Il vero volto della Grecia - Le baccanti infernali

Il vero volto della Grecia – Le baccanti infernali

Patrasso, novembre
Si arriva a Patrasso sulla sera. Anche questo è un errore nell’organizzazione di questo traghetto. Difatti se la nave traghetto ha il compito di trasportare automobili, arrivando a Patrasso sull’imbrunire, non è prudente, di avviarsi subito per le vie della Grecia che sono strettissime e battute da autocarri più folli ancora di quelli italiani. Così si è costretti a sostare una notte a Patrasso, città insignificante e tediosa, perdendo tempo utile.

Tanto per fare qualcosa, prendo cognizione della moneta greca. Le monete di metallo sono incongruenti, perché non contenti di avervi messo la testa del re da una parte e dall’altra il suo blasone, l’indicazione del valore risulta invece piccolissima e inavvertibile, con grande difficoltà, da parte del forestiero, di sapersi orientare. Per la carta moneta in Grecia come in tanti altri piccoli stati si pensa di rendere più pregiata la propria moneta facendovi esposizione di pagine di storia. Nel biglietto da mille dracme vi è Alessandro il Grande alla battaglia di Isso, rilevata dal famoso musaico. In quella da cinquecento vi è San Paolo che predica all’areopago e di più anche la testa di Socrate. In quello da cento la battaglia di Navarino, la rada di Salamina e la testa di Temistocle. In quello da cinquanta Pericle che ordina la ricostruzione dell’Acropoli. Di tutta la grande storia greca non è stata fatta una scelta di avvenimenti tra i più decisivi e tra i più memorabili, ma certo per ricordarli tutti sarebbe stato necessario creare altra carta moneta per gli innumerevoli tagli. Però, si sta per dire che è ridicolo, servirsi della carta moneta per fare rievocazioni storiche quando questa carta fugge assai rapidamente dalle mani di chi la possiede e per accorgersi dì quanto vuole illustrare bisogna trovarsi proprio nell’occasione di una sosta noiosa come la mia a Patrasso.

Postcard – View of Patras from the sea (fonte: Wikimedia Commons)

Vado a camminare sotto I portici e in un piccolo negozio vi è una pianta di basilico che al fresco del vespero lo profuma tutto. Il padrone me ne regala un rametto e questa pianta si chiama naturalmente anche in greco: basilico. Il suo profumo è il profumo della Grecia in questa stagione e mi perseguiterà dovunque piacevole e ravvivante. Mi accorgo che tutti sono seduti all’aperto fino a occupare metà della strada. Le sedie sono dappertutto e anche questo motivo della sedia è dominata in Grecia come se una oziosa contemplazione domini i Greci. Sono solide sedie impagliate e in greco si chiamano quasi come nel dialetto veneto: carèghe, certamente i veneziani hanno importato l’uso ed il nome per le loro contemplazioni oziose in Piazza San Marco.

Vi è dovunque una gentilezza antica, nel caffè dove si sosta, ancora si usa portare la tazzina accompagnata da un grande bicchiere di acqua e nell’albergo alia sera, mettono l’acqua da bere sul comodino accanto al letto e alla mattina portano contemporaneamente al risveglio il caffè-come se si fosse nella propria casa.

Corinto – Tempio di Apollo e Acrocorinto (foto di Davide Mauro, Wikimedia Commons)

La strada che va a Corinto costeggia il mare, l’azzurro mare di Grecia e al di là si vedono le alte montagne dell’Attica fino alla mitologica Elicona. Sempre dove vicino alla spiaggia ghiaiosa vi sia qualche albero è una casa, si ritrovano gruppi di sedie in attesa di ospiti ragionanti o contemplativi. E dove vi sia qualche villaggio appaiono provvide trattorie con terrazzo sul mare e grandi quantità di vivande sempre pronte. Appena ci si siede subito quei minuti paggetti che vengono chiamati: micrò, portano gentilmente un bicchiere di acqua. Ci si trova avidi di bere l’acqua di questa terra come per una trasfusione di sangue e di mangiare il pesce di questo mare che si assapora gettando le lische ai neri gabbiani che volteggiano accanto.

Corinto è presto visibile con la sua alta Acropoli, ma si sa che è inutile sostare tra i templi abbattuti dai terremoti. Le case tutte a un piano e certe casupole, simili a ovili, ma abitate, danno sempre il senso immanente di questo flagello assai spesso ripetibile. È facile viaggiare per queste strade ed è sovranamente bello sentirsi così a contatto con questa terra e con questa gente, subito approdati,

Panoramic of the Grave Circle A; Mycenae. Mikines, Argolis, Greece (foto di LBM1948, Wikimedia Commons)

Ci si addentra nel Peloponneso verso Micene. Vicino a Nemea, mi viene voglia di sostare per riposarmi un poco. La macchina deviò per un viottolo e si fermò sotto a una bella ombra di olivi, tremula e argentea. L’aria era secca e leggera e fu dolce il dormire. Dopo qualche tempo il mio compagno di viaggio venne a dirmi che tra quegli olivi aveva trovato lo scheletro di un animale strano. Scesi dalla macchina, e lo scheletro affiorava nitido sulla terra gialla e cretosa. Poteva essere di un grande cane o di un lupo. Biancheggiava il cranio e lo raccolsi. La terra era penetrata nelle orbite e vi formava come due occhi senza pupille. Mancavano i denti e assai allungato poteva anche essere stato di una grande pecora. Avevo già saputo in Toscana che gli olivi sono carnivori, ma galoppando con la fantasia mi piacque pensare fosse il leone di Nemea che Ercole aveva ucciso in quella stessa terra e tenni quel cranio per riportarmelo a casa con quella antica ed immutabile terra dentro alle orbite.

Charles Gleyre – La Danse des bacchantes (fonte: Wikimedia Commons)

Si fece la manovra per uscire dal viottolo e subito dopo sentimmo sulla strada grandi strilli di gioia. Si stava per ripartire quando la macchina venne accerchiata da uno sciame di api, da una decina di ragazze saltellanti, furenti, ridenti, imploranti, ognuna tenendo in mano un melone giallo. Qualcuna gettò il proprio dentro la macchina e subito voleva denaro o sigarette o caramelle o una scatola di biscotti che vedeva attraverso i vetri. Non si sapeva come liberarci. Ci stringevano, ci spingevano, ci accarezzavano: baccanti forsennate uscivano da quella terra. Il mio compagno allibito si privava di tutto pur di accontentarle, diede loro fino i cerini. Erano giovinette nere d’occhi, bianchissime di carnagione, scalze, con un grembiule rosso sul corpo che subito si sentiva nel sospingerle via dalla macchina che quasi graffiavano con le loro unghie e tenevano il capo avvolto da un fazzoletto bianco. Nella ridda querula e strillante e roteante non mi ero accorto che non tutte erano ragazze, ma vi erano anche delle vecchie, forse le loro madri, anch’esse gridanti, imploranti, danzanti come non dovevano essere altrimenti le Menadi di Bacco.

Ancora dopo aver dato a loro tutto quello che avevamo di spicciolo non si riusciva a liberare la macchina e noi dalle loro strette. In quello spingere, stringere e sbracciare come da un attrito benefico ne usciva tutto il profumo dei loro meloni che tenevano fra le mani e come una incensata di basilico, quello dai rametti che tenevano tra il petto e la vestaglia. Era un balletto che si svolgeva con accompagnamento delle loro parole greche che forse dicevano cose dolci come la loro cadenza, era un saluto di questa terra con la sua frutta e le montagne di Nemea e di Micene si rinnovavano nella limpidezza del cielo come i loro antichi miti che ritornavano. Infine ebbi una decisione, presi il cranio di quello che per me ormai era il leone di Nemea che avevo infisso nel mio bastone e come fosse stato un macabro tirso lo puntai contro a quelle infernali baccanti e le feci fuggire per i campi. Così fu liberata la macchina e si proseguì verso Micene.
Giovanni Comlsso

da il Giornale di Sicilia del 28/11/1961

Immagine in evidenza: Maenad at the Garden Wall, circa 1900 (fonte: Wikimedia Commons)

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