“Gradiva le differenze: forse per questo viaggiò tanto.” Ben si addice a Giovanni Comisso questa frase di Jorge Luis Borges. Comisso viaggiò per lavoro certo, ma anche per amor di conoscenza, per placare quella brama di vivere che lo accompagnò fin dall’età giovanissima. Lasciamoci trasportare allora dalla sua penna arguta che ci dona una serie di istantanee, pubblicate dal Corriere della Sera. La prima, scattata a Ceylon nel febbraio del 1930. A seguire Singapore, la Cina, il Giappone, poi ancora la Cina, fino a Mosca, percorrendo la Transiberiana.
Salite a bordo, l’Oriente ci aspetta!
Colombo (Ceylon), febbraio.
Sul ponte di terza classe v’era come passeggero un giovanotto lungo e pallido, dagli occhi fortemente torti. Un giorno, trovandomi a camminare sul ponte di prua col medico di bordo, lo vidi apparire dietro alla biancheria dei marinai tesa al sole, che si gonfiava al vento.
Egli ci fissò intensamente con uno del suoi occhi, come per indurci a rivolgergli l’attenzione, e lo guardai in volto.
Il medico, con una comprensione tabellare da appena uscito dall’Università, mi disse: «E’ un deficiente, il suo strabismo ne è un indice assoluto. Va al Siam per entrare in un convento buddista».
Peter
Per quanto la vita a bordo d’un piroscafo si svolga come in un piccolo villaggio, non mi fu più possibile rivederlo. Tre giorni dopo, sulla sera, arrivammo a Colombo, nell’isola di Ceylon, e nello stesso motoscafo che doveva portarci a terra trovai il passeggero di ponte.
Mi salutò cortesemente in italiano con accento tedesco, mi offerse una sigaretta e si presentò: «Peter». Appena a terra, l’afa gravava opprimente su questa cosidetta perla dell’Oriente; molti indigeni aggiogati a leggere carrozzelle a due ruote ci assediarono, offrendo i loro servizi e vantandosi intermediari di bellissime donne del luogo.
Volevo vedere il quartiere singalese e contrattavo sul prezzo della corsa con uno di questi arsi uomini da tiro, quando dietro a me intervenne la voce di Peter: «Ma no, signore, voi offrite troppo, voi non sapete contrattare con gli indigeni».
E, intromessosi con violenza, concluse per la metà di quanto avevo proposto. Io invitai a venire con me e dato ordine di correre presto, partimmo ognuno su d’una carrozzella. Sull’asfalto della strada, la carrozzella dalle ruote di gomma, al traino cadenzato di questi umili esseri, scorreva, dando un piacere misto di altalena e di gondola. A momenti una sorpassava l’altra, a momenti ci si trovava vicini, e allora si poteva facilmente conversare.
Gli domandai se avesse viaggiato molto.
Diceva di essere stato nell’America del Nord e poi di avere percorso il Marocco. l’Algeria, la Tunisia, l’Egitto, il Sudan, l’Abissinia, il Congo, la Turchia. l’Armenia, la Persia. l’Afganistan, il Belucistan, il Curdistan, l’India, il Siam, Sumatra, Giava, Borneo e la Cina come incaricato da una Compagnia per la ricerca del petrolio. Parlava diverse lingue europee e diceva li conoscere il siamese e il malese. Suo padre, addetto militare germanico presso il Re del Siam, era morto al fronte francesi. Aveva potuto completare la sua educazione a spese del Governo germanico e s’era laureato in ingegneria. Ma egli non poteva sopportare l’Europa.
Ah! perché non sono partito prima dall’Europa? Guardate, guardate che bellezza!
Eravamo entrati nel quartiere indigeno. Contro le pareti azzurro delle piccole case, alla luce del tramonto, splendevano I dorsi nudi e compatti di alcuni Singalesi immobili; le palme vibravano elevate nel cielo; ananas e mangos accatastati ed un vocio continuo da una parte e dall’altra.
I portatori avevano rallentato; ci trovavamo davanti a un tempio, di dove i usciva una nenia accompagnata da una specie di musica d’organo. Le pareti esterne erano di legno con figure dipinte: pareva un baraccone da fiera; dentro un idolo e luci di candele attorno, «E’ un tempio di Brama» mi disse. Gli domandai se era vero che andasse al Siam per farsi buddista.
«Io sono già buddista». Volli sapere come poteva provarmelo. «Per voi è impossibile riconoscermi, ma per un buddista basta che mi guardi negli occhi. Non c’era ancora la possibilità di credergli e accennai a un sorriso.
«Se volete io posso farvi visitare il tempio di Budda». E ordinò agli uomini di portarci a un tempio di Budda.
La tigre domestica
La notte era scesa rapidamente. Passammo attraverso strade con basse casipole vagamente illuminate. Ci si allontanava dal centro della città verso quartieri deserti: le strade si fecero più oscure, ora leggermente in salita e ora in discesa. I nostri uomini rallentarono il passo e la carrozzella di Peter si trovò vicino alla mia. «Quand’ero a Sumatra, — allora mi disse con lentezza, — mi trovai a pernottare in un piccolo villaggio presso alle miniere d’oro di TandjumEnin; avevo lasciato le mie armi nella casa che mi ospitava e volevo andare in una capanna distante cento metri, dove c’era una bella donna. Fatti cinquanta metri, d’improvviso s’alzò da terra una grande tigre: senz’armi com’ero, rimasi quasi morto. Ma la tigre non mi saltò addosso: fuggii indietro e mi salvai, e anche la tigre fece dietro-front e se ne andò. Arrivato alla casa da dove ero partito, ritrovai la tigre: nella fretta le ero caduto addosso. La tigre fuggì ed io mi precipitai nella casa per subito cadere a terra tremante di paura. I malesi mi domandarono che cosa mi fosse accaduto.
«La tigre!» gridai, ma essi risero. «La tigre» gridai più forte, ed essi risero più forte. Infine mi spiegarono che era la tigre del villaggio che non faceva male ad alcuno.
Non ero molto di buon umore, l’umidità calda dell’aria toglieva tutto il piacere della corsa ed egli continuò a raccontarmi altre storielle del genere come preoccupato di divertirmi.
Dovevamo essere assai lontani dalla città, attraversavamo un quartiere tutto di piccole ville dentro cui si sentivano donne ridere; alte palme si profilavano contro il chiarore della luna nascente.
Non voleva domandare se ancora mancasse molto ad arrivare; non bisognava dare la sensazione che sapevamo d’essere da molto in cammino, perché ne avrebbero approfittato sul prezzo. Infine vedemmo spuntare su dalle fronde degli alberi i pinnacoli del tempio e, giunti davanti a un cancello, i portatori si fermarono abbassando per terra le stanghe.
Il mantello giallo
Un indigeno dai denti sporgenti ci venne incontro con tutta la migliore volontà di farci visitare il tempio, ne sopraggiunse un secondo e, accesa una candela, già cominciavano a darci minute spiegazioni intorno a un grande mausoleo scolpito di elefanti. Peter impose loro di tacere, egli conosceva ogni cosa, e ordinò invece di correre a chiamare un prete buddista. I preti dormivano e non potevano essere svegliati. Egli assunse un’espressione feroce di comando alla quale obbedirono. Ci trovavamo in un giardino ricco d’alberi e qua e là biancheggiavano alcuni capitelli o tombe. Il Tedesco si teneva fermo e non voleva che gli parlassi. Dal fondo del breve viale ritornarono i passi delle due guide e poco dopo d’improvviso, tanto fu senza rumore, apparve davanti a noi la figura d’un uomo dalla testa rasa, dallo sguardo dolce, ravvolto a guisa di toga d’un drappo rosso; il colore della sua pelle era delicatamente bruno. Era un prete buddista.
Peter gli si fece più vicino e stringendogli la mano rimase per qualche minuto a guardarlo intensamente come cercasse di addormentarlo con lo sguardo. L’altro corrispondeva con una luce serena negli occhi.
Domandò al prete se lo riconoscesse, questi rispose con un leggero singulto e un piccolo cenno del capo: allora si sciolsero dalla stretta e il Tedesco lo invitò ad accompagnarci nella sua cella perché doveva parlargli. Qui gli spiegò come fosse in viaggio per Bangkok, dove sarebbe entrato in un convento buddista, e gli chiese in dono una veste come la sua.
Il prete aperse una cassa e tratti alcuni drappi gialli, gli diede da scegliere. Altri preti sopraggiunsero dalle loro celle dove stavano dormendo e ci guardavano curiosi e attenti. Il Tedesco s’era messo a discutere perché tutti i drappi erano troppo corti: finalmente uno gli andò bene; nel riceverlo passò una carezza sul volto del prete e rivoltosi a me disse:
«I buddisti sono buoni: regalano tutto quello che hanno.»
Anima e amore di Budda
Ritornammo nel giardino. Il prete ci portò a vedere i vari tabernacoli: v’erano una tomba di Budda e un tempietto con un piccolo Budda in pietra e sui rami d’un albero prospiciente, stavano appesi alcuni cenci offerti da ammalati per ottenere il risanamento delle loro piaghe.
Più in là c’era un altare illuminato da una piccola luce e dentro a un’urna in vetro splendeva un disco dorato cinto di cerchi rossi: era il simbolo dell’anima di Budda.
Su di una pietra di marmo erano deposti alcuni fiori simili a tuberose; Peter ne prese uno e me lo diede da odorare: il bianco dei petali si addensava al centro in un rosa carnicino: era dolcissimo. Entro a una capanna chiusa a vetri potei osservare un gruppo di sette od otto statue di uomini o di guerrieri.
Con voce cupa mi disse: «Sono divinità viventi». La luce della candela dava riflessi ai loro petti di cera o di legno verniciato; apparivano belli e la composizione stupiva.
Poi entro a un’altra capanna chiusa a vetri vidi una grande lampada e una fiammella vi ardeva perpetua: era il fuoco dell’amore di Budda. Altre cose erano qua e là nell’ombra e certe tavole, come avessero servito a un banchetto, stavano abbandonate fuori alla notte. Ma ogni illusione cadde come m’accorsi di alcune mattonelle di ceramica, di volgare fattura europea, del tutto simili a quelle che s’usano nelle nostre stanze da bagno, che decoravano tutta la parete esterna del tempio.
Al ritorno Peter mi disse: «Resterò tre anni nel monastero di Bangkok e poi andrò a Berlino a insegnare il buddismo e innalzerò un tempio nel Grunewald.»
Il «deficiente» era felice e agitava al vento della corsa il sacro mantello giallo degli iniziali all’adorazione di Budda.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della sera del 21 febbraio 1930