Avevo fatto assai bene i miei calcoli. Mi ero detto: “Andiamo prima a girare lontano per il mondo, e teniamo di riserva per il dopo le nostre sublimi città”. Ecco, è giunto il momento di intaccare la riserva. I miei paesi lontani sono oggi irraggiungibili, visitiamo i vicini, i nostri.
Ci troviamo anche in una situazione romantica. L’anima ha vissuto durante la luna di marzo, questa nefasta e generosa luna, il più passionalmente possibile con amore scoperto quando l’essere amato se ne era fuggito, con gelosia, odio, furore e disinganno crudele. E non si poteva scegliere se non una città romantica. Ci si era parimenti convinti da questa esperienza romantica che l’arte narrativa italiana ha una suprema necessità di liberarsi dalla sua essenza metafisica per andare verso il cuore: il cuore delle passioni. Rinnegavo nei miei romanzi i personaggi da me creati, tutti cristallizzati in funzione del paesaggio. Bisogna far piangere, dicevo, bisogna far riscaturire le passioni fino al delitto e al suicidio e allora la vita sarà colma di vita, altrimenti diventeremo macchine. E la città romantica scelta come meta fu: Parma.
Il viaggio è lungo, un viaggio in pianura, tra un verde che si faceva sempre più molle. La monotonia convinceva che la distanza era veramente enorme, la pianura padana diventava quasi pianura ungara, rumena, e quando sul finire del pomeriggio si arrivò alla ampiezza del Po con una grande città segnata da innumerevoli chiese su una delle Rive, si pensò addirittura di essere oltre la Volinia, vicino a Kief, eravamo invece a Casalmaggiore, una città che si era appena sentita a nominare.
Il treno dovette rallentare perché poco prima al passaggio di un merci una donna vi si era fatta schiacciare contro. Un’Anna Karenina, romantica. Qualcuno chiese: “Era giovane?”. Venne confermato: “Allora fu per amore”. Un’Anna Karenina in questa pianura, come uno di quegli uccelli migratori che dalle steppe arrivano talvolta sbattuti dalle burrasche fino alle nostre terre e portano allo zampino un’indicazione del luogo di partenza.
Parma si faceva presentire con questo profumo di romanzo. Profumavano forse anche le sue violette. Si arriva sulla sera. La luna già dava ombra alle strade, e quando si ritornò a camminare per la città era già alta e illuminava in pieno. Sì incomincio insomma a vedere la città sotto la luna e ci si riconfermò d’essere giunti in una città lontana, stranamente lontana. Nella piazza del Duomo nereggia va contro la luna il battistero altissimo, una costruzione quasi asiatica, una specie di pagoda, non si credeva alla realtà, ci si convinceva di aver viaggiato verso oriente. Strade piane, spaziose, comode, deserte, palazzi, archi con sopra passaggi; un vasto palazzo, con un portico ampio, alti archi, un albero vecchissimo alto isolato sulla strada, un giardino fiorito, chiese elaborate dagli uomini e dalla luna.
Poi al mattino al risveglio ci s’accorse del rosso di un antico palazzo e dei mattoni scoperti di un altro adorno di nicchie, e dal cielo segnato da altissime piume di nubi e degli occhi delle donne simili a violette. E questo latte che viene dalla campagna densa di foraggio dolce come se vi fosse stato stemperato del miele ci modellava le parole subito nella cadenza locale. Una città da non abbandonare più, accogliente, al risveglio, come la grazia del mondo, alla nascita.
Si rivide il battistero, ma l’incantesimo fu diverso con la luce del sole, si rivive il palazzo dei Farnesi, di questi folli principi italiani, folli di armoniosa grandezza, E quando ci si trovò davanti al loro ritratti si comprese la solennità degli archi, delle porte, delle finestre, lo scherzo del teatro dentro al palazzo, l’ampio sottoportico e la placidità delle gradinate.
Ranuccio secondo è quello che li riassume tutti. Vi è di lui un grande quadro che lo raffigura fermo nel suo sguardo insostenibile, chiuso in un vestaglione di seta imbottita, lo si sente ansimare sotto l’adipe di sensuale e mangiatore. Comanda col suo occhio fermo che si continui a costruire il suo palazzo incominciato dagli avi, sempre più grande, e con marchi che inquadrino le sue spalle, con facili gradini per il suo passo pesante. Di lui vi sono ancora due busti di marmo, uno pensoso, l’altro arrogante, la fronte bassa, le larghe guance, il doppio sottogola, il petto ampio sotto la corazza ricompletano il suo volume, doveva muoversi nell’aria come un veliero carico di pietre. Poi alla trattoria mentre si mangiava si intese dalla tavola vicino un rumore di cibo in bocca e ci si volse. Ranuccio era là vivente che mangiava. Non era seduto a tavola, ma la tavola Si era umiliata ai suoi gomiti, al suo ventre, alla sua bocca. La piccola mano tonda alzava la forchetta alla bocca, protraeva la lingua per adescare il boccone come il camaleonte, e biascicava con forza. Il suo sguardo stava proteso ,fermo e corrucciato come in difesa da quelli che gli stavano vicino.
A questo punto la città romantica reagì. Da una finestra aperta si intravedeva una corte chiusa e non si seppe da dove venne un uomo un uomo di fotografo, un vecchio di disco, poteva essere anzi antica quella musica, quasi come una canzone di Monteverdi: “Si dolce mi è il soffrire”. E questa musica richiamò a due finestre due donne, una che si rammentava una calza e l’altra che terminava di pettinarsi, l’una in rosso, l’altra in giallo, la parete della casa era bianchissima di calce fresca. “Sì dolce mi è il soffrire”, qui incomincia il romanzo. Ma a narrarlo, sarà per un’altra volta.
Giovanni Comisso
Pubblicato sulla Gazzetta del Popolo il 30 aprile 1943.
Immagine in evidenza: Parco Ducale a Parma. In primo piano la statua di Sileno ed Egle (Jean Baptiste Boudard, 1785) sul fondo il Tempietto d’Arcadia (1769) creato dal Patitot (fonte: Wikipedia)