Nei luoghi di cura tutti si sentono così staccati dalle loro occupazioni abituali che le rimpiangono e ne parlano come di loro cari familiari che siano morti. Penso che molti ne siano tormentati nei sogni. Se sono soli, si vede sul loro volto la più atroce malinconia, ma se invece riescono a trovare qualche compagno col quale stringere una provvisoria solidarietà, si sfogano loquaci a parlare delle loro occupazioni, dei loro affari. commercio, industria, dei loro colpi di fortuna con tutto il gusto di farne vanto, quasi, non avendo un titolo nobiliare da esibire per distinguersi fuori dal paese, dove tutti li conoscono, possano convincersi di essere ancora qualcosa nel mondo, anche se il male che si curano li ha ridotti grotteschi mascheroni con gonfie occhiaie e aspetto giallastro.
Così avveniva a Chianciano, dove mi trovavo per una cura preventiva per il fegato che oggi è l’organo più minacciato dalla vita scombinata della nostra epoca. Ed era altresì curioso vedere la nostra umanità sostare in coda alle fonti di quell’acqua che giustamente è chiamata: Santa. Veniva da pensare ad altre situazioni. L’espressione di incubo negli ammalati mi ricordava quando durante la guerra questa stessa umanità correva a rintanarsi nei rifugi durante gli allarmi aerei, tale era il senso della probabile morte. Ma ancora mi ricordava una lontana notte nella vigilia di Natale in cui avevo assistito a una comunione generale dei presenti. Appunto quando ognuno ritornava dalla fonte col bicchiere colmo di acqua Santa, sorseggiata con lo sguardo rivolto alla sua divinità tutelare, sembrava che assumesse in sé l’ostia consacrata, persino con la difficoltà di ingerirla.
In questo luogo di cura l’incubo e la fede giuocano insieme in modo che tutto quanto viene prescritto al paziente è come se lo fosse al credente. Data la santità di quest’acqua che sgorga dalla terra vulcanica si crede che tutto quanto esce da queste profondità abbia una virtù risanatrice. E’ un culto degli inferi a rovescio che qui avviene, una credenza che sotto a questa terra, si formino non gli elementi di pena e di espiazione, ma quelli di risanazione per ritornare perfetti. Ma forse è la stessa cosa perché la pena alla pece, alle fiamme e al gelo applicata ai peccatori dovrebbe pure dare quella risanazione che qui si attende per il corpo.
In una valletta prossima a Chianciano vi è un terreno quasi brullo dove solo fiorisce l’erica ai margini estremi, aperto da crepe e da pozze d’acqua ribollente. Un fango viene di continuo come soffiato di sotto da esalazioni carboniche e gli uccelletti ignari che vi si calano per dissetarsi muoiono asfissiati. L’acqua ribollente è fredda e un acre odore di zolfo vi permane. I pazienti che vengono a bere l’acqua di Chianciano. nel pomeriggio si spostano fino a questa valletta, alcuni incauti bevono anche di quest’acqua sicuri sia ugualmente benefica, altri si spalmano il fango su piaghe alle gambe e certe donne al volto per togliersi le rughe. E’ una credulità commovente che spiega l’apparizione dei profeti. Si muovono lenti tra i crepacci del terreno, le pozze in fermento e certi buchi, come scavati da talpe, di dove esce sibilando il gas puzzolente. Si pensa che appunto questi sibili tanto frequenti per tutta l’Etruria abbiano ispirato agli Etruschi l’immagine alata degli angeli infernali.
Il sole obliquo che scende radente al declivio del monte li illumina blando e li distacca nei gruppi contro lo sfondo che si stende lontana verso la pianura della Chiana e i monti cilestrini dell’Umbria. In parte stanno seduti per terra. altri in piedi silenziosi o parlando sommessi e hanno la stessa oziosa attesa degli emigranti rassegnati al grande viaggio oltre l’Oceano fermi sulla tolda della nave.
Montepulciano è su questa strada e subito appare alto sul colle segnato da cipressi. Dà un vero piacere visitare questa città dove nelle sue strade in salita ci si ritrova ancora tra gente sana. Uscire da Chianciano è come uscire da un ospedale e non valgono a distogliere questa idea le donne eleganti e profumate. anch’esse hanno il loro segno di un male. E’ così che Montepulciano subito afferra con un senso di sollievo. Afferra e illude a ogni sua apparenza, me ne accorsi fino dai primi passi per quelle strade antiche dove la gente entra o esce dalle case, sta seduta sulle soglie o guarda appoggiata alle finestre.
Nella bottega di un antiquario scorsi relegato in un angolo un canopo etrusco, volli avere tra le mani la testa dove gli occhi erano modellati acquorei dentro l’incavo delle orbite come due minuscole acquasantiere. L’effetto era toccante, il defunto guardava in vero da un altro mondo. Pensai a un’occasione fortunata, tra le tante testimonianze etrusche i canopi sono quelli che più mi hanno sempre stupito. Forse avrei potuto comperare quel canopo per una cifra abbordabile, la chiesi e l’antiquario mi rispose un poco misterioso che non era in vendita. Mi sembrava assurdo o che fosse un mezzo per maggiormente attrarmi, insistei e allora ripiegò nel dirmi che era riservato per un cliente. Ancora non mi parve sincero, infine mi confessò che la testa di quel canopo era falsa, che era stato imbrogliato, che quegli che glielo aveva venduto era morto e che teneva quell’oggetto in un angolo come monito per non venire di nuovo ingannato. Tutto questo non mi importava per nulla, quel canopo mi piaceva ugualmente, mi dava un’emozione profonda, questo era valevole anche se era falso, ma l’antiquario non voleva diffamare il suo negozio con quella vendita. Sentivo di essere molto vecchio, di essere cioè giunto a quel momento estremo della vita in cui si bada solo alla sublime apparenza come per un ultimo addio al visibile. E i miei occhi mi risultavano acquorei nell’incavo delle mie orbite come quelli del canopo, come riguardassi dall’oltretomba.
E’ una città inspiegabile tutta costruita in salita, una salita che non finisce e ripida. Ai lati della strada tra le case antichissime si aprono, come squarci, stretti vicoli in discesa che lasciano vedere, come un’iride luminosa, i profondi panorami delle valli attorno che sfociano nelle pianure lontane limitate da altri monti più lontani. Non è una città fatta per i vecchi e si pensa come sia difficile camminare d’inverno con la neve e con il ghiaccio. Ma se si chiede a qualcuno, dicono che sono abituati, che anzi quando scendono al piano vi si affaticano di più, che l’inverno si mettono le scarpe chiodate. Anche alcune vecchie che lavorano di calza, sedute sulla panca di pietra di un antico palazzo, rannicchiate tra le sporgenze delle finestre sbarrate, come colombi sotto alla grondaia, dicono che sono abituate a quella strada.
L’erta strada che non finisce mai, a ogni tratto, come stazioni del Calvario, ha un solenne palazzo di cui non si può immaginare i padroni. Come facciano a vivere, come passino le ore del giorno nelle ampie stanze in penombra, si immagina solo la grande noia inveterata da secoli, diventata accidiosa, bisbetica. maniaca. Se si chiede come si chiamano, sempre viene risposto che hanno due cognomi abbinati all’uso toscano, come: Pozzati Albignesi o Buzzini Bellani o Franciosi Merlinghi e sono tutti conti.
Si sale adagio per non affaticare il cuore inesperto. a un certo momento si sente l’aria più ventilata. indubbiamente si è giunti molto alti vicino alla cima del monte e già il sole è verso il tramonto quando ci si trova nella piazza finale. Qui si ha l’impressione d’essere arrivati all’acropoli della città, tutto è solenne e armonioso nella luce che si è fatta tenue. La piazza con la chiesa, col palazzo del Comune, coi vari palazzi patrizi, tutti costruiti di pietra viva corrosa dal vento e dalla pioggia, sembra emersa da acque che per lunghi secoli l’abbiano conservata intatta. Lo squallore e il vento che ha preso a soffiare impediscono di dare una realtà, per qualche istante si pensa sia tutto di cartone costruito per una rappresentazione teatrale. D’un tratto un uomo viene fuori da dietro a un pozzo ornato di colonne e di blasoni e barcollando si avvicina per parlarmi di quei palazzi: secondo lui, sono stati costruiti tutti da cardinali, sembra che questa città sia stata costruita nei suoi palazzi meravigliosi solo da conti e da cardinali.
Mi prende il desiderio di visitarne qualcuno, entriamo, ma alla solennità della facciata corrispondono interni mediocri con stambugi e sale bislacche; in una, stanno accatastati vecchi mobili, come se la famiglia patrizia che l’abitava si fosse estinta senza eredi e tutto fosse messo in vendita. Nelle stanze di un altro palazzo le pareti sono completamente coperte di quadri allentati nella cornice e bucati. ma a ogni finestra che viene dischiusa si allarga, si allontana e si sprofonda il panorama più ampio del mondo, cinereo e definito, della terra sottostante, mentre il cielo illividisce.
Uscendo. l’uomo barcollante vuole indicarmi in una stradina un cortile chiuso dove venivano giustiziati i condannati. Mi accorsi allora che sul selciato dalla piazza fino alla porticina del cortile vi era un rivoletto fresco di sangue, viene quasi da trasalire, proprio sulla soglia si allarga una chiazza. Un gatto era fuggito al nostro avvicinarsi, si pensa avesse azzannato un topo, ma una vecchina seduta sul gradino di una porta toglie anche questa apparenza spiegando che poco prima era passato un ragazzo con un secchia di vernice rossa che spandeva.
Anche la cattedrale ha il suo giuoco d’inganno. mentre di fuori risulta incompiuta e modesta, pure nella sua struttura armoniosa, dentro vasta e solenne d’archi e di altari con tavole dei maggiori pittori senesi. Lo scaccino la illumina tutta e allora risulta immensa come un Partenone che di quella acropoli deserta e ventosa sia, all’apice del monte, l’ultima meta.
Ma non era così. dovevo visitare un altro palazzo di un altro conte o di un altro cardinale. che per essere sulla strada in discesa aveva un tale equilibrio nel portale e nelle finestre da imporsi come fosse sul piano e con largo spiazzo di prospetto. Opera d’uno dei massimi architetti del Cinquecento, risultava come un diamante che sfaccettato preciso manda iridescenze mirabili e comunque sia incastonato o dovunque sia messo non perde del suo potere d’incanto .
Era già finito il tramonto e incominciava il crepuscolo, era avvenuto un guasto alla luce elettrica, la cameriera si scusava e voleva cercare una candela, ma per fortuna non la trovava e il guasto perdurava. Entrai in una stanza che aveva la finestra aperta, ma sembrava si fosse giunti davanti a un grande quadro. Da quella finestra nell’alto cielo limpidissimo brillava già la prima stella e sotto la terra toscana ondulava già oscurata fino all’orizzonte lontano azzurrino e poi nel limite finale il rossore si distendeva fino a diventare arancione, proprio a colpi minuti di pennello. Più volte fui tentato di allungare la mano sicuro di toccare una tela dipinta, ma la mia mano si protendeva sul vuoto dell’aria, un vuoto immenso da dare le vertigini. Quell’ultima luce perdurava inestinguibile e fui costretto a sedermi su di una poltrona preso dall’estasi.
Allora compresi perché quella città era stata costruita su quella cima di un monte. Non importava affaticare il cuore per salire la lunga strada, subire il vento, il gelo degli inverni e la solitudine esasperante, bastava avere in quelle case una finestra come quella per avere la certezza dell’empireo.
Giovanni Comisso
Pubblicato su L’Illustrazione del medico N. 156 II 1958