Nell’andare verso Ravenna mi ero messo a sfogliare nella mente, i libri della vecchia storia. Volevo chiarirmi la situazione di questa città quando, nei lontani tempi, era stata per alcuni anni capitale dell’Impero Romano d’Occidente. L’impero romano faceva acqua da tutte le parti e non giovavano a dargli la vitalità di un tempo i compromessi col cristianesimo, diventato religione di stato, né l’assunzione alle più alte cariche di uomini barbari. L’impero era stato scisso in due parti: quella d’Oriente e quella d’Occidente, Roma non era più la capitale, l’aveva sostituita Milano di dove l’imperatore Onorio, alla prima minaccia di invasione dei Visigoti, cercò d’urgenza una residenza più sicura. Ravenna in quel tempo era la meglio adatta, perché circondata da paludi e fornita di un porto che la poteva collegare al resto dell’Italia e a Bisanzio. Fu così capitale di questo impero in rovina con Onorio e, subito dopo la sua sconfitta, con Teodorico, re degli Ostrogoti, che si nominò successore. Come una famiglia in fuga e in dissesto si porta dietro i suoi ultimi gioielli, questi due capi di un impero che era stato fastoso e felice, vollero convalidare questa capitale di ripiego con lo sfarzo dei mosaici nei loro palazzi e nei luoghi di culto. Furono questi mosaici gli ultimi dell’impero romano. Mi era facile immaginare come dovevano essere ridotti gli edifici più splendidi in quella Roma disertata, mentre Ravenna assumeva il titolo di nuova urbe, un’urbe di fortuna, avendo, nell’andare verso l’Emilia, visitato una piccola e stupenda villa palladiana che tra i colli Euganei risaltava come un’antica gemma su di un sinuoso petto.
Questa villa esisteva da quattro secoli e forse da solo cento anni non era più abitata dai suoi padroni. Ora l’abitavano i contadini e una strana gentilezza era in loro nel ricevermi e nel farmi visitare quelle sale ridotte a granai o ingombre di umili giacigli, ma compresi che quella gentilezza sorgeva dalla solennità di quell’edificio, col pronao di colonne corinzie, da essi inattesamente abitato. Dovunque era visibile la minacciante rovina; una crepa segnava un terremoto, un sostegno in legno contro un arco indicava dove era caduta una granata durante la recente guerra, consunti dal gelo e dal vento erano i capitelli delle colonne. Dovunque si sentiva l’abbandono degli uomini, e la corrosione del tempo e degli elementi. Così in quei secoli di decadenza dovevano essere ridotti gli edifici di Roma, quelli che oggi vediamo nel loro scheletro di pietre, dopo che erano stati abbandonati dai patrizi per passare nelle mani dei provinciali o degli stranieri. Nulla costoro potevano fare per impedirne la rovina e dovevano avere la stessa timorosa gentilezza di quei contadini che abitano ora la bella villa palladiana. È certo che Roma crollò nei suoi edifici, non per opera dei barbari, ma perché i romani, come i patrizi veneziani, erano giunti al punto di non credere più nella loro bellezza, più non sapevano godere di essa e anche non avevano più la possibilità di abitarli col dispendio di molti servi e costosi restauri.
Teodorico, che era un ostrogoto disceso dalla Pannonia, appena occupata Ravenna, credette in essa come capitale dell’Impero Romano d’Occidente e fu gentile verso di essa costruendo edifici degni di una capitale e volle che i mosaici, già affermati nella loro iridescenza, al tempo di Onorio, nel mausoleo di Galla Placidia, fossero il mezzo abbagliante per completare dovunque la decorazione. Così come, proclamatosi imperatore, volle tra i suoi ministri Cassiodoro e Boezio, perché col loro latino dessero a lui, barbaro, la certezza della maestà romana.
Quest’arte del mosaico, nei tempi migliori dell’impero romano, era usata particolarmente come decorazione dei pavimenti dei palazzi e delle terme, ma in Ravenna invece prosegui nel decorare le pareti in sostituzione della pittura, risorgendo per una ragione climatica. Salsedinose erano le paludi che cingevano tutto attorno questa città e ogni pittura ad affresco non avrebbe potuto resistere a lungo. Per la stessa ragione, al sorgere di Venezia tra le sue lagune, quest’arte verrà a fiorire in essa per adornare la Basilica di San Marco. Si deve quindi a una minaccia della natura se questa nuova forma d’arte ha preso consistenza in Ravenna, in Venezia e in Aquileia conservando intatta una testimonianza pittorica di epoche tanto lontane.
La terra che attraversavo tra Ferrara e Ravenna era tutta suddivisa in bassi e allineati frutteti dove tra le foglie dei rami reclinati fittivano rosee le mele. Ricordavo anni addietro, appena finita la guerra, percorrendo questa stessa strada, che si vedevano quei frutteti fiorire dopo la lunga battaglia, che era stata come un insuperabile inverno.
Fiorivano solo per loro stessi essendo separati dagli uomini dalle mine disseminate in quella terra, ancora intimiditi e dispersi. La pianura padana, aveva subito, come sempre nel lungo corso dei secoli, la sua crudele stagione di guerra. Ma ora si poteva attraversare la siepe, penetrare tra i meli, calpestare l’erba illuminata dagli ultimi fiori dell’estate, giungere ai simmetrici alberelli e toccare quelle frutta rosee e rotonde come guance di bambine. Sollevare le foglie era come sollevare ciocche di capelli e dove la mela era stata coperta il roseo impallidiva fino a inverdire. L’aria nello scirocco che veniva dal mare era come un impasto adesivo sul quale fossero stati commessi innumerevoli tasselli del più vivo splendore, anticipando quello che mi attendeva nei mosaici di Ravenna. E il sole diffondeva nel cielo la sua ultima polvere d’oro. Toccavo il verde cupo delle foglie, toccavo le frutta rosee e pallide, alcune cadevano dal fìtto grappolo, le altre rimanevano tenaci e accanite nel succhiare la linfa del tralcio, come piccoli animali avvinti alle materne mammelle. Tra quelle fronde l’aria sapeva già di mare e nel cielo vedevo piccole nubi ripetere il giuoco delle onde segnalando vicina la mia meta. «Cielo a lana : la pioggia non è lontana». Difatti appena arrivai a Ravenna pioveva leggero sull’erba del praticello di San Vitale. Era rapidamente finita l’illusione di un cielo cosparso della polvere d’oro del sole, ma sapevo che nella visita ai mosaici quella polvere d’oro in un cielo sereno sarebbe riapparsa.
Incominciai dal mausoleo di Galla Placidia, che si presenta di fuori non più alto di una carbonaia, ma come questa ha nel suo interno il fuoco che macera in ardenti carboni la dura legna, così quelle pietre modeste e inumidite dalla pioggia covavano sommersi nella tenebra brucianti splendori. La guida esperta che mi accompagnava indicò, subito dall’ingresso, fregi e figure che diceva mirabili, ma non erano assolutamente visibili alla poca luce che filtrava dalle finestrelle di alabastro. Chiesi se era possibile proiettarvi una luce e allora un custode accese una lampadina tascabile, ma fu come se appena fosse stato acceso un cerino. La mia guida continuava a parlarmi delle meraviglie sempre invisibili, avevo di esse la certezza, qualcosa si intravvedeva di prodigioso abituando lo sguardo, ma mi sentivo come un ragazzo goloso che guardi i dolciumi attraverso la vetrina di un negozio e non possa assolutamente toccarli e prenderli. La guida mi disse e se fosse stata una splendente giornata allora avrei goduto di vedere, dopo le tenebre risultanti al primo entrare, emergere a poco a poco, come apparizione, tutti i decori stupendi nelle colorazioni. Non si era voluta applicare alcuna illuminazione interna appunto perché quei mosaici erano stati composti per affiorare nelle tenebre da loro stessi in virtù della loro luce. Non potevo che rispettare l’ossequiosa intenzione, sono un fiero nemico della nuova luce al neon, ma tutta la mia rappresa aspettativa di vedere, rimasta delusa, mi faceva in quel momento invocare questa luce, almeno portata dentro per un attimo dal di fuori. Si sa ormai quanto pochi siano i giorni del bel sole in Italia, e come sia cancellata quella retorica che faceva della nostra patria la terra del sole, si pensi quanto ancora meno ve ne sia sulla pianura padana e sopra l’acquatica Ravenna. Eccellente è il proposito di lasciare che i mosaici si impongano da loro stessi con la loro luce, ma nè io, nè i moltissimi stranieri, che con lungo viaggio erano venuti per vederli, potevamo aspettare che ritornasse un giorno di pieno sole.
Si passò all’attigua basilica di San Vitale. Anche questo edificio visto di fuori ha un aspetto modesto nella sua struttura di mattoni e riporta presente il clima paludoso e di nebbia che esclude ogni ornamentazione esterna per dare invece con sorpresa la grazia, tutta nell’interno. Subito, appena oltrepassata la porta stupisce l’architettura circolare a otto angoli, come otto petali di un flore, e sugli archi terreni si sovrappongono altri archi di una loggia superiore per finire in un’altissima cupola.
Tutte le epoche sono segnalabili per controsensi: duecento anni addietro in questo edificio, dove si stendono alle pareti i più sfolgoranti mosaici del quinto secolo dopo Cristo, e dove la sua architettura ricorda l’Oriente, quasi che sia stato portato tutto in blocco galleggiando sul mare, dalle rive di Bisanzio, si è pensato di affrescare l’alta cupola alla maniera di Giovanbattista Tiepolo. Questa pittura acrobatica e teatrale sta magnificamente bene nei soffitti e alle pareti dei palazzi e delle ville del Settecento, ma in questa basilica bizantina, risulta un’insopportabile estranea. Per fortuna che per osservare quel dipinto di angeli svolazzanti v’è da prendere un torcicollo e non si resiste assai e anche per fortuna sembra che la salsedine delle paludi faccia già la sua opera dissolvitrice.
Le due grandi scene a mosaico, quella dell’imperatrice Teodora e l’altra dell’imperatore Giustiniano non saziano mai per quanto si guardino. Avviene come davanti a un fuoco d’artificio che non si vorrebbe mai arrivasse alla fine dell’ultima composizione luminosa, all’ultima scintilla. La guida mi disse, mentre col cannocchiale osservavo una alla volta le figure del seguito imperiale, che la testa del vescovo Massimiliano ricordava il secondo autoritratto di Cézanne. La precisione nel riferimento a questo pittore moderno mi fece capire che egli pure occupandosi dell’arte bizantina non mancava di avere una attenta ammirazione per l’arte infausta del nostro secolo. Mi divertii a dirgli ambiguamente che questo imparentamento pittorico era naturale se la famiglia di Cézanne, come si crede, sia stata originaria della vicina Cesena. Ma poco dopo indicandomi altra parte del mosaico volle soggiungere che questa ricordava Rouault e un altro particolare ricordava Braque. Dispiaceva che una guida così dotta non sapesse quanto siano stati furbi e pasticcioni Cezanne e Rouault e Braque, minutamente informati dei mosaici di Ravenna prima di incominciare quelle loro pitture che vi è da dubitare, anche se le avessero fatte a mosaico, se potranno resistere alla micidiale e salsedine del tempo.
Dopo San Vitale si visitò Sant’Apollinare Nuovo che era la chiesa del palazzo imperiale di Teodorico. Subito si è presi dall’incanto delle lunghe schiere spettacolari, da una parte come quelle dei martiri e dall’altra quella delle vergini che fiancheggiano l’alto della basilica, rivolte verso Cristo in trono sopra l’altare. Ritrovai il roseo dei frutteti, il bianco dei fiori, quando li avevo visti a primavera e l’erba della terra e la polvere d’oro del sole sparsa per il cielo. Ma il susseguirsi di così tante figure allineate mi rammentò ancora la verticale simmetria di quelli alberelli da frutto. Svaniva, al tempo di questa creazione la forza dell’autorità imperiale, si sperdeva l’orgoglio associativo nel nome di Roma, esausti erano caduti i vecchi dèi dai loro tabernacoli, ma gli uomini, nella sempre rinnovata ansia di vivere, avevano trovato nel cristianesimo il nuovo suggello con cui improntare di bellezza la vita. E le immagini e i simboli cristiani non potevano andare dissociati dalle immagini e dai simboli della terra che sempre rinverdisce, rifiorisce e fruttifica confortando di speranza.
Rimaneva da visitare Sant’Apollinare in Classe, fuori di Ravenna, nel mezzo della campagna prossima alla pineta. La spaziosità della basilica attesta come oramai dopo cinquecento anni dalla morte di Cristo il culto fosse salito dalle catacombe a un vasto e luminoso ovile. Ai bianchi martiri e alle bianche vergini erano state sostituite due schiere di pecorelle biancheggianti sul verde di un prato, che fanno coro alla figura tutelare del santo pastore. Vanno queste pecorelle tra l’erba fiorita di azzurro, di bianco e di oro, l’oro dei ranuncoli che la primavera riapre con abbondanza nella campagna attorno. Uccelletti, alberi e fiori stavano con le pecorelle nella grande abside attorno a Sant’Apollinare che, dischiuse le braccia, rivelava la certezza nella vita sempre rinascente. E sopra a tutte le immagini baluginava quella stessa polvere d’oro che avevo visto sparsa dal sole sui frutteti, dopo Ferrara.
Verso il tramonto era ritornato il sereno ed ero andato dalla parte del canale che congiunge Ravenna al mare. In un luogo deserto sostava un branco di pecore vigilate da un pastore con un ampio mantello di lana sulle spalle. Le pecore non erano candide come quelle di Sant’Apollinare, ma nella loro lana serbavano la traccia di un ovile povero e oscuro. L’erba tra esse, reclinate con la testa a brucare, ancora umida di pioggia era tenera e fiorita come quella del mosaico e lo sguardo del pastore arido e dilatato coincideva con quello del Santo.
D’improvviso vidi sulla pianura una nave che passava lenta e sembrava non navigasse, non risultando l’acqua, ma venisse tratta sulla terra su rotolanti tronchi d’albero, come le navi antiche. Navigava invece nel canale verso la darsena e quando le fui più vicino mi accorsi con stupore del suo nome greco: «Argonautis». Veniva ancora una nave dall’Oriente come al tempo di Teodorico e con quel nome, come riportasse quegli antichi eroi alla ricerca del Vello d’Oro e l’avrebbero di certo trovato nei mosaici racchiusi nelle vicine basiliche. Quando giunsi lungo la darsena, nel riguardare la città con le sue torri elevate sopra la distesa bassa delle case, mentre le alberature di altre navi si interponevano ad esse, Ravenna mi riapparve come nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo, forte nelle torri e leggera nelle vele.
Giovanni Conmisso
Pubblicato alle pagine 24-29 del numero 6 di “Sguardi sul mondo” del maggio-giugno 1956