"Ironia e leggi" di Giovanni Comisso

Ironia e leggi: Giovanni Comisso contro la guerra e la caccia

Un mio vecchio amico d’infanzia mi ha scritto: “Il silenzio non vuol dire: dimenticare. Io ti penso sempre. Vorrei chiederti un favore, tu che conosci molta gente. Quest’anno ho avuto voglia di andare a caccia, vado a chiedere la licenza e con molto mio stupore la questura non me l’ha data perché nel 1917 sono stato condannato per diserzione”.

Dopo venti anni si prescrive l’azione penale per un delitto, compreso l’omicidio, ma il delitto di diserzione, anche se amnistiato, è una macchia che non viene cancellata mai. Di certo la situazione di quel mio amico è un poco ridicola: nel 1917 aveva gettato via il fucile perché non voleva più uccidere gli austriaci e ora nel 1963 si sente venire la voglia di andare a caccia per uccidere uccelletti: i fiori del cielo. Se io potessi disporre delle leggi toglierei a quel mio amico dopo quarant’anni il marchio di diserzione, perché si sente che le guerre non hanno più ragione di esistere. In questa epoca di astronavi, le guerre sembrano decadute invero come l’olio di ricino quale purgante. Ma gli avrei negata la licenza di caccia, per mancanza di sensibilità.

Esaminando la legge non si capisce quale sia il principio del divieto. Non si vuole concedere il diritto, l’onore, di portare un fucile da caccia a quel mio amico che ha gettato il fucile affidatogli per il bene della patria, oppure perché si crede che quale disertore sia pure sempre un ribelle, un rivoluzionario, un possibile nemico della società, pronto a imbracciare quel fucile da caccia contro la forza pubblica, contro i tutori dell’ordine. Per capire questa legge bisogna soprattutto pensare sia un ordine impulsivo da caporale.

Francesco Giuseppe I d’Austria (fonte: Wikimedia Commons)

Socrate per condannare le leggi ingiuste che vogliono la sua morte, le accetta illuso che il suo sacrificio debba mutarle. Solo l’ironia le potrebbe mutare, perché gli uomini che le fanno, sono sempre limitati di fronte a quanto hanno ancora da capire

Un agente delle tasse che aveva vissuto molto tempo sotto l’Austria mi aveva raccontato questa storiella attribuita a Francesco Giuseppe, quell’insensibile impiccatore. “Un giorno l’imperatore decise di aumentare le tasse e lo ordinò al ministro. Poco tempo dopo gli chiese cosa dicevano i sudditi di quella legge. Gli fu risposto che brontolavano, allora l’imperatore ordinò di aumentare ancora. Chiesto cosa dicevano, gli rispose che brontolavano ancora. Allora l’imperatore fece un’altra legge per accrescerle, ma alla solita domanda il ministro rispose che questa volta tacevano. Allora l’imperatore capì di avere sorpassato i limiti e ordinò di abrogare la legge”.

Un disertore – di Il’ja Efimovič Repin (Wikimedia Commons)

Nel nostro paese, in questa nostra epoca, è difficile sapere quale sia il campo dei divertimenti concesso liberamente dalle leggi. Per il popolo minuto esiste il gioco del lotto, divertimento che coltiva la speranza di un terno secco per sette giorni elaborando i numeri sulle fantasie più strane. Per una categoria molto più vasta vi è altro gioco sorretto dall’ansia di attendere i risultati delle gare sportive. Per altra categoria un poco più evoluta vi è il gioco in borsa, anzi, vi era. Chi giocava non erano soltanto i grossi speculatori della finanza, ma a loro si erano aggregati tutti coloro che avevano qualche risparmio esuberante che non sapevano dove impiegare. Spesso avveniva di incontrare in treno maestrine o professoresse o segretarie di avvocati che, andato bene il gioco in borsa, si concedevano una gita a Venezia. Successivamente avrebbero forse giocato è perduto per far vincere altri, ma certo quei tre giorni veneziani concessi dal gioco in borsa erano stati la loro Befana benefica. Le nuove leggi ignorano quella sensibilità che aveva Francesco Giuseppe. Lo Stato riesce ad apparire sempre di più un guastafeste e si finirà per odiarlo, per disprezzarlo, per compiacersi di tradire.

Si fa presto a dire e a ripetere: “Quanta Pazienza a essere Italiani”, e ritenere di avere reggitori così saggi da non procurare più guerre.

È rinata l’erba e le nubi si fanno estrose. Il Montello è simile alla costa istriana vista a distanza dal mare. Si passa il Piave, si arriva a Moriago, a Sernaglia, accanto al nuovo campanile vi è il vecchio, sbrecciato dalla guerra, come un biscotto rosicchiato dai topi. Da quella guerra che qui, proprio qui si era conclusa con quel battaglione di arditi che da Ciano aveva passato il Piave a guado tenendo alte le armi e le cartucce e come una lama era penetrato nello schieramento nemico, nel punto giusto per colpire il cuore.

Lo Stato Maggiore aveva detto: “Cinquecento uomini dei più audaci, raggiungano Sernaglia, Pieve di Soligo. Blocchino il passo di San boldo e quello del Fadalto. L’armata austriaca sarà tagliata in due sul giogo delle montagne: la guerra sarà subito vinta”. Venne eseguito così, il terrore fu nel nemico che fuggì e si arrese.

Soldati italiani attraversano il fiume Piave su una passerella (Wikimedia Commons)

Ancora qualche vecchia casa di quel tempo limita l’orizzonte sui colli tra i peschi in fiore. Quegli arditi videro quelle case. Quale sublime gioia faceva balenare lo sguardo disperato e quale supremo sorriso era sulle loro labbra aride di grida, di bestemmie, di mordere. Quei cinquecento uomini, che ruppero l’arco della linea e vi penetrarono, ebbero, ognuno per sé, la suprema ebbrezza, il memorabile inganno del piacere nell’amore. Mai più nella vita sarebbe stata riservata per loro una gioia così suprema: essere forza nel determinare la vita ed essere sublimazione di una aggressività erotica fatta esercito, armi, battaglia e vittoria. Vittoria, parola che mette le ali e veramente vola, vola come essi volarono verso i due passi montani e gli altri fuggirono essi arresero nel terrore. Gioia delirante di tutte le battaglie vinte nei secoli, ebbrezza che strozza la gola nel singhiozzo e nell’urlo. Perché deve esistere se le guerre non servono a nulla, se sono tutte sbagliate nei calcoli preliminari, se sono orrende negli intermezzi, se sono miseria, fame e putrefazione nella conclusione finale. Guerre che esistono solo per quell’attimo di gioia riservata a coloro che determinano la vittoria.
Giovanni Comisso

da la Gazzetta del Popolo del 29/06/1963

Immagine in evidenza: Reproduction of an etching by H. Beckwith after C. Hancock. Iconographic Collections Keywords Henry Beckwith; Charles Hancock (Wikimedia Commons)

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