La cosa più importante di un muro è la porta

Intervista a Renzo di Renzo per Heads Collective 2007-2017

 Heads Collective è un gruppo affiatato di talenti creativi che, da dieci anni a questa parte, realizza progetti interdisciplinari di ampio respiro. Il collettivo guidato dall’eclettico Renzo di Renzo, già direttore artistico di Fabrica, con il socio e amico Federico Vanin, riunisce professionisti della fotografia e del design, nonché esperti d’arte e musica che mettono la loro passione e il loro talento a servizio di aziende, associazioni ed enti.

Lo scorso 6 dicembre presso Palazzo Giacomelli a Treviso, Heads ha voluto celebrare i suoi successi con clienti e amici. Siamo stati felici di partecipare anche noi ai festeggiamenti: durante la serata abbiamo potuto constatare di persona l’entusiasmo e la gioia dei membri di Heads nel poter condividere, una volta tanto, un momento di convivialità con i propri clienti, oltre i tradizionali confini del rapporto fornitore/committente. La festa è stata anche un’occasione di incontro con la comunità creativa locale, decisamente viva e vitale.

La realtà di Heads, unica nel suo genere a Treviso, contribuisce a svecchiare un’idea di cultura accademica fine a se stessa, chiusa tra quattro mura di museo e accessibile solo a pochi eletti. Renzo Di Renzo e il suo entourage fanno, infatti, della cultura uno strumento indispensabile per il consolidamento del prestigio e del brand di enti, associazioni e aziende.

Rafforzare l’idea che oggi la cultura sia fondamentale per avere un’immagine competitiva sul mercato comporterebbe, di fatto, un aumento decisivo degli investimenti a riguardo e degli spazi a essa dedicati.

Cosa cui tutti noi auspichiamo da molto tempo, Renzo in primis, da anni ormai parte integrante degli amici di Comisso.

Il taglio culturale impresso alle campagne promozionali e sociali rende Heads qualcosa di più di una semplice agenzia di comunicazione e design: mescolare nelle giuste dosi arte, cultura e impegno sociale si è rivelata una strategia di marketing vincente. Da dove è nata, Renzo, l’intuizione che ambiti apparentemente così distanti potessero felicemente coesistere?

In realtà non è una scelta o una questione di strategia; piuttosto una necessità e un istinto. La voglia e la possibilità di fare le cose come le ho sempre fatte, cercando di coniugare cultura e mercato. Del resto anche la mia formazione è atipica: mi sono laureato in Lettere e ho iniziato la carriera di Ricercatore in Letteratura italiana presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, poi però ho dovuto anch’io “riposizionarmi” con un master in Comunicazione d’Azienda – UPA. La mia grande fortuna è stata quella di iniziare uno stage in Benetton, venendo così a contatto con Oliviero Toscani che mi ha insegnato una cosa fondamentale e cioè che l’economia non è necessariamente opposta alla cultura, come pensavo negli anni dell’università… Per me gli studenti di Economia e Commercio erano degli alieni…

Immagino ti riferisca all’antica querelle tra Economia e Lettere…

Davvero, non immaginavo proprio che avrei avuto a che fare con quel mondo. E mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se invece che in Benetton fossi approdato in un’azienda diversa, magari in un’agenzia che fa ricerche di mercato, o alla Procter&Gamble, com’è capitato a molti miei colleghi del master…

L’incontro con Toscani ha cambiato tutte le prospettive, mi ha fatto comprendere che in fondo anche quello della comunicazione è un lavoro culturale, perché si basa sulle emozioni e sui sentimenti delle persone, e per questo va fatto con onestà.

Anni dopo, grazie all’esperienza di lavoro a Fabrica [il centro di ricerca sulla comunicazione del Gruppo Benetton] ho potuto sperimentare anche come la libertà creativa sia un presupposto necessario ma che anche questa può essere e anzi va finalizzata verso degli obiettivi.

Ancora oggi, con gli studenti del mio corso di Design all’Università, mi piace parlare di Michelangelo come di un art director di Giulio II: il più grande artista del Rinascimento che aveva, di fatto, messo la propria arte a servizio del papa.

Dal momento che parli di Michelangelo mi viene da chiederti: che tipo di relazione esiste tra l’attuale tendenza a fare dello storytelling per le aziende e l’antica arte su committenza?

Ogni opera d’arte, a uno sguardo attento, veicola un messaggio promozionale; anticamente il contenuto di tale messaggio era di solito di stampo religioso o politico. Cos’altro sono i Vangeli, in fondo, se non una grande operazione di storytelling?

Nel XXI secolo non si lavora più per le signorie, ma per aziende ed enti. Eppure, come un tempo questo o quel signore avrebbe richiesto di rendergli omaggio con un’opera d’arte finalizzata a decantarne il prestigio, oggi le aziende chiedono a noi di raccontare qualcosa della loro storia, dei loro obiettivi o più semplicemente dei loro prodotti, e questo può e deve lasciare un segno importante tra le persone.

A volte la comunicazione è più importante dei fatti: molti di noi oggi ricordano il Duca Federico da Montefeltro non tanto per le sue imprese, quanto per il ritratto fattogli da Piero Della Francesca.

In termini moderni, potremmo dire che l’arte ha contribuito a consolidare il brand e l’immagine del personaggio che passò alla storia.

La relazione tra arte e mercato è, dunque, davvero così stretta?

 Le regole del marketing funzionano oggi in misura forse ancora più evidente proprio con il mercato dell’arte: quando hanno chiesto a un bambino cosa fosse Christie’s lui ha risposto semplicemente “una marca di quadri”.

Quel bambino, in un certo senso, aveva ragione: le gallerie, le case d’aste,  sono un brand, così come lo sono i musei e gli artisti.

Quindi, se il magnate di turno decide di investire i propri risparmi in arte…

 …sarà comunque la solidità del brand a fare la differenza, a meno che non sia davvero un talent scout, qualcuno che vuol rischiare sul talento come è stata ad esempio Peggy Guggenheim.

Il brand è il facilitatore, ti toglie il pensiero di dover scegliere. Più il brand è conosciuto, più chi decide di investire si sentirà al sicuro. Che sia l’acquisto di un paio di scarpe o di un quadro, il meccanismo è lo stesso.

E l’arte performativa che ruolo ha in tutto questo?

Per ovvie ragioni l’arte performativa non è oggetto di vendita diretta; può essere comunque un mezzo, uno strumento che permette al brand di crescere.

Parliamo di un artista vicino a noi, in tutti i sensi, Nico Vascellari, tanto per fare un esempio concreto, uno degli artisti e performer più noti su scala internazionale, stimato da Marina Abramovic.

Credo che il suo nome e la sua reputazione siano costruite essenzialmente attraverso le performance ma questo poi gli consente anche di “vendere” prodotti diversi come un collage, ad esempio.

Make the logo bigger, edito da Corraini, racconta la filosofia e l’approccio comunicativo di Heads, mostrando la considerevole quantità di campagne e progetti dei quali vi siete occupati nel corso di questi dieci anni. Tra i vari progetti sviluppati per enti e associazioni, quale ti ha portato maggior arricchimento sotto il profilo umano e culturale?

Partendo dal presupposto che ogni comunicazione è una comunicazione “sociale”, sicuramente quando si lavora per il terzo settore, associazioni di volontariato o anche solo per progetti rivolti alle fasce più deboli della popolazione si scopre da un lato tutta la futilità e al tempo stesso profondità che può avere il nostro lavoro.

E soprattutto si entra in contatto con realtà straordinarie: da anni gestiamo ad esempio la comunicazione di Medici con l’Africa – Cuamm [associazione non governativa per il diritto alla salute delle popolazioni africane]. Ma ci sono anche progetti “istituzionali” importanti come la campagna “Io parlo italiano”, che ha promosso corsi di lingua gratuiti finanziati dal Fondo Europeo per l’Integrazione dei Cittadini Extracomunitari.

Ricordo con piacere anche “Sustain/ability“, il primo festival dedicato al design etico e sostenibile, forse troppo in anticipo sulle tendenze contemporanee, tenutosi proprio a Treviso nel 2010.

Ci sarebbe molto altro da raccontare; anche su “150 e lode“, progetto curato con Fabrizio Urettini per due brand “commerciali”, Autostrade per l’Italia e Mercedes, ma con un contenuto culturale e sociale: una sorta di ricognizione delle eccellenze italiane nell’anno del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia.

Con quali aziende, invece, siete riusciti a dar vita a progetti di più ampio respiro?

Sicuramente con Ovs: il nostro Kids Creative Lab, laboratorio pensato per i bambini di tutta Italia, ha coinvolto negli anni migliaia di scuole su tutto il territorio e milioni di bambini, riuscendo a ottenere nel 2014 il Premio Cultura + Impresa, promosso da Federculture e The Round Table.

Per meglio sostenere questo progetto abbiamo intrapreso una collaborazione con la Fondazione Peggy Guggenheim e nel 2015 anche con Expo.

Sempre in ambito “culturale”, anche se commerciale, ricorderei la campagna promozionale di Oscar Mondadori del 2012. Siamo partiti da una considerazione di Groucho Marx: “all’infuori del cane, il libro è il miglior amico dell’uomo”, perché “dentro al cane è troppo scuro per leggere”.

Da qui, l’idea del cagnolino Oscar, mascotte disegnata per noi dalla penna di Lucio Schiavon, nostro collaboratore d’eccezione. Oscar, che ci ha fatto compagnia per diverso tempo, era il personaggio adatto per promuovere quell’immagine di “alta fedeltà” che desideravamo porre in evidenza per la collana di Mondadori.

Che cosa ha in cantiere Heads per il futuro?

Abbiamo cominciato a lavorare per i Mondiali di Sci che si terranno a Cortina nel 2021, uno di quegli eventi che possono cambiare la storia di un territorio, com’è stato EXPO per Milano, facendo le dovute proporzioni.

Abbiamo realizzato il logo con Italo Lupi… una sorta di sintesi tra i vari elementi che saranno in gioco: la neve, il paesaggio, la tradizione ma anche il futuro e l’innovazione. Sarà bello accompagnare questo progetto da qui al 2021.

Parlando di eventi, Treviso è fra le dieci città candidate a diventare Capitale della Cultura per il 2020. Cosa ne pensi?

Il fatto che Treviso sia riuscita ad arrivare in finale è già comunque un grosso risultato ed è il segno evidente che qualcosa negli ultimi anni è cambiato, e direi decisamente in meglio. Credo che Treviso debba proseguire in questa direzione, contrastando il retaggio di un’immagine passata, chiusa, asfittica, che per lungo tempo ne ha condizionato gli sviluppi culturali.

Ritengo sia importante che in città perseverino le iniziative finalizzate ad accrescerne la vitalità, la produttività e l’apertura verso l’esterno, il diverso e il nuovo.

Per questo trovo molto significativo e paradigmatico il payoff che è stato selezionato dopo un concorso per la creazione del nuovo marchio della città : “Treviso is open” nella sua semplicità vuole lanciare un messaggio forte e chiaro alla collettività: apriamo le porte anziché chiudere le mura, per una cultura che vada davvero “oltre le mura” com’è scritto nel dossier di candidatura.

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