Erano cinque giorni che si navigava lenti sospinti, più che dal vento, da un flusso inavvertibile delle acque. Uscito da sottocoperta, il mattino mi accolse con la freschezza a risciacquarmi la bocca pesante di sonno. L’isola vicina odorava nei suoi boschi, sarebbe stato delizioso indurre il nostro fiuto a insistere in questo profumo di muschio e di tronco d’albero che si riscalda al sole, ma una volontà subitanea come di un estraneo in noi, reclamò con violenza di voler fumare.
Nella notte avevamo finito ogni provvista e inutilmente ci mettemmo a ricercare lungo le murate se v’era qualche avanzo. Il capitano smaniava con me nella ricerca, mentre gli uomini di bordo tenevano le loro riserve nascoste e fingevano di non capire il nostro desiderio.
La terra che rasentavamo era senza paesi e sul mare nessun veliero dava speranza d’incrociare col nostro. Fumare divenne il pensiero dominante e la certezza di non poterlo acquetare, ci esasperava. Frattanto, non so come, il mozzo trovò una cartolina illustrata che subito girò per le mani degli uomini di bordo incuriositi all’eccesso. Venne anche tra le mie.
Una cartolina lucida con figure nitide. Un uomo in pigiama guardava negli occhi una donnina distesa sul letto, sorridente e con la mano sospesa nell’atto d’appressare una sigaretta alla bocca. Un astuccio stava aperto sopra un cuscino con quattro vivide sigarette: esatte morbide e vere.
Navigare è un divenire convalescenti presi da esasperazioni allucinanti. Ma più m’accorsi, attraverso allo splendore del mare, come attraverso ad una lente che ingrandisca, che la mia vita di terraferma in tutte le sue guaste abitudini trovava il modo di spegnersi come per vendicarsi d’essere nata e d’essere rinchiusa; e ad ogni mattino, di quello che m’era addosso di morto, controllavo il perduto e quanto ancora avevo da perdere; pertanto i sogni, ogni notte più avanti sul mare, retrocedenti in composizioni di me sempre più vicine alla mia infanzia, già preannunciavano la liberazione dell’anima aggravata.
La cucinetta di prua venne accesa e il fumo illuse e distrasse per qualche tempo le nostre narici irrequiete. Poi inaspettatamente il capitano mi fece guardare un veliero che doppiava il promontorio vicino per venirci incontro.
Veniva dalla Dalmazia, dalla terra dove le foglie di tabacco si vendono sul mercato come insalata.
Vi pensammo meravigliose provviste e scesi nel caicco ci staccammo a remi per abbordarlo. Si scivolava sulle acque come su lastre di ghiaccio. L’istinto dell’arrembaggio ci animava le braccia segretamente.
Presto fummo sotto bordo e il convenzionale buon giorno ci ricacciò nelle profondità del sangue ogni più fiero istinto di rapina. Due ragazzi biondi e pallidi appoggiati al pennone della vela di prua bianca e posta contro al sole ci guardavano con occhi addormentati. Un uomo barbuto era al timone e ci disse che nessuno di bordo fumava; ma già a me questo più non premeva perché qualcosa di non veduto da quando ero partito, mi teneva estatico. Una donna seduta placidamente accanto alla murata, nell’ombra tenue della vela.
Pareva che il veliero navigasse per lei e che il vento fosse così avvertibile appena per non turbarla. Rimanemmo nel caicco attraccati al veliero che seguiva il suo cammino. Il capitano aveva preso a parlare d’affari con l’uomo barbuto, ma ogni tanto come per una necessità di bestemmiare finiva a cadere sull’argomento del tabacco che non aveva e che sperava di trovare. Guardare quella donna che non era bella, né era fresca e forse non era sana dava un piacere inestimabile dopo cinque giorni, resi lunghissimi dalla lentezza del navigare e dalla grande varietà del paesaggio sulle isole e sulla costa, ad ogni più breve progredire. Vi era tanta malinconia sulla sua fronte umida e pallida, e i suoi occhi guardavano lontano come per non essere feriti dal nostro desiderio di scoprirli in tutta la loro luce.
Forse da lungo tempo era su quel veliero e il mare doveva averle tolta ogni difesa ai suoi sensi. Il braccio scarno reggeva il mento sofferente e come intervenne a parlare, con una cadenza di canzone friulana, la si ascoltò solo per ascoltare quel tono di voce lieve che non sentivamo dalla sera della partenza: quando la figlia del capitano venne a salutarci a bordo con l’amante d’uno dei marinai; di là del mare! Si ascoltò e non sì rispose, e s’attese che ancora si ripetesse il suono. Ma ella con stanchezza ammalata aveva volto lo sguardo indietro come cercasse di scorgere ancora i monti del suo paese lasciato. Forse non era che il veliero navigasse per lei, ma nata da una razza diversa da quella dei suoi compagni v’era tenuta quale schiava. Ed ella dominava col suo pallore e coi suoi occhi da insonne tutto l’azzurro splendido delle acque, il verde lanoso delle boscaglie e il grigio già vampante di caldura sulle alte rocciaie deserte d’un’isola vicina.
D’improvviso la mano del capitano che si puntò con forza contro il bordo per distaccarci, il saluto che diede e il colpo di remo vigoroso furono d’una violenza sorda da odiare.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul numero 4 della rivista “Solaria” dell’aprile 1927.
Immagine in evidenza: foto di Pixnio