Troppe volte oramai vado a Roma quasi fosse una città come Milano. solo per parlare di affari e non avesse sotto al suo cielo un clima di divino ozio da godere senza il calcolo delle ere, magari in visita dei suoi musei, delle sue chiese, dei classici edifici che non si rivedono dalla giovinezza e sui quali ora si potrebbe migliorare e accrescere le idee relative. Bisogna pensare che su quel patrimonio romano, unico al mondo, abbiamo conservato idee quasi scolastiche e sarebbe necessario aggiornarle col nostro giudizio e con la nostra sensibilità, raffinati dalla lunga esperienza di anni sulle cose della vita.
Questa volta ho deciso di visitare Villa Adriana, non ricordo più quando la vidi l’ultima volta, ricordo solo che allora le pecore vigilate da un pastore disteso all’ombra di un albero pascolavano tra le immense rovine.
Da Roma fino alla villa allora la via Tiburtina se ne andava tra una terra abbandonata che incominciava a essere messa ad agricoltura ogni tanto. Ora invece la periferia della città si tramuta in fabbriche di prodotti automobilistici, di mobili, di profumi dai nomi rettorici e stravaganti, tutta un’industria pretenziosa al confronto di quella delle periferie di Milano e di Torino. E se questa industria petulante avanzerà ancora finirà fino alla villa, fino a Tivoli cacciando gli ultimi pastori, distruggendo gli ultimi vigneti e gli ultimi olivi. Andavo a questa villa dopo una conoscenza maggiore di monumenti del passato. Avevo visto a Pechino il palazzo imperiale e il tempio del Cielo, avevo visitato la valle dei Re, i templi di Luxor e le piramidi, la Acropoli, Olimpia e Micene, Pompei e le necropoli etrusche. ma subito appena superato il grande muraglione mi convinsi che stavo per trovarmi davanti a uno dei massimi monumenti dell’antichità. Massimo come concezione: quella di essere stato costruito per l’ozio di un solo uomo. Forse appena il palazzo imperiale di Pechino può reggere al raffronto ma quegli edifici chiusi in un’area vasta quanto questa sono meno imponenti. Gli edifici cinesi di fronte a questi risultano come dei soprammobili. Pompei è importantissima, ma risulta pettegola; i monumenti egizi sono enormi, ma le idee che li reggono sono così astratte da ridurne le dimensioni; nella Grecia le idee per ogni monumento sono tanto solenni che rendono naturale la maestosità delle colonne, delle pietre e delle statue; le necropoli etrusche sono umanamente preziose e suggestive, ma non si può dire che siano grandiose. Villa Adriana, invece, nella fantastica grandiosità del complesso delle costruzioni racchiude esclusivamente una massima considerazione di un solo uomo terreno per uno stato d’animo suo particolare.
Quest’uomo era Publio Elio Adriano, cugino dell’imperatore Traiano che lo aveva adottato come figlio, dopo che aveva sposato sua nipote Sabina. Nato nel 76 dopo Cristo era stato eletto imperatore a quarantuno anni. Era alto ed elegante, ricciuto e con una folta barba che gli nascondeva un difetto del volto. Quando ebbe il potere, l’impero aveva raggiunto i suoi limiti massimi e nessuno osava attaccarlo, la pax romana era realtà in atto. La pace e la potenza gli favorirono l’estro di fare grandi viaggi attraverso l’impero e di compiere dovunque opere grandiose. Fondò diverse città dando a esse il suo nome, ricostruì Gerusalemme, elevò il vallo tra la Scozia e la Britannia, restaurò a Roma e ad Atene grandi edifici andati in rovina, si fece quella tomba che oggi è Castel Sant’Angelo e infine, per il suo ozio o per la sua malinconia, questa villa vicino a Tivoli che aveva sei miglia di circonferenza, cioè quanto una città di una certa considerazione.
Sembra quasi che la sua smania di viaggiare e di costruire dovesse nascondere un’incertezza e forse il senso della vanità del tutto, pure tra tanta pace e potenza ho un vago sospetto che egli fosse un Amleto latino a colloquio non con gli spettri, ma con la sua anima inquieta. Durante uno dei suoi viaggi, incontrò, in Bitinia. il giovane Antinoo, che prese con sé, come stregato dall’intelligenza e dalla sua eccezionale bellezza. In un altro viaggio con lui, in Egitto, misteriosamente questo giovane annegò nel Nilo. Adriano aveva cinquantaquattro anni, un’età critica per le illusioni quando svaniscono e si dovrebbe avere la forza per rinnovarle. Col suo estro abituale cercò di sanare la ferita costruendo ancora, costruì una città sulle rive del Nilo, alla quale diede il nume di Antinoo. Volle che gli scultori lo divinizzassero come la bellezza fatta uomo, ma la ferita dell’anima si era già trasformata in una ferita del corpo. Non viaggiò più, non costruì più, la sua villa dopo otto anni di lavoro era già quasi terminata, e si rinchiuse in essa per quattro anni, fino alla morte.
La villa aveva tutto quello che serve alla vita di una città per uso di un solo uomo: l’imperatore. Vi era una palestra, uno stadio, le terme, un teatro, un odeon, una vasta piscina, dove si potevano dare battaglie navali, biblioteche, ninfei, soggiorni isolati dall’acqua, raccolti e confortevoli, forse per soste nelle giornate calde, forse per cene intime, forse per assistere a spettacoli di danza sotto il portico che li attornia; cortili chiusi da portici, un lungo portico a imitazione dello stoa dell’Accademia per passeggiarvi coi filosofi suoi ospiti, vi erano ancora riproduzioni perfette di monumenti o di templi famosi e infine il palazzo imperiale su di una posizione elevata pieno di stanze e di sale. Tutto questo complesso di edifici si distendeva tra orti e giardini, tra oliveti e frutti in un intrico di viali che l’imperatore attraversava portato in lettiga ne!!‘andare da un edificio all’altro come lo prendeva la voglia. La costruzione durò otto anni e osservando negli alti ruderi la composizione di fitti cunei o di piatti mattoni si pensa quale tramestio di manovali d’ogni genere doveva esservi ogni giorno in quegli anni. Carri in lunghe file dovevano portare la creta, altri la legna altri la calce, da una parte si stampavano quei cunei e quei mattoni, da un’altra nelle fornaci si cuocevano, da un’altra si impastava la calce. Ancora, marmisti lavoravano i marmi per fare le colonne e i capitelli, gli stipiti, le balaustre, i pavimenti; mosaicisti e lavoratori dello stucco avevano altri cantieri. Idraulici regolavano le deviazioni delle acque portandole alle terme, alle fontane, ai ninfei, dovunque per dissetarsi, per lavarsi, per creare scherzi e giuochi armoniosi. Migliaia di manovali, di artigiani, di sorveglianti e poi direttori dei lavori e architetti tutti accampati attorno alla grande area, accampati come un esercito con le cucine, con le baracche dove dormire; otto anni di lavoro, più ancora che per costruire una città, perchè ogni angolo doveva essere rifinito con stucchi, con affreschi, con mosaici, levigato e fresco come l’interno di un bozzolo di seta.
Ma se questo era l’esercito per costruire non meno numeroso doveva essere l’esercito di gente addetta per mantenere in efficienza tutto il complesso chiuso nelle sei miglia di circonferenza. Dovevano esservi squadre di giardinieri, di ortolani, di addetti alle acque, di fioristi, di spazzini, di facchini, di stallieri, di portatori di lettiga, di portaordini da inviare a Roma e in tutte le parti dell’impero, di bagnini per le terme, di addetti alle torcie e ai lumi, di barbieri, di fornai, di cuochi speciali per la corte di cuochi più modesti per tutti i servi.
Poi salendo nella scala dei compiti dovevano esservi gli addetti alle biblioteche, gli attori per i teatri e tutti i loro aiutanti, i ginnasti e i maestri, i musici, gli scribi, i vigili per tutto l’ordine della villa e per il fuoco, le guardie di scorta. Ancora vi erano tutti gli alti personaggi che formavano la corte, i filosofi, i consiglieri coi loro segretari, i comandanti militari, gli officianti nei templi, i tesorieri, i medici e ultimo di tutti sul vertice più alto, solo e malinconico, come un crisantemo che sovrasti tutte le foglie umili e sottostanti, l’imperatore Adriano.
Triste nei suoi ultimi quattro anni di vita, ammalato di consumazione, inguaribile nel dolore per la morte di Antinoo, e forse nel disperato tramonto di un giorno scriveva questa poesia:
Amimula, vagula, blandula,
Hospes cosmesque corporis
Quae nune adibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec ut soles dabis jocos?
Camminando tra queste rovine che il grigio degli olivi e il nero dei cipressi inquadrano, rovine rosate nel colto dei mattoni, più che ricostruire il loro aspetto quando erano rivestiti di marmi e di stucchi levigati, si tenta di ricostruire quale doveva essere la vita giornaliera di Adriano. Si pensa che ogni distrazione doveva essere inutile. Non l’attrattiva di recite nel teatro greco, non le corse allo stadio, non i musici nell’odeon, non giuochi ginnici nella palestra, non le battaglie navali nella grande piscina, non i conversari coi filosofi nello stoa, non le cene prelibate nel soggiorno isolato dal cerchio d’acque coi suoi stanzini combinati come le celle di un favo. Forse il suo sguardo da una terrazza del palazzo doveva vagare sulla distesa della villa posandosi sui servi intenti alle opere, servi che dovevano provenire da tutto l’impero: africani, asiatici, germanici, iberici, galli e britanni, riconoscibili dal colore delle chiome e della pelle. Essi nel lavorio silenzioso attorno alle acque, ai frutteti, ai fiori gli rappresentavano la potenza dello stato che egli reggeva, ma tra loro non vedeva apparire le bianche spalle di Antinoo e la sua chioma fluente.
La sua «piccola anima, vaga e piacevole» era ormai «pallidissima, rigida e nuda» e non dava più per lui un sollievo alla vita. Un grande silenzio doveva accompagnarlo dovunque e nessuno doveva osare di infrangerlo. Nè da lui stesso poteva sorgere la forza di risollevarsi, nè il senso dell’impero, nè la consapevolezza delle costruzioni indistruttibili che aveva sparso dalla Britannia all’Egitto. Tutte le grandezze erano inutili, egli scendeva rapidamente verso la morte, l’esasperazione doveva essere immensa in quella villa ed egli non era pazzo come altri imperatori che l’avevano preceduto e che soffocavano la loro noia e la loro esasperazione nelle crudeltà sanguinarie. Doveva proprio sentirsi sazio di tutti quei servi, di tutti i famigli pronti ai suoi ordini, di tutte le varietà degli edifici sparsi tra gli alberi, ognuno come le corde di un’arpa pronte a dare un suono diverso appena toccate, se finì di andare a morire a Baia. Era di luglio e forse si era trasferito in quel golfo, perchè più ventilato delle pendici di Tivoli, ma è anche certo che tra Baia e Pozzuoli, in quel primo secolo dell’impero, era un tripudio incessante, giorno e notte, da quando Marc’Antonio aveva girato col cocchio trainato da pantere, Lucullo aveva esibito monumentali le prodezze dei suoi cuochi, Nerone aveva ideato uno smisurato ponte di barche da Baia a Pozzuoli e Seneca non poteva avere un attimo di riposo per il chiasso delle baldorie per le strade e nelle ville vicine. Il saggio amministratore, il costruttore, il restauratore. il protettore delle arti, il consolidatore dell’impero: l’uomo d’ordine aveva fuggito la sua villa silenziosa, dove tutto era prestabilito secondo i possibili desideri e sentendosi prossimo alla fine aveva voluto morire, stordito dalla gioia di vivere degli altri, sfrenata, danzante, canora di quella spiaggia meravigliosa.
Andavo da un rudero all’altro spiando ogni angolo, cercando, ora di ricostruire mentalmente come doveva essere allora un portico, una finestra, una nicchia, un portale: gli abitanti di allora avevano altra visione, la mia era come di un bosco d’inverno con tutte le foglie cadute, essi invece lo avevano visto nel pieno rigoglio delle foglie e delle frutta. Il silenzio era immenso e questo era anche allora, preteso, imposto dall’imperatore, doppiamente ammalato, quel silenzio dal quale negli ultimi giorni di sua vita era fuggito, dal quale si era liberato, come da una condanna, come da una tortura per stordirsi nel chiasso di Baia e morire. Quando, in un crepaccio dove batteva il sole vidi una grossa lucertola, intessuta di verde e di grigio, come avesse assunto lo smagliante vestito di qualche danzatrice orientale di allora e occhieggiava come se fosse in attesa di apparire sulla scena dell’odeon. La guardavo nel nero dei piccoli occhi tondi ed essa mi riguardava pure dentro i miei occhi dove tutto era morto e crollato, quello sguardo era ancora vivo e tramandato intatto da un’altra lucertola di allora che aveva visto Adriano e che rivivendo in essa si attendeva di rivederlo in me che la osservavo, come nessuno l’aveva mai osservata dopo di lui, forse in una giornata d’autunno come questa per distrarsi dalla sua malinconica noia. Allungai un dito per accarezzarla e quella disparve nell’ombra dei secoli passati.
Giovanni Comisso
Pubblicato alle pagine 9-12 del numero 166 della rivista “L’Illustrazione del Medico” dell’aprile 1959