Ci sono romanzi che hanno il potere di catturarti fin dalla prima riga, trasmettono fin da subito una profonda bellezza perché sanno racchiudere, in poche parole, l’essenza stessa del libro. L’incipit svela dunque ciò che ci dovremo aspettare nelle pagine a seguire e quando alla fine si giunge alla conclusione della lettura ci si accorge che quelle righe iniziali sono state un seme che a poco a poco ha germogliato davanti ai nostri occhi. Non è facile produrre tale distillato e credo che quando ciò succede ci si trovi in uno stato di grazia quasi irripetibile.
“La foto dei ragazzi sul tavolino nell’ingresso è la stessa che avevano usato per la lapide”.
Mi è capitato esattamente questo quando ho letto “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” di Michele Ruol. Si tratta di un romanzo pubblicato dall’editore barese Terrarossa che delle scelte editoriali ha fatto una missione, quasi un manifesto di qualità e ricerca di una scrittura capace di andare in profondità e di raccontare la realtà con una voce personale. Quella di Ruol è un’opera d’esordio, lo scrittore padovano infatti, anche se da anni ormai scrive per il teatro e pur avendo pubblicato alcuni racconti su riviste specializzate, non era ancora arrivato alla pubblicazione.
“Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” racconta la storia di un nucleo familiare composta da padre, madre, maggiore e minore. Sono questi gli appellativi che vengono utilizzati nel romanzo, non ci sono nomi propri a restringere la visuale. I due ragazzi muoiono a causa di un incidente e noi osserviamo sia la loro storia che quella dei genitori attraverso gli elementi materiali che hanno composto la loro vita prima del tragico fatto. Sembrano essere gli oggetti a parlarci di loro, una muta testimonianza del loro percorso di crescita, ma anche un osservatorio privilegiato sul dolore crescente di madre e padre che sono costretti, loro malgrado, a rimettere assieme i cocci provocati dal devastante impatto che li ha privati dei figli.
La narrazione prosegue per salti temporali, un momento i figli sono vivi e partecipano alla vita familiare, danno soddisfazioni, procurano fastidi, crescono; un momento non ci sono più e i genitori sono costretti, a ritroso, a recuperare testimonianze degli amici per poter mettere assieme un identikit il più veritiero possibile di ciò che sono stati in vita maggiore e minore.
“Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” è un romanzo che sa colpire al cuore, emoziona sia per il tema trattato, quello della perdita dei figli, sia per come Ruol ha deciso di trattarlo. Questa costruzione non lineare ci permette di comprendere a piccoli passi esattamente ciò che comprenderanno anche i genitori, che nessuno è perfetto anche se si tratta dei propri figli, anche se questi sono morti. È come ricomporre un puzzle raccogliendo a uno a uno i pezzi da una scatola, posizionandoli su una superficie piana e aspettando che i vari pezzi vadano al loro posto, dando un senso finalmente al quadro complessivo.
Il romanzo è permeato da un’ombra di malinconia che ci accompagna per tutto il libro, eppure, nonostante sia ben chiara la natura profonda del trauma vissuto da madre e padre, il romanzo si conclude con una piccola speranza che in qualche modo riesce a rischiarare il futuro dei due genitori.
Pur trattandosi di un romanzo d’esordio Michele Ruol tiene molto bene la barra a dritta. L’idea di non dare nomi propri ai personaggi, a mio parere, rende questo dramma ancora più universale, lo avvicina alla nostra visuale rendendolo ancora più chiaro di quando non lo sia già. Inoltre l’uso degli oggetti come incarnazione degli spiriti che hanno vissuto nella casa contribuisce a mantenere un certo distacco tra la narrazione e la materia narrata. Con un tema del genere sarebbe stato molto facile pigiare sul tasto della pornografia del dolore, invece Ruol sceglie di raccontare con delicatezza l’atroce lutto e tutti i meccanismi di rifiuto e, infine, accettazione, che madre e padre dovranno mettere in atto per lasciarsi, per quanto possibile, alle spalle la loro tragedia.
Un’ultima menzione riguardo lo stile utilizzato dall’autore padovano. Ruol ha scelto di scrivere un romanzo quasi per sottrazione. I periodi sono rastremati, portati all’essenziale. I capitoli sono dunque brevi e agili, eppure contengono molto più di quanto la loro brevità lascerebbe supporre. Non una parola in più del necessario. C’è tutto quello che deve esserci e niente di più.
L’intervista
[Gianluigi Bodi]: Come nasce l’idea di questo romanzo?
[Michele Ruol]: Questo romanzo parte da domanda a cui non avevo risposta. Come si sopravvive al dolore?
In questa storia il lutto quindi è dichiarato fin dall’inizio, perché quello che mi interessava raccontare è ciò che viene dopo. Per ricollegarmi al titolo, più che l’incendio volevo indagare quello che succede a partire dal momento in cui le fiamme si spengono. Il vuoto, il dolore, la mancanza di senso: sono il punto di partenza. I giorni però continuano a scorrere; la vita, biologicamente parlando, è inarrestabile. Mi premeva raccontare proprio questo paradosso partendo da qui, dal difficilissimo momento della ricostruzione, sollevando domande e cercando un senso insieme ai miei personaggi.
Ci sono due scelte stilistiche che secondo me sono molto importanti per la costruzione del tuo romanzo: la scelta di non dare nomi propri ai personaggi e quella di far raccontare gli oggetti. Ci racconti cosa ti ha spinto a fare questa scelta?
Questi che evidenzi sono effettivamente i due cardini su cui si appoggia l’architettura del romanzo.
Da una parte i personaggi che sono nominati non con un nome proprio, ma con uno comune: Madre, Padre, Maggiore e Minore. Si tratta di denominazioni universali, che noi stessi indossiamo quotidianamente, perché indicano un ruolo. Quello che avviene in questo romanzo è che Madre e Padre si ritrovano senza figli, ma il cortocircuito che li tocca può non essere così diverso da chi si definisce Figlio e perde i genitori, da quello di chi è Lavoro e lo perde, da chi è Luogo e si trasferisce. Per i miei personaggi è come se qualcuno fosse andato alle voci “madre” e “padre” e avesse cancellato le definizioni. Cosa resta di loro? Mi interessava il vuoto che si crea, perché da lì sgorgano tutte le domane che nella vita di tutti i giorni non sempre ci facciamo. Com’è cambiato il nostro rapporto dopo l’arrivo dei figli? Fino a che punto siamo responsabili delle loro vite? Dove si pone il confine tra controllo e libertà? È un vuoto apparente, perché sotto le braci ci sono risposte che attendono il momento giusto per germogliare.
Poi ci sono gli oggetti. In quanto inanimati, sono destinati a sopravviverci, e in un certo senso il romanzo è una sorta di scavo archeologico: un inventario di reperti, a partire dai quali si potrà cercare di ricostruire la storia di chi li possedeva. Alle cose restano attaccati ricordi, frammenti di vita, emozioni, che danno loro un valore sentimentale tanto più prezioso quanto è inaccessibile dall’esterno. Hanno, gli oggetti, il potere di riportarci in altri luoghi e in altri tempi accedendo direttamente alla nostra memoria, e questa è la loro maledizione e la loro magia, perché permette loro di causare dolore e lenirlo insieme. Mentre ragionavo su come raccontare questa storia ho realizzato che questa contraddizione e ambivalenza poteva essere il punto di vista giusto per raccontarla: quanta vita e quanta umanità c’è in questi esseri inanimati?
Tu ormai da anni scrivi per il teatro. Cosa ti ha spinto ad assaggiare anche la narrativa e pensi che la tua esperienza con il teatro abbia influenzato la tua scrittura?
La narrativa in realtà mi ha sempre accompagnato: ho cominciato da ragazzo scrivendo racconti, e anche negli anni in cui mi sono dedicato maggiormente al teatro non ho mai smesso. Sicuramente però l’esperienza drammaturgica ha influenzato la scrittura di questo romanzo, soprattutto nell’immaginare gli spazi. Il libro infatti è diviso in due parti, Casa e Automobile, che a loro volta sono suddivise in sezioni, a cui corrispondono le varie stanza della casa o vani dell’auto. Ogni stanza poi ha una descrizione che permette al lettore di visualizzarla, e questa in realtà corrisponde alle didascalie che in drammaturgia raccontano tutto quello che riguarda la scena o le azioni, quello cioè che non viene recitato. Gli spazi di questa casa diventano così un enorme palcoscenico – vuoto – in cui gli attori, i protagonisti, sono sempre dietro le quinte. Se ne percepisce la presenza, ne arrivano le voci fuori campo, i rumori, i sospiri. Non li vediamo ma li sentiamo, e questa è una magia presa in prestito dal teatro.
Trovo che “Inventario di quel che resta quando la foresta brucia” sia un romanzo molto asciutto, quasi minimalista a tratti, mi chiedevo quali fossero gli scrittori e le scrittrici che in qualche modo hanno influenzato la tua opera.
Sì, proprio perché la materia di cui tratto è incandescente mi sembrava che avesse bisogno di essere raccontata, non con freddezza, ma con asciutta precisione, che poi è una qualità che a mia volta cerco come lettore. In questo senso gli autori di cui mi sento grande debitore sono tanti, ma fra tutti nominerei certamente Ágota Kristóf e Richard Yates.
“Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” di Michele Ruol.
Editore: TerraRossa Edizione (17 aprile 2024)
Copertina flessibile: 208 pagine
ISBN-10: 8894845524
ISBN-13: 978-8894845525
Peso articolo: 800 g
Michele Ruol, di professione medico anestesista, scrive per il teatro e ha pubblicato racconti sulle riviste letterarie «Inutile» ed «Effe – Periodico di Altre Narratività», oltre che in raccolte a più voci, come L’amore ai tempi dell’apocalisse (Galaad), a cura di Paolo Zardi, e Il Veneto del futuro(Marsilio), a cura di Alessandro Zangrando. Il testo Betulla, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano per il podcast Abbecedario per il mondo nuovo, è stato pubblicato nel libro omonimo edito da Il Saggiatore. Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è il suo esordio come autore di narrativa.
Immagine in evidenza: Foto di Marco Allasio