6 febbraio 2018
“Anche la mia ora è passata… il momento è venuto che anche la mia opera di risibile scrittore venga infilata in uno scaffale, in quel millimetrato ossario che le compete”. Ha il sapore di un testamento il finale della lectio magistralis che Goffredo Parise pronuncia nell’Aula Magna dell’università di Padova, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in lettere. Un discorso per il resto incentrato sulla fantasia e il suo potere creativo e liberatorio. Quell’8 febbraio 1986 a Padova nevica, e Parise arriva a Palazzo Bo coperto da un pastrano e da una lunga sciarpa: “Non può prendere freddo, ieri ha fatto l’ ultima dialisi, si sente debole”, annoterà il giorno dopo su Repubblica Stefano Malatesta. Lo scrittore vicentino si sarebbe spento pochi mesi dopo, a 57 anni. Riproponiamo oggi le sue parole grazie alla collaborazione del Centro per la storia dell’Università di Padova.
Lectio Magistralis in Aula Magna, 8 febbraio 1986
Sono stato chiamato in questa Università per ricevere una laurea in riconoscimento del mio lavoro, un lavoro che al giorno d’oggi appare anacronistico e persino risibile. Eppure la parola nasce da scriptor e come scriptor essa accede di colpo a dignità.
Sono stato chiamato qui non per aver arricchito una azienda, una famiglia e nemmeno me stesso con il mio lavoro di scrittore. Ma questa Università, orgogliosa sede delle sue discipline umanistiche, mi ha chiamato perché ha ritenuto di trovare nella mia opera, nel complesso dei miei scritti quel nescio quid, quel qualche cosa in più, quella molecola di novità che ha permesso di fare un microscopico passo in avanti alla letteratura italiana.
Di questo rilievo e di questa laurea sono grato al Rettore, alla Facoltà, ai docenti. Quello che l’Università ha ritenuto mi sia dovuto ora mi è stato consegnato.
Tuttavia è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Il merito, non di Cesare ma di Dio o del destino, va dato soprattutto all’esistenza dell’immaginazione, cioè alla libertà e allo spazio d’immaginazione che per la mia generazione è nato nel 1945 alla fine della seconda guerra mondiale e durato nel mondo circa vent’anni.
Poi una rivoluzione, qualche cosa di tellurico per l’immaginazione è salito alla superficie, qualche cosa di paragonabile soltanto alla rivoluzione agricola è accaduto nel mondo e la libertà di immaginazione, ciò che fa sognare e poetare l’uomo da vari millenni, si è trovata stretta nelle spire del programmatico, tutt’al più del noto e dell’antico: oggi così siamo indotti allo studio delle testimonianze dell’immaginazione, come in questa università umanistica, o a frugare tra i suoi antichi tessuti alla ricerca di sistemi combinatori che diano l’illusione della libertà.
“Umore capriccioso”
“In the mood”, il famoso boogie, ha segnato la data di quest’ultima libertà d’immaginazione e, con lo stesso titolo, il mood dell’epoca. Non facile tradurlo perfettamente in italiano, anche per la sua eccezionale componente fonica di suono e significato tutto inglese. Forse “capricciosamente” o “a capriccio” o “umore capriccioso”. In ogni caso quel boogie, quel tempo, quel ritmo inventò un’epoca che coinvolse il mondo nella grande aura della libertà. Questa libertà non era dovuta soltanto alla fine di una guerra, anche se coincise con essa, né agli schieramenti che combatterono, né alla vittoria dell’uno sull’altro, né alle parti politiche. Vista a distanza la libertà, e con essa il massimo di libertà di immaginazione possibile, giunse in Europa e nel mondo perché doveva giungere, perché non poteva non giungere, indipendentemente dagli anni di guerra, senza precise cause e senza precisi effetti; giunse, come si dice sbagliando, dal cielo. Ecco il dio a cui va dato l’onore.
La libertà è un grande scoppio di energia vitale e centrifuga.
Bisognava fare tutto, dal cibo ai grattacieli. Fu il momento dell’azione e ancora una volta quel magnifico boogie divenne l’inno mondiale dell’azione dei corpi nella loro massima espressione di libertà pratica, immaginativa e spirituale: corpo e cervello si accordavano perfettamente per esprimerlo, la vitalità ne era l’impulso quasi meccanico. Curiosamente qualche cosa del genere era accaduto anche nel primo dopoguerra e in maggior numero furono quelli che sollevarono il capo dallo studio tradizionale dei testi per rincorrere l’immaginazione. Ad ogni modo “in the mood” fu una musica assai più grande, in senso filosofico e persino metafisico, di quanto si possa oggi pensare. Fu la musica “ad hoc”.
È vero, probabilmente è vero che una qualche grazia doveva avermi toccato se proprio in quegli anni abbandonai questa stessa Università ed il suo sempre amato Tito Livio di Arturo Martini, per mettermi a scrivere senza l’aiuto, il corpus di una cultura universitaria: ma qualcosa premeva oggettivamente nelle cose, nel mood e dentro di me e non ammetteva ritardi. Il soffio potente della libertà mi aveva strappato dagli studi di letteratura e mi portava inconsapevolmente nella letteratura. Ma quale letteratura? Ancora una volta devo rispondere: quella che nasceva dal vento potente della libertà. Non potevo certo dire come Rimbaud “j’ailutousleslivres” ma era “come se…” avendo da leggere imperiosamente la vita, quel particolare segmento storico di vita.
Preferivo i poeti, specialmente Montale che in buona parte inventava: suono, lingua, pensiero.
Mi pareva di dover rappresentare la libertà, il caos, su quella lieve spirale di fumo del romanticismo finito proprio pochi mesi prima tra le macerie.
Mi attraevano le cose e la loro sostanza organica e non obbligatoriamente letteraria, l’odore della vita e delle sue stagioni, passando attraverso testi diretti. Fu così che a diciannove anni scrissi il mio primo romanzo, “Il ragazzo morto e le comete”. Cos’era quell’alternarsi di sequenze cinematografiche, in ogni caso visive, quell’amalgama di sogni, di sensazioni, di odori, di muffe e di tombe? La mia idea di fondo era di scrivere un romanzo giallo, figuriamoci: il risultato fu una psycho-game, un intreccio psicotico.
In ogni modo la mia buona stella mi portò senza difficoltà a un editore, Neri Pozza, che lesse, si entusiasmò, brontolò per i miei “studi irregolari”, come egli stesso ebbe a scrivere in una presentazione editoriale, ma pubblicò il libro, e con esso la libertà compositiva fatta, come ho detto, di spezzoni visivi e sensoriali; fu in parte capito, in parte no, in ogni caso lodato. Visto a distanza ho la pretesa che esso mantenga ancora un soffio di quella libertà, niente di più. Mi pareva allora che la struttura del romanzo, per così dire ottocentesca, fosse troppo stretta per i miei giovani anni e che la “soluzione neorealistica”, allora in pieno vigore, fosse troppo di derivazione letteraria immediata. Mi pareva che molta parte di letteratura francese, inglese e americana avesse in qualche modo rotto le regole ferree che costringevano il racconto e che il neorealismo non si potesse assolutamente risolvere col fitto dialogo maturato da Hemingway.
Mi pareva che la poesia dovesse assumersi la prosa e viceversa. Mi pareva che il realismo, il naturalismo della letteratura italiana e non italiana dovessero aprirsi e scomporsi al di là delle regole tradizionali e scolastiche, così come la canzonetta italiana si era aperta al boogie.
Mi pareva che si dovessero seguire altre vie che erano già state aperte dalla scoperta dell’inconscio e da altri scrittori non italiani. Mi pareva, fiutando più che leggendo i documenti che venivano da fuori, che la fantasia, cioè il subconscio dovesse avere la prevalenza sul conscio, cioè sullo storico. Mi pareva che la sensazione soggettiva, la sempre inesatta pressione del sangue, cioè il sentimento individuale, non potesse prestarsi ad alcuna oggettivazione e infine che l’assurdo, il non storico, il casuale e l’oscuro che è in noi nel suo perenne filmato dovesse prevalere sullo storico, e non programmaticamente ma in modo quasi gestuale, smembrato, come il boogie appunto.
Era una idea della letteratura in qualche modo romantica, in qualche modo rivoluzionaria, che del resto era stata troppo sbrigativamente proposta dai futuristi ma in modo illuminante dalla pittura di De Chirico. Era una idea certamente non profetica, al contrario. Con pregi e difetti ritengo che “Il ragazzo morto” e “La grande vacanza” che seguì a due anni di distanza siano il mio vademecum, il mio baedeker. Eppure sono ancora, tra quello che ho scritto, i miei romanzi di gran lunga meno conosciuti.
Avendo abbandonato l’Università da allora non mi restò altro che sperimentare, girando attorno ai miei baedeker, e non sempre con intima fortuna. Alle volte mi allontanai da loro e non fu buona cosa. Nel complesso fu un attivo? Ho i miei dubbi.
Ho fatto quel che potevo e quasi mai quel che volevo.
Azione finita
Poi passarono gli anni e la libertà aveva fatto tutto quello che doveva fare. Aveva ricostruito le nostre vesti, il nostro paese. L’azione era finita, cominciava l’amministrazione. Per tutto. E qui apparvero in tutta la loro forza impiegatizia e burocratica i partiti politici a praticare un’arte ben diversa da quella letteraria, di certo molto più potente, infinitamente più potente e forse utile, chissà?, detta l’arte della politica, che nel nostro paese credo abbia dato i risultati più geniali del mondo. E ancora una volta il fine di duemila anni di amministrazione della Chiesa cattolica a cui siamo e saremo sempre ombelicamente legati.
Con l’arte della politica il benessere, con il benessere il boom economico, il consumo, i consumi, la teologia televisiva. Non posso dire di non aver subito il colpo, come è testimoniato nel mio romanzo “Il padrone”.
Conscio, subconscio, realismo e realpolitik, strategia e programmi entrarono a far parte della letteratura, l’aria, il vento della libertà, la polvere delle sue macerie e il battito del martello pneumatico cessarono e furono sostituiti dall’amministrazione, da quella che Montale chiamò “l’ora della focomelia intellettuale”, dell’ “ossimoro permanente”.
Anche la mia ora è passata. Mi piacerebbe molto poter ancora testimoniare da “scriptor” privo di computer, nel modo che è stato riconosciuto come il mio stile, altre avventure del barone di Münchausen, del marinaio Ahmed, del sottosuolo e del pavimento tout court. E forse, chissà, se avrò sufficiente energia potrò farlo! Ma il mood è lontano, sempre più lontano e in ogni caso ce ne fu uno e uno solo.
Forse invece non sarà più possibile perché, se lo stile ha degli eredi, l’arte è come una farfalla senza eredi e capricciosa, si posa dove e quando vuole lei. È inoltre un insetto, come tutti sanno, a vita breve.
Forse invece il momento è venuto che anche la mia opera di risibile scrittore venga infilata in uno scaffale, in quel millimetrato ossario che le compete.
Goffredo Parise