Giovanni Comisso - La logica della terra

La logica della terra

La terra ha una sua grande logica più assoluta della nostra. Si dice: “Per San Benedetto la rondine è sul tetto”, ma quest’anno se le rondini fossero venute al vent’uno di Marzo sarebbero morte di fame. Sono venute con un mese di ritardo, soltanto l’altro giorno, secondo la logica terrestre, perché soltanto in quel giorno si era elevata dall’Africa un’ondata di vento che sorreggendo le rondini nel grande volo, aveva portato anche una fitta sabbia che si era deposta nella notte sulle auto all’aperto. Ma non è tutto, questo vento caldo, sciroccale, ha fatto nascere nello stesso tempo, immediatamente, quelle mosche e quei moscerini che costituiscono il cibo delle rondini. Subito dopo si sono aperti i fiori di mandorlo e di pesco e le api e altri insetti sono usciti in volo per il loro lavoro incessante. Tutto si è ingranato e si è svolto in questa logica armonia come mosso dalle rotelle di un orologio, preciso.

I frutteti sono in fiore, cioè in pieno amore. La corteccia battuta dal sole è tiepida, le api passano da un fiore all’altro coprendoli di un fremito di piacere. Un piacere comandato dal primo sintomo dello scirocco. Ogni albero è come una città sulla quale sia venuta imperversare una follia erotica in ogni casa. Sarebbe illogico pensare che questi frutteti non abbiano da godere dell’amore come noi esseri umani e gli animali. Nei tiepido della corteccia la linfa deve salire con maggiore vigore e il tocco lieve e frenetico delle api nel suggere in nettare deve risultare particolarmente piacevole.

Foto di Jennifer Field

Nell’osservare uno di questi alberi mi sono accorto che due raganelle auree e smeraldine si erano appostate tra i rami e stavano ferme simulando le foglie. Vi erano arrivate lassù per altra logica della terra. Finita con l’inizio della primavera la loro formazione definitiva, si dovevano essere accorte che il mio orto è popolato di gatti famelici ed era necessario difendersi non solo con salti disperati, mimetizzandosi tra il verde dell’erba, ma era necessario cercare una difesa più certa. Così sono salite, come ragazzi arabi su di un albero di banane, sul tronco tiepido di questi alberelli in fiore dove si trovarono isolate e sicure. Ma per una logica non intima a loro stesse, appartenente alla terra dalla quale erano uscite, venivano a trovare una maggiore sicurezza con il verde della loro pelle imitando le foglie di quell’albero che ancora non le aveva emesse.

Io invece, noi invece esseri umani padroni dell’universo fino agli astri, raramente sappiamo reggerci con logica nelle situazioni più semplici. Ieri era festa, mi seccava mangiare a casa, volli andare sui Colli sperando di venire deliziato dal sole e dal paesaggio. Le trattorie rigurgitavano di gente che aveva pensato di fare altrettanto, non era possibile trovare un posto per sedersi. Desolato andai in un villaggio di secondaria importanza, a una trattoria per fortuna deserta ordinai qualcosa che credevo semplice e di facile fattura.

Avevano uova e carne lessata, dissi di tagliarne alcune fettine e di farmi una frittata. Raccomandai la facessero tenera, invece mi venne portata una frittata che sembrava una suola di scarpe, fritta e rifritta, una frittata che non mi sarebbe stata portata neanche in carcere: una frittata che non dimenticherò mai per tutta la vita. Sembrava fatta non con uova, ma con segatura di legno. Capivo mi avrebbe fatto male, ma privo di quella logica terrena che avrebbe avuto un insetto o una rana, non avevo la forza di rifiutarla. Sentivo che ogni boccone era una dose di veleno che entrava nel mio stomaco e lo mandavo giù senza masticare. Più tardi mi accorsi che quella frittata gravitava benefica non solo nel mio stomaco, ma nella mia mente e non sapevo come eliminarla. Sono stato male un giorno e una notte, poi finalmente ripreso dal mio istinto preistorico sentii di avere bisogno di movimento per scacciare il veleno assorbito, mi sono messo a vangare la terra del mio orto e cosi sono guarito, ma con quale perdita di tempo.

Osteria degli amici (fonte: Wikimedia Commons)

Qualcuno ha scritto assai distrattamente e con molta superbia: “Gli animali non sono artisti perché non parlano”.

Prima di tutto gli animali hanno un loro vocabolario corrispondente ad altrettante idee concrete come noi esseri umani, generate dallo scadenziario delle stagioni, del giorno e della notte, del crescere e del deperire. Giorno, notte, alba, tramonto, caldo, freddo, sonno, fame, sazietà, sonno, stanchezza, risveglio, paura, sicurezza, amore, malattia, nascita, vecchiezza, morte, e avanti ancora per molte pagine. Le idee più chiare e dominanti sono paura e amore. Quasi tutta la loro vita è dominata da queste due idee. Paura di un animale più feroce e disperata preoccupazione di difendersi. L’amore degli animali è il più potente dell’universo, paragonabile forse solo a quello dei giovani esseri umani quando ne vengono invasati. Gli amori infantili sono di fatti incancellabili e commoventi come gli appelli disperati dei cani presi dall’incantesimo per le cagne in foia e rinchiuse. Quando è il momento dell’amore per i gatti, essi ricevono il comando dall’alto del cielo e ubbidiscono eroici senza pensare al cibo, pronti a sanguinare nelle lotte, a varcare terreni incerti che li fanno tornare a casa luridi di fango, istraniati come percossi. Chi può dire che a queste idee non corrisponda per loro una modulazione, un gesto, uno sguardo, come per noi una di quelle parole che ci preoccupiamo di rendere scritte. Essi poi con il loro udito finissimo per cui possono percepire vibrazioni e modulazioni assai più di noi, come non possono arrivare a formare più suoni di noi, cioè più parole di noi. Basterebbero le parole citate, in corrispondenza a idee certe esistenti tanto per gli uomini quanto per gli animali, per fare una sistina come la quinta di Petrarca. Certo gli animali non hanno quelle parole che suonano come moneta falsa in tante opere letterarie degli uomini in prosa e in poesia. Non parlerebbero di continuo di anima, di cuore, di infinito. Noi li chiamiamo animali perché ci accorgiamo che ci capiscono, mentre noi riusciamo a capirli solo in parte.

Foto di Britchi Mirela – Wikimedia Commons

I canti degli uccelli e anche quelli delle rane perché non dovrebbero essere opere d’arte se hanno un ritmo. Si sa che questi canti sono determinati dalla paura e dalla necessità di difesa per tenere lontane le bisce che potrebbero salire sull’albero dove la femmina cova o intromettersi tra le rane in amore nelle paludi. Non vi sono forse per gli esseri umani poesie ispirate da un’uguale senso di paura e di difesa dall’idea della morte, dal pericolo sempre immanente di finire nel nulla. Gli esseri animali non hanno certo le idee astratte quelle che non servono né a noi né a loro. Però hanno l’idea dei numeri: le pecore hanno quella della massa, del gregge e quando una si distanzia dalle altre ha il senso di essere sola: una. Così una rondine con cinque rondinotti da sfamare nel nido sa che deve compiere a rotazione cinque voli per sfamarli tutti. La chioccia deve sapere quanti sono i suoi pulcini in un modo più spiccio di noi obbligati a contarli. Essa deve fare un calcolo di volume, una sintesi approssimativa in rapporto allo spazio che occupano.

Dunque è vero il contrario: Gli esseri umani non possono essere artisti, perché parlano, e troppo.”
Giovanni Comisso

Pubblicato sulla Gazzetta del Popolo il 07/05/1963

Immagine in evidenza: foto di photokip.com

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