Non c’è inizio più eloquente dell’epigrafe: quella piccola sosta sull’uscio delle pagine, consapevolmente indiziale perché il lettore possa, da subito, calarsi dentro il senso della storia. Partiamo da qui.
“A una certa ora di un dato giorno” (La nave di Teseo, 2020) di Mariantonia Avati si apre con un inciso didascalico, di grande semplicità quanto di grande effetto, che ci ricorda il significato del termine scomparire. Deceduto o no, quando qualcuno scompare, cessa di esistere, svanisce, esce dalla scena e dalla vista, smette di occupare un posto nella vita di qualcuno. E la vicenda di Emma, protagonista che dà voce al racconto, sa appunto di una sparizione affettiva – in un certo modo, anche della sua – che intreccia, in un incedere sofferto e sincopato, il passato di bambina e di figlia, al presente di moglie e madre. Al dolore illogico dell’abbandono da parte del padre quando ancora bambina, si aggiunge quello del fallimento coniugale che la donna sembra subire con il pudore e la sopportazione di chi si trova a essere nuovamente impreparata.
La crisi e la fine del matrimonio con Luca – che di estinzione pure si tratta – costringono Emma a fare i conti con una sofferenza stantia e irrisolta che, nel rimescolare speranza a paura, debolezza a determinazione, complicità a innocenza, la indurrà a compiere un percorso di liberazione che somiglia anche a un congedarsi da sé e da quello che fino allora si è stati.
Comincia così un racconto pacato e introspettivo che contiene tutta la prudenza e la precisione di una manutenzione che si fa a un oggetto rotto o danneggiato.
“La sabbia che scorreva dentro la mia clessidra e che precipitava alla stessa velocità con la quale io ti sprecavo il tempo, persa nel credermi ancora come ormai non ero più. (…) Stentavo a mantenere la medesima oggettività nel valutare me stessa. Faticavo ad allineare la mia età anagrafica a quella emotiva, e soprattutto ritenevo che gli accadimenti degli ultimi tempi fossero sproporzionati alla persona che ero. Mi sentivo acerba rispetto a quanto la vita mi chiamava di affrontare e attendevo di fare il salto temporale che mi avrebbe permesso di comprendere le cose in modo diverso.”
Si torna a parlare di amore, ma non alla maniera di un manuale né di un bugiardino: non si sorvolano i difetti e gli effetti indesiderati dell’esperienza amorosa né si esalta l’amore come unico ingrediente a guidare le scelte. Al contrario, con una voce contemporanea e attenta che è più urgenza di doversi confrontare con i vizi e le manomissioni delle relazioni che non con la morale della favola amorosa, il racconto di Emma e Luca mette a nudo l’effetto collaterale dell’(auto) inganno e le imperfezioni che pure esistono dentro i sentimenti e le dinamiche di coppia.
La storia si dipana dentro una raffinata matassa di implicazioni psicologiche: le affezioni dei legami narcisistici ed egoistici; l’ingenuità che fa pensare all’amore come un sentimento perfetto quanto sufficiente a se stesso e che non richiede né prove né sforzi di mantenimento; l’incapacità di arrendersi alla consapevolezza che la persona amata si possa trasformare anche in quella sbagliata; l’incontro col dolore e fragilità altrui che reclamano un posto anche dentro l’altro; la tendenza a nascondere le parti difettanti e vulnerabili di sé; l’ insistenza a stare insieme che sa più di resistenza tecnica o di dipendenza che non di un affare di cuore. A questo, si aggiungono il problema della dipendenza dalla droga (di Luca) e la violenza verbale domestica che esercita sulla moglie, temi che imprimono un’ulteriore attualizzazione alla morfologia del racconto.
E’ un romanzo che stenta a offrire una versione edulcorata delle relazioni d’oggi, ricalcando i toni e i ritmi di una piccola tragedia personale accompagnata da dubbi, esitazioni e mille contraddizioni. E in effetti lo è una tragedia, ma (anche) nell’accezione classica nella misura in cui, insieme al dolore, i due personaggi, seppure in condizioni diametralmente opposte, compiono una conversione interiore, si riappropriano di una parte soggiaciuta di sé, si estromettono dal ruolo ritagliato dentro lo spazio esclusivo del legame che li ha uniti, e lo fanno con la determinazione di sentirsene esclusi e rinati, perciò anche, salvi.
“A una certa ora di un dato giorno, i raggi rimbalzavano sul vetro della finestra di fronte, e di taglio entravano nell’ambiente, improvvisi e violenti. (…) Ogni cosa tornava a nascere, dentro e fuori quella stanza, dentro e fuori di me. Accadeva ogni dodici mesi, quando l’inverno era ancora alto e la luce annunciava il suo ritorno. In cucina scoprivo l’esatto momento in cui la natura avrebbe ricominciato a svegliarsi.”
“La mia cucina era molto più che un luogo dove scaldare vivande farsi il caffè: era un limbo nel quale setacciare i pensieri, mescolare fantasia e realtà, impastare me stessa e sfornare il mondo che avrei voluto. Era il mio posto, quello scelto dopo una lunga ricerca, l’unico che mi permetteva di chiudere la porta e guardare fuori immaginando la donna che sarei stata un giorno.”
È difficile parlare di amore senza cadere nella scontatezza e nella retorica. Ma quello di Avati è un esempio di scrittura che non può sbagliare perché rifugge da rappresentazioni nevrotiche e caricaturali, rimane schietto e umile, non prevarica la semplicità di voler raccontare e condividere l’inestinguibile controversia dell’amore, e per questo ci regala una trama che sfida il tempo e l’ovvietà.
Paola Milicia
L’intervista
Ho l’impressione che ci sia una dilagante avversione a parlare di amore come se il
romanticismo e sentimentalismo siano sinonimi di vulnerabilità. E in un’epoca in cui è
bandita ogni forma di debolezza, si rischia l’estinzione di sentimenti e valori ad essi
legati. Pensi ci sia ancora bisogno di scrivere sull’amore e in che termini?
Ho scritto d’amore perché ritengo che ogni storia sia degna di essere raccontata e possa servire a chi la legge. Nessun altro argomento ha la stessa valenza universale che ha l’amore, e nessun altro argomento gode di tante soggettive quante sono le persone vissute in ogni epoca e spazio. Ogni individuo è un essere unico, e ha vissuto o vive la propria affettività in modo altrettanto unico e irreplicabile. Nonostante ciò, ogni storia d’amore conserva una particella comune che la rende sorella delle altre, una porzione di DNA che la fa originare da una medesima matrice. Se una storia d’amore viene raccontata con onestà, inevitabilmente chi ascolta si riconosce in qualcosa, la comprende e non grazie alla intelligenza, ma all’empatia. L’amore è democratico, investe chiunque, sciocchi e sapienti. Colma ogni distanza, appiana tutti i livelli. Nessuno ne è esente. Tuttavia, ancora oggi, si preferisce parlare di aspetti parziali dell’amore, come la sessualità. Probabilmente perché è più semplice ridurre l’esperienza emotiva ad una questione sensoriale. E’ da parecchio che sostengo la necessità di indirizzare i nostri giovani, nelle scuole di ogni grado, a un percorso di educazione sentimentale. A patto che l’approfondimento sia onesto, sincero, partecipato, spregiudicato.
Il titolo mi suggerisce vagamente la prassi con cui iniziano le fiabe e con molta probabilità, c’è lo stesso intento di ‘servire” a un fine implicitamente dimostrativo. C’era una volta, un bel giorno Emma, e così via: cosa accade a una certa ora di un dato giorno perché il destino del personaggio muti in un finale inatteso? E quale (se c’è) il messaggio custodito nella trasformazione di Emma che vorresti il lettore cogliesse?
“A una certa ora di un dato giorno” succede qualcosa che fa tornare a vivere, che risveglia la coscienza, che illumina in buio. E accade nella vita di tutti. E’ un momento di grazia che viene universalmente donato da un ordine che suggerisce una nuova occasione. E l’evento dal quale scaturisce una inattesa possibilità è sempre minimale, spesso ha a che fare con la natura, una luce, un odore, uno sguardo poggiato su qualcosa sempre esistita ma che non era mai stata osservata con profondità. Il cielo, le montagne, il mare, gli alberi, il sole sono elementi rigeneranti.
L’abbandono a osservarli, fino a farli entrare in noi, aiuta a ricollocare noi stessi nel giusto spazio, a riconquistare un equilibrio. La connessione con quanto ci ha preceduti e che proseguirà oltre la nostra vita, è rigenerante e suggerisce sempre le scelte migliori. E così anche Emma, a una certa ora di un dato giorno, avverte che è possibile ricominciare, tornare a nascere come la natura dopo l’inverno. E come in una favola, chi sembrava morto, si risveglia da quello che era solamente un lungo sonno.
Sono rimasta colpita dall’affermazione in apertura ovvero che ci si innamora sempre di chi porta i segni dello stesso dolore. Vuoi spiegarci il senso?
Tante volte ci si chiede come mai ci siamo innamorati di qualcuno che non rappresenta minimamente il prototipo di persona che preferiamo. Credo che questo accada perché l’identikit di quello che vorremmo è frutto di ragionamento, mentre l’amore è la conseguenza di un dialogo intimo, profondo, interiore, affatto percepito dall’intelletto ma che ha a che fare solo con il subconscio. Mi perdonino psichiatri e psicologi se banalizzo, ma in soldoni si può dire che il subconscio è quella porzione di noi che si nasconde alla coscienza, che vive di giorno soffocata da quell’alto livello di guardia che è la ragione. Il subconscio, come tutti sanno, si scatena di notte attraverso l’attività onirica. Quando è in forte contrasto con quello che decidiamo di essere, o eccessivamente soffocato, esplode ed è causa di crisi di panico o di disturbi vari. Generalmente crediamo sia un nemico da chiudere a doppia mandata in una cella, che sia sporco, cattivo, portatore di disgrazie. Invece no. E’ solo una parte di noi, la più antica, la più sconosciuta, quella più trascurata . E’ lo spazio in cui sono conservate le ferite dei primi anni di vita, la matrice dell’individuo che sarà e l’eco della nostra specie. Quando incontriamo qualcuno capace, seppur involontariamente, di entrare in connessione con quel mondo immenso e magnifico, allora nasce un legame forte, non sempre felice, a volte difficile, ma di certo autentico perché non ha a che fare con le mille maschere che siamo costretti a indossare. Se ci riconosciamo nel dolore dell’altro, il trasporto è inevitabile.
Nel racconto, Emma e Luca si amano ancora, malgrado tutto. Sembra invece che la crisi sia legata a una specie di obsolescenza della risultante. Nel senso che quando ci si ama si attende qualcosa indietro e se questo premio stenta a esserci, mettiamo in discussione il legame con l’altro. Se è così, quale ricompensa si aspettava Luca, e quale Emma?
L’errore che commettiamo tutti è quello di appesantire la persona che amiamo della responsabilità di renderci felici. E se la felicità non arriva, allora accusiamo l’altro, l’altra della nostra infelicità. Io sono dovuta arrivare ad avere 53 anni per capire che l’amore è molto oltre quello che fino a qualche tempo fa credevo. Purtroppo non esistono suggerimenti validi da dare a chi è più giovane di me al fine di evitargli momenti difficili. Ogni dolore, ogni esperienza, va attraversata in prima persona, non esistono scorciatoie, espedienti che consentano di saltare il fosso se si vuole essere corretti con se stessi. I soli possibili, e del tutto deprecabili, sono quelli legati alla alienazione. Non importa arrivare all’assunzione di droghe o all’uso smodato di alcol per alienarsi. Esistono moltissime forme di dipendenza, ben più comuni e socialmente accettate, atteggiamenti atti solo ad allontanare l’individuo dalla coscienza. Restare presenti, oggi che tutto tende a rendere le persone puri soggetti consumatori, senza identità, senza gusto, senza libertà, è difficile. Luca rappresenta benissimo un uomo del suo secolo, fragile e perso, incapace di sostenere i propri fantasmi, alla ricerca spasmodica di un espediente che li taccia. Un essere che chiede alla donna che ama di essere salvato. E Emma accetta, sopravvalutando quella che è. In verità chi di noi non è mai stato Luca? Chi di noi non è mai stata Emma? Penso che l’età insegni che nessuno può salvare nessuno, e che la propria vicenda di dolore vada percorsa nella sua interezza, senza fretta, ma con fiducia nelle proprie risorse. Vince l’onestà, la correttezza, il coraggio verso se stessi prima, e poi verso gli altri.
Il racconto che dai vita in “Il silenzio del sabato” (La nave di Teseo, 2018) è analogamente a questo, una storia che si costruisce intorno al potere evocativo dei personaggi femminili. In cosa si somigliano le protagoniste dei tuoi romanzi?
Ne’ “Il silenzio del sabato” ho parlato dell’essenza della femminilità, della vocazione al femminile, della identità delle donne seppur il romanzo sia ambientato nella Palestina di 2020 anni fa, e la vicenda si srotoli lungo le 40 ore circa che intercorsero dalla morte di Gesù al ritrovamento del sepolcro vuoto. Le protagoniste di questa storia sono per lo più donne inconsapevoli, ossia cresciute senza sapere di essere molto di più di quello che gli uomini autorizzavano loro a credere. Si tratta di donne attraversate da una bellezza originaria, da una autenticità magnetica. Ne “A una certa ora di un dato giorno” le mogli, le madri, le sorelle delle quali racconto invece non sono ignare. Hanno alle spalle secoli di lotta, conquiste ottenute, battaglie che in parte le hanno affrancate. Hanno acquisito il diritto alla identità, alla personalità.
Eppure sono vinte, battute da un antagonista che non è più esterno, ma interiore. Sono figlie del risultato di un femminismo che in parte ha fallito.
Qual è il rapporto che hai con la scrittura e quale con la regia cinematografica?
Il rapporto con la cinematografia è frutto di una trasfusione. Mio padre mi ha insegnato ad amare quello che lui amava. E il cinema è stato per molti anni il linguaggio attraverso il quale io e lui abbiamo imparato a comunicare fra noi. Per me è amore e odio, è la fonte della mia gioia e del mio patire. Morirò senza aver imparato a distinguere la passione che nutro per il cinema dall’amore per mio padre. La scrittura invece è per me quello che è per tutti coloro che scrivono, una fuga dai limiti di una comunicazione spesso ridotta a causa del timore, un viaggio che consente di approdare là dove invece attraverso espedienti e metafore tutto può essere esplicitato, tutto si palesa e gli aspetti più contorti e bui acquistano identità. E’ quel limbo dove diventa possibile far incontrare coscienza e istinto, è il luogo dove la sincerità più estrema si veste di fantasia. E’ la sola verità che io conosca.
“A una certa ora di un dato giorno”
di Mariantonia Avati
Copertina flessibile, 192 pagine
Editore: La nave di Teseo (28 maggio 2020)
Mariantonia Avati nasce a Bologna nel 1966. Ancora bambina si trasferisce a Roma, assieme alla famiglia. Parallelamente agli studi di Psicologia e di Storia medievale comincia a lavorare come aiuto regista, soggettista e sceneggiatrice. Si occupa poi di produzione cinematografica, forte della lunga esperienza maturata fra gli Stati Uniti e l’Italia. Con il marito Andrea Scorzoni, fa nascere la “Matteo Cinematografica”, società per la quale realizza come regista l’opera prima Per non dimenticarti. Al film, che raccoglie premi e successo di critica, fanno seguito altri due lungometraggi e serie televisive, oltre a documentari. Ha esordito come autrice nel 2018 con Il silenzio del sabato, pubblicato dalla Nave di Teseo.