“Vago, piacevole castello posto ne’ più estremi gioghi delle nostre Alpi, sopra il trevigiano”.
Il cardinale Pietro Bembo sigillava con queste poche, ma sensibili parole Asolo.
Quando morì il marito di Caterina Cornaro, signore dell’isola di Cipro, Venezia tanto fece che riescì a costringerla a donare quell’isola alla madrepatria. In cambio, per così dire, ebbe la signoria di Asolo e del suo territorio e giù al principio della pianura il suo Barco. Barco è una corruzione di parco, e consisteva in un grande giardino cinto da un alto muro con frutteti, alberi vari, fontane ed un edificio simile ad una villa o a una serra, dove la regina andava per diletto con la sua grande corte formata da insigni uomini di lettere come Pietro Bembo.
Tra il Piave e il Brenta si susseguono alcune file di colli piramidali tra i più belli d’Italia. Sull’ultimo della prima fila, sormontato da un’alta rocca quadrata, si distendono le case di Asolo.
Passano per le strade tortuose in salita e in discesa carri di fieno, e i contadini vi stanno distesi sopra come le divinità dell’Olimpo, dipinte sopra alle nubi dal Veronese, nella vicina villa dei Barbaro, a Maser.
Il pastore sospinge il suo gregge verso le fonti nascoste, dalle case dei contadini viene odore di polenta con il fumo del focolare che esce più dalla porta che dal camino. Se una fronda si muove scopre il volto di una giovanetta intenta a spiare il ritorno del dio Pan nel silenzio meridiano.
All’alba cinguettano gli uccelli e alla sera tubano i colombi in accorcio con le rane che riempiono di fragore le piccole valli tra un colle e l’altro.
Camminando per le strade ombreggiate da portici, se avviene di entrare in una casa, subito, aperta la porta, ci investe un’aria fresca di colle e di monte e subito si avverte la stranezza dell’interno data da un armonioso disordine, dove a un tavolo o alle sedie o di mano artigiana di gusto o a un soprammobile di ceramica eburnea di Bassano, si contrappongono le finestre sgangherate e la balaustra delle scale mancante di alcune colonnine.
Questo è il sintomo che siamo in una citta antica, lievemente lasciata scivolare nell’abbandono, ma dopo la storica ospitalità offerta alla regina Cornaro, da alcune decine d’anni Asolo ha aperto le sue porte a una colonia straniera e nazionale che ha fatto di essa la Fiesole del Veneto.
Il primo straniero che venne a scoprire Asolo, fu il pittore americano Ambrogio Benson, che in una luminosa giornata d’estate, nella metà dell’Ottocento, salì a piedi da Venezia con il fanatismo dei pionieri. Un largo panama in testa, stivaletti da alpinista, fazzoletto al collo per trattenere il sudore: saliva la strada verso il paese e rimase in estasi alle prime case antiche, alle osterie con rami lucenti alle pareti alternati a vecchie stampe idilliache e gioconde e ai piatti di Bassano figuranti le stagioni. Asolo gli apparve come emersa intatta dai secoli lontani.
Ritornato a Venezia, indusse il poeta inglese Roberto Browning a ritornare con lui. Anche questi si esaltò alla visione di tanti dolci colli e vallate, dopo avere lasciato la laguna veneziana nauseante di salmastro e toccato nell’estro della sua poesia scrisse il poema Asolando.
Asolo divenne la sua residenza. Non ritornò a Venezia, né in Inghilterra. Qui ebbe la sua villa costruita sull’edificio delle stalle e delle carrozze della regina Cornaro, vicino al castello. Nel vasto giardino introdusse il cipresso, che da allora divenne l’albero decorativo di tutti i giardini di Asolo.
Le sue poesie furono la migliore forma reclamistica per attrarre contemporaneamente a lui e dopo di lui ospiti inglesi come John Beach con la moglie, appassionatissimi di musica, che strinsero amicizia con il maestro Gian Francesco Malipiero, già da tempo in Asolo per trovare nel silenzio ispirazione alla sua musica.
Allora si ebbe una memorabile serie di concerti famosi organizzati dalla signora Beach nel giardino della villa del maestro.
Qui vennero a suonare Dario Milhaud e il Quartetto di Londra, come se nuovamente una regina di Cipro chiedesse di dilettare il suo ozio.
Altro inglese, il signor Young, ebbe una casa tra le prime all’ingresso della città, tutta coperta di rampicanti. In questa casa subentrò la scrittrice inglese Freya Stark, donna eccezionale. Ancora giovanetta, visitando distratta la fabbrica di tessuti del padre, andò a impigliare i suoi capelli in una macchina e ne fu orrendamente straziata. Pensava di avere perduto il suo fascino femminile e scelse come esilio due vie di solitudine: i deserti dell’Arabia e il colle di Asolo.
Viaggiò per quei deserti sola con una scorta di cavalieri arabi, quasi contemporaneamente a Lawrence d’Arabia, ma la morte di lui le tolse la possibilità di incrociare le proprie piste proprio nel giorno che avevano stabilito l’incontro.
Di recente, sempre sola con poca scorta indigena, ha voluto esplorare e rifare lo stesso itinerario di Alessandro il Grande, fino all’India. E nel cercare i valichi possibili del suo esercito, fu arrestata dai persiani che pensavano studiasse una via di invasione.
Dietro alla sua casa, il breve giardino si protende sul ciglio del colle come la prua di una nave verso l’ampio panorama della pian ma d i solto. I fiori interrompono la luminosità del verde con colori inusitati, varianti sempre tra il celeste pallido e il giallo rosato. Tutto sembra sia lasciato crescere e fiorire spontaneamente, i petali caduti dalle rose coprono il sentiero e i sedili di pietra. Un rudere romano, una statua buffa di nano e la parete della casa sono abbandonati alla brama dell’edera che li riveste.
Altro ospite inglese è Lord Jveagh, che ha comprato la casa che fu abitata da Eleonora Duse verso il declinare della sua vita. Ebbe questa vecchia villa di patrizi veneti con saloni, con vaste stanze, con scale intrecciate. A quelle scale la Duse riappare presente pensando alla sua stanchezza nel farle. Ma il suo appartamento è in una parte d’angolo della casa. Vi è la sua stanza, quelle per gli ospiti, tutte non troppo alte, ma larghe alla maniera asolana. La sua ha tutte le finestre rivolte verso la valletta che si protende verso la pianura. Quando le dischiudeva dovevano ravvivarla di gioia e di speranza con tutto il verde che varia secondo che vi batte il sole o la ricopre l’ombra.
Sulla pietra di una finestra vi è incisa l’orma di una mano: la sua mano affusolala, quella sulla quale posava il mento quando si faceva fotografare eterea e languida.
II suo letto è grande, da casa di campagna, e fa pensare sia imbottito di foglie di granone. Vi è il lavandino con uno specchio alla parete dove ella riguardava il suo volto, dove si riguardava nei suoi occhi, gli occhi delle tragedie da lei impersonate, e che in quel suo declinare esprimevano la sua intima tragedia. La si ricorda nella Donna del mare, quando ancora in giro per l’Italia con i capelli tutti bianchi diceva:
“Egli con la sua ombra ha attraversato tutta la mia vita”.
Questa visita diventa tutta dannunziana nelle memorie, nei rimpianti e nelle sopravvivenze. Più sotto, dalle scale, si va a un pergola, dove lei si sedeva sempre per riguardare la valletta verde. Quanto silenzio e quale dolcezza nell’aria in questo settembre asolano che spesso la ospitava, che tal volta era costretta a lasciare e che l’accoglieva al suo ritorno ridandole la forza dispersa.
Sempre così la vita: quanti adesso sarebbero pronti, se fosse vivente, a darle quel denaro che sempre la tormentava nel gioco infido, per evitare quel faticoso giro teatrale ultimo che la portò a morire su un tetro palcoscenico americano.
Nel museo di Asolo vi sono ancora i suoi vestiti teatrali di quelle ultime recite, simili alla misera pelle di una crisalide a cui si siano dischiuse le ali per il volo luminoso nell’aria di un mattino.
Usciva dalla sua casa e andava camminando verso Monfumo per vedere il Grappa imminente, i suoi capelli bianchi le davano un’austerità regale e i contadini si scoprivano al suo passare.
Oggi è sepolta nel piccolo cimitero fuori dal paese e la tomba è rivolta verso le montagne della grande guerra, dove sapeva quanto eroico sacrificio era stato consumato.
I forestieri di Asolo, che qui vivono isolati nelle loro case, palazzi o ville, si conoscono tutti, ognuno sa tutto dell’altro, perché la cerchia è breve. Ma vi impera una legge, di non stabilire rapporti di società: tutti stanno isolati nelle loro dimore come stiliti in una verdeggiante Tebaide.
Quando si va alla porta delle loro abitazioni tocca agitare vecchi battenti e impugnare tiranti di campanelli simili a spade nel loro fodero, poi si sentono rintoccare gli squilli in cortili o in corridoi congelali dal silenzio. Passano lunghi minuti, poi le imposte si socchiudono, guardinghe voci sommesse chiedono chi si sia, infine lunghi catenacci vengono sfilati e la porta si apre.
Asolo ha vissuto e vive di questi forestieri. Ma chi da poco ha salvato decisamente Asolo dallo sperdersi in una dissoluzione anonima di un turismo di massa è stato Giuseppe Cipriani.
Egli con il suo stile semplice e accogliente ha già salvato Torcello e la Giudecca, un tempo luoghi inospitali e quasi ostili ai forestieri. Una grande villa nell’allineamento dei palazzi che riguardano verso la valletta è stata da lui trasformata in ristorante e in albergo con uno snodarsi di giardini e di terrazze che fanno pensare a Positano.
Giuseppe Cipriani non cerca il numero, cerca di offrire il soggiorno di qualità a ospiti che lo meritano. Ha creato una scuola, ha impresso il suo marchio in ognuna delle sedi ospitali da lui create, e anche qui a Asolo questo marchio risulta evidente. In questo sceneggiata paese, che si dibatteva tra i ricordi celebri di Browning, della Duse e della regina Cornaro, e l’isolamento diffidente degli ospiti italiani e stranieri, rintanati nelle loro case, egli è riuscito a stabilire una realtà turistica sovranamente bella e civile.
È da augurarsi che il suo stile nel creare questi ambienti e la sua personale scuola alberghiera facciano epoca e sbarrino l’imperversare del cattivo gusto e della banalità turistica che dissocia l’Italia nei suoi valori.
Da Venezia sono venuti anche i padri Armeni per godervi l’estate in una villa costruita con un curioso inganno architettonico. Dal lato a mezzogiorno del tondo vertice di un colle sorge questa villa. Una galleria attraversa quel vertice e a settentrione si eleva un’altra facciata con pergoli di pietra e loggia. È soltanto una scenica facciata che non ha stanze dietro a sé, ma solo quella loggia alla quale si perviene dalla villa attraverso la galleria per far prendere ai padri Armeni il fresco riguardando i monti.
Nel giardino del castello, tra una torre e l’altra, tra i muraglioni e i cipressi, vi è come una conchiglia di verde e di pietra dove la fondazione Eleonora Duse fa in autunno recite all’aperto che riescono assai suggestive. Asolo aveva un suo piccolo teatro settecentesco dentro al castello, una specie di miniatura di quello veneziano della Fenice. Sciagurati tutori dei beni artistici di questa città, tempo addietro non si opposero che esso venisse venduto all’America per la città di Sarasora nella Florida, e nel suo vano venne costruito un comune cinematografo.
Le ville incoronano il colle fino alla pianura. Giù nella località ai Predazzi vi è quella dei Falier dove Antonio Canova giovinetto aiutava lo zio giardiniere. Un giorno che in quella villa erano convenuti numerosi nobili veneziani, il giovine Canova pensò di fare loro una sorpresa portando in tavola un leone di San Marco modellato nel burro. Fu applaudito, e il nobile Falier pensò di metterlo alla prova per un’opera di maggiore impegno.
Antonio Canova scolpì con tutto il suo impeto giovanile le statue di Orfeo e di Euridice. Orfeo nell’atto di volgersi e Euridice che viene riafferrata dalle fiamme infernali. Ma le fiamme infernali doveva provarle il giovane scultore, perché come modella per Euridice gli diedero una bella contadina che gli posava nuda, mentre tutti attorno a lui stavano vigilanti: i nobili Falier, il vecchio zio e il parroco della contrada.
L’opera è di quel Canova genuino, nato da quei colli e vicino a quelle montagne, quasi interprete della modellazione naturale di quella terra che dà gioia allo sguardo. Egli non aveva ancora subito l’influenza dei classici, quell’influenza che doveva prenderlo a Roma nel limite degli schemi antichi che si venivano scoprendo negli scavi, e che piacevano alla società romana dominante alla quale Canova doveva farsi schiavo.
Sfilano queste colline di Asolo fiorite al sole e ogni tanto lasciano apparire quali fantasiosi dipinti di scenari altre ville sfarzose di logge, di terrazze, di gradinate e di fontane.
Nell’alto della rocca ci si sente come al vertice di un diamante, dove ogni sfaccettatura suscita un panorama di iridescenze. L’edera copre le antiche feritoie che spiavano le strade in salita dal piano. Un dorso di collina si alza dalla valle sottostante, così staccata nella luce e nella violenza della sua massa come un frammento precipitato da un altro mondo; al di là, con la luce più blanda, altre colline più basse fuggono verso la lontananza del Piave.
All’ombra della rocca il volo delle rondini folli e spaurite è violento. Vicino qualche voce viene isolata dalle case, come di pescatori da barche lungo alla riva del mare. Gli usignoli cantano martellanti da un poggio all’altro, lontano si diffonde il grande spazio della luce meridiana e dissolve il visitatore in un sognare estatico dal quale non vorrebbe mai più risvegliarsi.
Giovanni Comisso, Le Vie d’Italia, Anno 69°, 1963, pagg. 1448-1457