La terra di Toscana, quando non sia irrigata dalla Chiana o dall’Arno, sembra abbia due sole stagioni ovvero due aspetti: quello verdeggiante che dal finire dell’inverno va a mezz’estate e quello arido che subito segue fino a tutto l’inverno. Dopo che i maggenghi hanno dato loro foraggio e dopo il taglio del frumento, la terra, che da Siena protende verso l’Amiata o verso mare, trattiene soltanto il verde dei vigneti e dei sparsi boschi di querce e di lecci, mentre il verde pallido degli olivi e quello cupo dei cipressi rimangono inalterati tutto l’anno. Se quindi non si facesse attenzione ai vigneti e ai boschi l’aspetto della piena estate sarebbe molto vicino a quello dell’inverno. Per chi abbia visto soltanto la Lucchesia e il primo tratto della vallata dell’Arno, tutto il resto forma una Toscana inattesa durante la piena estate. E’ arsa e grigia nelle sue colline incastellate di pagliai e di case contadine, con grosse zolle sparse, come se alte muraglie fossero crollate seminando di pietre i pendii. E solo qualche cipresso nereggia a stabilire le distanze nel mareggiare delle valli. Ma a maggio quelle valli, talvolta rotte da forre cineree, tutte trapunte dall’oro delle ginestre gli oliveti muovono docili all’aria l’argento delle loro frondi novelle, biancheggiano minuti dovunque buoi mentre si carica sul rosso carro il fieno tagliato, dopo il verde del frumento delle prime colline quello delle successive sfuma fino a farsi cilestrino nelle più lontane. Nei boschi di quercie e di lecci lasciati a tramontana, come nei tempi della preistoria, volteggia pesante il fagiano, striscia la serpe, scatta e rimbalza la lepre e il cinghiale va ad aguzzare le sue zanne contro il duro tronco degli alberi centenari. Se poi ogni tanto attorno a un convento, a un villaggio sulla cima di un poggio o a una fattoria appare una macchia di cipressi questi non ridestano, come in altre regioni, il senso del cimitero, tanto il loro verde ombreggiato si accorda con l’azzurro leggero e asciutto del cielo in cui si affonda. Non vi è malinconia all’ombra di questi alberi che servono ad accrescere la luminosità del cielo.
Siena è al centro di questa terra e si scorge di lontano da ogni parte vi si giunga come una distesa bandiera sopra il tumultuare di un esercito. La recingono alte mura del tempo della sua signoria indipendente che si aprono alle porte accoglienti nella lievità delle merlature, nel rosa dei mattoni e nel largo e alto spazio dell’ingresso accanto a queste porte, come per dissetare i cavalli di chi sia arrivato da lungo viaggio o che sia per partire, vi sono le antiche fonti dai nomi dolci e chiari. Accanto alla porta Ovile fonte Nuova sta dentro alle mura, mentre fonte Ovile sta di fuori e sembra quasi una sia per gli assediati e l’altra per quelli che assediano. Entrambe costruite di mattoni compatti con grandi arcate gotiche fanno pensare ad architetture spagnole o moresche. E’ anche il prodigio di un’acqua limpida e fresca in una terra di arsura che le accosta, nella suntuosità trasandata della costruzione protettiva, a quelle terre dove l’acqua viene considerata come un dono divino. Ma da quando non vi sono più cavalli da guerra o da viaggio da portarvi ad abbeverare queste fonti sono lasciate in un disgraziato abbandono, ricettacolo di immondizie, di cocci e di barattoli di latta che appaiono ingranditi dalla vetrosità dell’acqua. Sembra che Siena non sia consapevole più del diamantino ornamento delle sue fonti che da queste si congiunge a quella di Pescaia, prossima alla porta di Camollia, e alla famosa fonte Branda, che Dante fa ricordare a un dannato alla sete come la più splendida di Toscana, e si chiude questo diamantino ornamento con la fonte Gaia al centro della città, nella piazza del Palio, proprio come una gemma centrale alle altre che fanno collana. Fonte di Pescaia ha sopra ai volti che coprono le urne, innestata una casa dalle cui finestre pendono miseri panni messi ad asciugare come logorati stendardi e lo sguardo dei miseri ragazzi nutriti da quella fonte risplende sorridente. Attorno vi è un grande spiazzo erboso che ridesta l’inquieto scalpitio dei cavalli di un tempo. Fonte Branda è al fondo di una valletta esterna, in una contrada abitata da macellai e da conciaioli. Le case digradano sulla forma a conchiglia del declivio e all’ultimo piano s’aprono in logge dove sono messe a essicare le pelli delle concerie.
Un odore acre grava nell’aria. Da certe porte si vedono oscuri androni soffocanti d’acido e ne escono uomini nell’abito consunto e nella pelle a cui lagrimano gli occhi viola. Camminano storditi e vanno in cerca di sole fuori dalla strada medioevale scavata nella terra. Ma quasi a vincere la tristezza opprimente inspirata da questi operai delle concie, sopraggiungono spiritati e allegrissimi i garzoni del macello. I loro camiciotti ànno larghe chiazze di sangue, grandi ciuffi svampano dalle teste deformi, ma vigorose e sorridono come per la gioia di avere compiuto uccisioni necessarie. Corrono a lavarsi sotto gli archivolti di fonte Branda dove da secoli l’acqua non si stanca di sgorgare dolce e leggera. Dalla parete della fonte, tutta di mattoni rossi come la terra dei dirupi della valletta circostante, quattro leoni balzano fuori a mezzo busto con la stessa forza germinante delle gemme tra la dura corteccia delle quercie. Il sole è riflesso dal cuoio lucido esposto lungo le pareti delle case sopra le ghirlande delle viti degli orti elevati.
Più giù dalla piscina per i bagni giungono il vociare dei ragazzi e i tonfi dei corpi che precipitano nei salti, più giù ancora entro a un chiostro con bassi archi, tutto dorato di riverberi, al lavatoio saponoso rintronano le ciancie avide delle vecchie con le ragazze. La muraglia di cinta della città scende da un pendio per innalzarsi sull’altro, inesorabile come quella di un carcere e chiude la vista della campagna che ondeggia azzurrina lontano. In questa valletta Caterina Benincasa si temprò alle lagrime e al sangue, attinse la forza al canto e alla persuasione e divenne tanto consapevole di tutti gli elementi della vita da frangersi sovente in svenimenti di ebbrezza, così era sottile la parete di carne che separava la sua anima da quella dell’universo. — Amore! Amore! — gridava la Santa Caterina per queste strade strette come celle e nel delirio del suo amore infinito ella cadeva a terra spezzandosi i denti sulle pietre. Oggi, dalle finestre più alte delle case di dove si vede la campagna lontana altre giovanette cantano anch’esse: — Amore! Amore! — e la loro voce è come un grido di scolte lanciato ad altre perchè lo tramandino più oltre.
Fonte Gaia biancheggia nei suoi marmi cristiani nella grande piazza del Palio. La ideò Jacopo della Quercia; poi si corrose, si disfece e venne ricostruita sui motivi originali nel secolo scorso. Sembra un altare dedicato alla santa acqua o più ancora un grande trono dove l’acqua sgorga e giace regina. Lo schienale di questo trono è tutto istoriato di figure di donne attorno alla Madonna e l’acqua esce dalla bocca di sei lupe accovacciate.
E’ questa la fonte di cui i senesi dimostrano, oggi, di avere maggiore cura, ma per mantenerla monda da ogni rifiuto hanno dovuto recingerla da una cancellata. Non è una fonte per le lavandaie e per i ragazzi resi irrequieti dall’arsura come tutte le altre, ma per un fitto stormo di colombi che tutto il giorno vi sosta per andare a posarsi sulla testa delle lupe fino a sorseggiare impavidi l’acqua appena emerge dalla loro bocca, e quasi nidificherebbero tra le braccia della Madonna tanto è tranquilla questa piazza concava e solare, tranne due soli giorni all’anno: quelli in cui in questa piazza si corre il Palio. Allora vi squillano le trombe, vi rullano i tamburi, la folla che ricolma tutta la piazza, ribollendo da tutte le finestre, fino sopra ai tetti, applaude e impreca e la pista, prima della corsa, è una girandola di colori fruscianti, una selva di bandiere simili a grandi ali di farfalle danzanti, ora rasente la terra, ora alto nell’aria e, durante la corsa, è uno scalpitare di cavalli aizzati dai fantini inferociti seguiti dall’urlo della folla. Forse memori di questi giorni i colombi di fonte Gaia vi vanno soltanto a bere e a risciacquarsi le penne nella grande calura,
Ma in altra parte della citta vi è una fonte che conosco io solo e che da quando la vidi la prima volta, non manco mai di andare a vedere e di dissetarmi a essa ogni volta che ritorno a Siena. Vi si va a essa per vie fonde e strette tra gli antichi palazzi di pietra grigia, che sembrano tagliate nella roccia ed è come un camminare in alta montagna con ventate gelide d’inverno e ombre inamovibili. Strade deserte come se tutti gli uomini siano partiti per una guerra o se la gente stia rinchiusa nelle case sotto l’incubo di una pestilenza Ma come avviene in alta montagna che se ci si ferma v’è certamente un orizzonte lontano da vedere, anche per queste erte strade, subito a una svolta fermandosi per riprendere il respiro ci si accorge di una parete grigia come l’argento delle Dolomiti che quasi si inclina verso chi guarda. Pare non serva a nulla, pare semmai serva a ricevere il riverbero della luce dalla sfera del cielo a tramontana verso la quale è rivolta, per rifletterlo entro alle stanze delle case prospicienti e sottostanti. Nel silenzio e nella fissità della luce questa parete si fa alla sommità leggera come un frastaglio di roccia consumata dalle onde. Qui accanto vi è la fonte che conosco e che non dimenticherò mai. E’ una fontanella comune che dà la sua acqua agli abitanti di questa via che si chiama Franciosa. Quando mi accorsi la prima volta di essa vi attingeva l’acqua una di quelle giovanette che a Siena sembrano avere servito da modelle a Simone Martini per dipingere i suoi angeli estatici e rosei. L’acqua usciva con tale forza che dentro alla secchia non risultava nella sua limpidezza e chiesi alla giovanetta se quell’acqua era torbida. Ella mi rispose ancora più incantevole, come per farmi sentire il tono canoro della sua voce: — Non è torbida, ma è mussante. — Vi era in lei il gusto della precisazione e nella ricchezza di linguaggio dei Senesi ella aveva immediata la parola per ogni differente aspetto. Ma quel «mussante» col suo sapore d’origine francese, assimilato italianissimamente dalle labbra di quella giovanetta, detto in una via che si chiamava: Franciosa, mi risultava come una traccia, sperduta ma resa viva ancora, di lontane invasioni di soldataglie di Francia che forse in quella via vi si erano acquartierate. Come un seme di erbe di altre regioni lasciato cadere da uno stormo di uccelli migratori in una terra diversa e subito a contatto con la nuova terra radica e germoglia incredibile rivivendo con forza, così era di quella parola che da allora non mi è mai più apparsa come un francesismo. Per questo mi è cara e preziosa quella semplice e anonima fonte dove ho appreso una così bella ed esatta parola
Dietro a quell’alta parete grigia vi si dischiude la piazza del Duomo che raccoglie una pace immensa, come se veramente si fosse arrivati sulla vetta di un monte. All’ombra di un palazzo sui basamenti di pietra vecchi mendicanti dormono o sognano colla faccia rivolta alle bianche statue che spiccano contro il cielo su dal fastigio laterale del Duomo. A bande bianche e nere è la facciata e anche il campanile, sonoro pure nella disposizione delle finestrelle sempre più numerose verso la cella delle campane, come un ritmo, divenuto architettura, che salga, cresca e si diffonda. Leoni, aquile e tori escono fuori dagli angoli della facciata con uno scatto di assalto. Un silenzio più fondo di quello dei cimiteri di campagna è in questa piazza ed è difficile uscirne dominati dall’incanto.
Giovanni Comisso
Pubblicato alle pagine 8-12 del numero 114 dell’Illustrazione del Medico del settembre 1952