voghera, dove sono custoditi i libri sui quali studiò il primo Arbasino, mi pare di aver visto molti classici, non molti libretti d’opera.
Ma della divorante passione di Arbasino per la lirica abbiamo una prima data certa, il 1953: “Medea” di Cherubini, con la Callas diretta da Bernstein.
Arbasino c’è, c’è anche lui nel foyer, e nell'”Anonimo lombardo” racconta all’amico Emilio di aver visto quel giorno, quella sera, prima dell’inizio di quell’opera, alla Scala “un Giovin di capelli nerissimi“.
Lui vorrebbe, sì vorrebbe ma… no, non può resistere alla Callas.
Prima c’è l’opera: “Quel coro di Argonauti mi piaceva da matti, me lo sono subito imparato per inserirlo tra le melodrammatiche marce che mi fanno morire“.
L’anno successivo, il 14 settembre 1955, è a Venezia per le sue vacanze post-laurea a vedere “L’angelo di fuoco” di Prokoviev, alla prima mondiale alla Fenice.
La lirica, soprattutto i giochi di parole dei famigerati libretti – da Busenello a Illica – diventano il vocabolario della sua narrativa.
E’ l’opera il suo amore segreto.
I libretti sono un serbatoio di accostamenti da far impazzire Arbasino.
Fino al XVIII secolo folleggiano i “disarmati e impotenti amori” di Busenello, il “velenoso amor”, l'”amator malveduto” gli “sciapiti amplessi” che poi diventano, con il Conte di Luna del “Trovatore”, dei giochi di parole trasformati in detti popolari: “Ah, l’amor l’amore ond’ardo” che si trasforma persino nel vogherese in “l’amore è un dardo”.
Da impazzire.
Ma nella lirica, lui, ci entra davvero, un paio d’anni prima dei pomodori di Capanna alla prima del ’68 alla Scala.
Nel 1966 è al Cairo, “in piena età Nasser e in assoluta economia”, e mette in scena una “Traviata“.
L’anno dopo, che è l’anno meno uno della Rivoluzione, realizza una “Carmen” per il Teatro Comunale di Bologna. E udite con chi: scene di Vittorio Gregotti – anche lui scomparso una settimana fa – e costumi di Giosetta Fioroni. Dietro le quinte, con funzione di drammaturgo, diciamo, Roland Barthes, quasi al culmine della sua gloria.
Al torero Escamillo la Fioroni fa indossare una maglietta con una grande E sul petto, stile rapper odierno. Le sigaraie sono abbindate con palline da ping pong. Escamillo è Superman, sopra una scala d’argento e la Carmen ammanettata è un po’ mignottesca: “a modo suo tentava audacie alla Artaud sopra Don José affondato fra cuscini d’argento entro gradoni da pre-discoteca”, disse Arbasino.
Quella “Carmen” era come un gigantesco happy hour presessantottesco i cui riferimenti – notò Stefano Di Michele anni fa per “il Foglio” – vanno in fondo cercati nella descrizione di Madame Sesostris della “Terra desolata” di T. S. Eliot.
Forse gli piaceva anche Stravinskij, forse la musica russa.
Recensore di serata, non entrava mai nel tecnico soporifero e inconcludente di certi critici musicali ammazzamusica.
Nel marzo del 2007, per la “Fille du Régiment” alla Scala, sentite cosa scrive su “la Repubblica”: “Qui, accanto alla mirabile Anna Proclemer, che rifà le più formidabili Lady Bracknell d’Oscar Wilde, ai tempi illustri e magistrali di Edith Evans, trionfa saltellando e incespicando, trottolino e tombolotto, l’amatissimo Juan Diego Flórez, finto sempliciotto e tipico paraculetto, ninnolo, giuggiola, e biscuit.
Su una cabaletta valzerosa come l’antica Sulle, sulle labbra da salotto, squilla note ficcanti e perentorie come quando Rockwell Blake (anche lui a Pesaro) forzava con sicurezza una preoccupante voce di testa; ma rigirandosi poi in un velluto alla Alfredo Kraus, e scatenando battimani e pestoni da Radetzky Marsch nei Capodanni viennesi“.
A Vienna, a Salisburgo, ad ascoltare Wagner e alla Scala, forse ancora un paio d’anni fa.
Da dopo che scrisse le “Piccole vacanze”, ai conoscenti di lirica mandava – di tanto in tanto – cartoline dai posti dove si trovava o dove aveva assistito a opere.
Con qualche gioco di parole incomprensibile, come queste morti.
Pierluigi Panza
Immagine in evidenza: “Carmen”, regia di Alberto Arbasino, 1967