Il «Viaggio ad un’isola» che i nostri lettori hanno, speriamolo, ammiralo nell’ultimo numero di questo periodico non è che un passo, e a dire il vero uno dei migliori del “Porto dell’amore” di Giovanni Comisso; un libriccino edito nel 1924 in veste tipografica quasi misera e che è tuttora in vendita, al prezzo di cinque lire presso l’autore in Treviso. Ci è grato additarlo al pubblico, in questa nota.
L’autore del Porto ha da essere un fedele della plaquette, un devoto della poesia intesa come qualcosa di segreto e d’inconfessabile; ed è certo che fin dalla prima e rapida lettura del libretto nessuno può scinderne più la materia, dalla grama sfuggente apparenza destinata alle bancarelle delle piazze ed ai granai delle soffitte. Noi non acquisteremo il Porto in un’altra edizione, se verrà, come non vorremo saperne di una migliore ristampa di quei Canti Orfici che il libriccino del Comisso ricorda un poco. Che Iddio ci perdoni, Comisso non è un pazzo ma nel suo quadernetto è un poco del vento di malattia e dello scampanio di parole che sommuovono il giallo volume stampato a Marradi nel 1914. Si avverta che il ricordo resta lontano e fortuito. Nessun punto di contatto con la storia dell’homo germanicus ha questo racconto di vita fiumana dove si incontrano omosessuali cocainomani, «anime gemelle» uscite dalla galera ed altri esemplari di corrotta umanità. Stanco di respirare tale aria rafferma, nella seconda parte del libretto, fugge per via di mare, ma un innocuo temporale lo getta appiè d’un convento, dov’egli disserta di Dio con alcuni poco soccorrevoli frati. A questo punto notizie di saccheggi e d’incendi giungono dalla città. Comisso, pentito di aver lasciato il «porto dell’amore» nel momento buono risalta in barca e torna indietro. Ma giunto alla città una febbre violenta lo coglie, e la narrazione termina così, in una convalescenza estatica e visionaria.
In questi ed altri quadri che sembrano appena legati insieme, ma risultano sostenuti da ragioni musicali assai poco definibili, s’incontrano tòni d’una franca sensualità analogica e funerea che fanno pensare un poco al Philippe del tempo di Marie Donadieu, e timbri più mordenti che riportano il pensiero a poeti migrabondi e lunatici dell’ultima letteratura americana: i Mac Almon, che so, gli Hemingway. Scrittori tutti coi quali Comisso non ha rapporti di sorta, ma che si ricordano qui a riprova dell’impegno del poeta e suo interesse. In realtà alla radice di questa ispirazione è la giovinezza che l’esperienza sconsacra e incenerisce: qualcosa come la tetraggine che ha la vita iniziale quando si raffredda negli stampi accettati e si determina. Qui è il punto di contatto, del lutto legittimo, di Comisso con l’ultima poesia francese. Come il volumetto postumo di Radiguet, anche il Porto potrebbe intitolarsi: Les joues en feu. Libretto carnale e febbrile, che avvampa e trascolora è appena un libro ed è ancora una malattia. Arte legata alle primavere del sangue, al corso delle stagioni e alle temperie: poco più di un rabesco, il diagramma di una vita rovesciata sulle cose; ma d’una purezza, talvolta, di cristallo.
E questa sarebbe dunque ancora «natura» indifferenziata, informe passione di qua del riposo della forma? Eh via! Vediamo noi pure che in libri come questo, non tutto è trasformato e bruciato nel freddo fuoco dell’espressione definitiva; che scorie vi s’incontrano, e rottami, talora vistosi. Ma non è forse mera apparenza la immediatezza di scritti così fatti che rifiutano uno «stacco» troppo appariscente e calcolato per assecondare docilmente la ispirazione nel suo momento più genuino e irripetibile? Noi pensiamo che libri come il Porto, che rendono quasi tangibile il più aereo sospiro della vita originale e quasi indivisa, appartengono di buon diritto, almeno per certe parti, al dominio dell’arte concretata.
Si resta sorpresi, e un poco ansiosi, delle qualità di scrittore che il Porto rivela; della genuinità espressiva, del suono esatto e leggiero delle sue parole. Giovanni Comisso, che esordisce come pochi, rende difficile il parlare di lui; e noi che lo salutiamo qui, non vorremmo dirgli a nessun patto, annaspando tra formule d’uso, ch’egli è «una buona promessa» della nostra letteratura. No, questo suo Porto è una realtà che non rifiuta, forse, ma neppure reclama prosecuzione d’alcuna sorta; qualche cosa di necessario e di enigmatico come una conchiglia od una pietra.
Eugenio Montale