Heiyo (Corea), giugno
Addio Giappone! Passo cadenzato delle gheishe, ticchettio di zoccoli e varie tinte di kimono. Il treno fila attraverso la campagna, che ha ormai abbandonato i suoi fiori per un verde più forte e per le frutta. Su dai cortili delle case in cima ad alte antenne ondeggiano orifiamme multicolori e lunghi carpioni rossi e neri gonfi di vento, tanti quanti sono i bambini d’ogni famiglia. Questo è il mese dedicato ai bambini e i carpioni vivaci che saltano fuori dalle acque sono il loro simbolo. I neri pini spiccano ora contro al cielo limpido, ora contro al Pacifico dalla lunga onda sulla breve spiaggia. I contadini dai larghi cappelli di paglia zappano nelle risaie coi polpacci impastati di nero fango.
Fu qui, all’ultimo momento, che il Fuji si volle mostrare nella sua estrema altezza. E si potè constatare come nessuna delle innumerevoli opere antiche e moderne che lo celebrano, sia riuscita a dare il senso strabiliante del quasi isolamento della sua vetta dalla terra. Su dalle nubi sviluppate dal sole meridiano attorno al suoi fianchi s’alzava il cono ertissimo bianco di neve e, come il treno se ne distanziava, appariva sempre più elevato nel cielo, dove la parte spoglia di neve resa cilestrina svaniva confusa nella stessa tonalità dell’atmosfera : la vetta bianca rimaneva quindi staccata nell’aria come un frammento di enorme luna vista di giorno. La notte nascose il resto del Giappone, l’imbarco a Simonosechi, la traversata del mare, e nelle prime ore del mattino si sbarcò a Fusan in Corea, davanti a una timida folla vestita di bianco.
Un’immensa risaia
Corea: ampie vallate, larghi fiumi rossastri, risaie, villaggi di fango tra alti pioppi e popolo vestito di bianco. L’estate la illumina d’un cielo purissimo e ventoso.
Fu nei secoli passati il ponte per il transito della civiltà cinese e del buddismo in Giappone. Fattane una prima conquista nel 1592 da parte di Hideyoshi e dei suoi samurai, passò definitivamente al Giappone dopo la guerra con la Cina nel 1894. Fu una guerra facile.
L’Imperatrice cineseTsu-Hi aveva sperperato il denaro destinato alla creazione d’una marina da guerra per costruirsi un nuovo Palazzo d’Estate. La Cina, disarmata o decrepita sotto la patina di lacca che s’era foggiata da venti secoli, non potè resistere alla semplice mossa in avanti di un Giappone che già aveva assorbito i più utili elementi della forza d’occidente.
Ora i Giapponesi hanno fatto della Corea una loro immensa risaia e nello stesso tempo una piazzaforte formidabile per il sostegno dei loro interessi nel nord del continente asiatico.
Inghilterra e America hanno un bel dire che non riconoscono l’esistenza di alcuno speciale interesse giapponese nella Manciuria, ma sta di fatto che il sud di questa regione è positivamente nelle mani militari giapponesi. La rete ferroviaria che dal confine coreano va a Mukden, da Mukden a Dairen, da Mukden a Chanchung è non solo magnificamente gestita dal Giappone, ma altrettanto magnificamente vigilata ai ponti, alle gallerie e nelle stazioni da presidi armati tanto fitti che da soli costituiscono la forza bastante per sostenerne l’occupazione, più che in virtù d’un diritto indiscutibile.
Popolo vestito di bianco, dall’aspetto timido e dolce. Aspetto di razza che ha finito il suo compito. La Corea fu per il passato tributaria della Cina o da questa protetta. Aveva una propria dinastia, una propria pronunzia dei caratteri cinesi, e un proprio stile nell’architettura, nell’arte e nella decorazione.
Se a tutta la Cina piace come colore il blu sia nel vestire sia nei decori, qui è invece il bianco che domina. Fondandosi su queste distinzioni, che si radicano nello spirito, eccitata dal metodo ferreo ed esclusivista della dominazione giapponese e in parte sobillata dai vicini russi, tutta una schiera di studenti coreani emigrati in Manciuria e a Vladivostok cospira per un’indipendenza a fondo comunista. Il Giappone fiuta nell’aria questo spirito di rivolta e vigila poliziescamente nel modo più severo.
Durante il terremoto del ’23, non si sa se ad arte o se per effettiva corrispondenza col vero, diffusa la voce che gli operai coreani residenti a Tokio, approfittando del trambusto, preparavano una sommossa, ne venne fatta una strage minuta e decisiva. E’ di giorni fa che bolscevichi e studenti coreani attaccarono e danneggiarono il Consolato giapponese di Harbin.
Le patetiche coreane
Per la Russia creare impicci alle Potenze capitalistiche è nel suo programma. E sebbene abbia riattivato col Giappone le relazioni diplomatiche e commerciali, facendogli anche larghe concessioni per lo sfruttamento industriale della Siberia Orientale, non sa pertanto desistere dal piacere di minargli la compagine del sentimento nazionale, bolscevizzando gli operai giapponesi trasferiti nel suo territorio e lo mute dei pescatori che da Vladivostok al Camciatca si trovano a battere quelle acque. Keiyo è la capitale: città con belle strade, ma tutte tagliate da vicoli con casupole da villaggio; qua e là movimentate da mercati di verdura e di pollame e da schiere di donne che lavano i panni nei rigagnoli. La donna coreana ha un’espressione immensamente patetica.
Altocinta d’una larga gonna pieghettata che le scende fino a radere la polvere; un giacchettino con maniche lunghe le stringe il petto chiudendosi a destra col nodo d’un nastro rosso o celeste che le sta decorativo come un flore.
I capelli bipartiti dal mezzo del capo si plasmano lisci per annodarsi sulla nuca. Ricorda assai le nostre donne del 1848. Ovale nel volto, tonda la fronte, nero e malinconico lo sguardo. L’uomo porta pantaloni lunghi, stretti alle caviglie, corta giacchetta e una specie di lungo soprabito chiuso al petto pure da un nastro.
In tela, quando non abbia, se contadino, un semplice cencio ravvolto alla maniera di turbante, porta uno strano copricapo di garza nera in forma di piccolo cilindro, o di piccolo fez, simile a quello di certi pupazzetti del Corriere dei Piccoli, e fa anche pensare ai ripari delle vivande dalle mosche. Baffi radi e spioventi e leggera barbetta negli anziani.
Sguardo mansueto: tutta un’espressione di razza dominata, che ha finito il suo ciclo, ed un po’ come resa incantata dagli ampi panorami luminosi della sua terra.
Foreste, cascate, conventi
La città è cinta da colli e da certe mura massicce, fatte costruire con blocchi di granito tolti dalla vicina valle, nel 1300, da Yi, il fondatore della Dinastia coreana. Un grande fiume è vicino,fltto di barche. Pochi sono i monumenti antichi: le porte della città e il padiglione dei banchetti, solo edificio del palazzo reale che abbia resistito all’incendio durante la guerra del ’94. Il padiglione biancheggia di colonne accanto alle chiare acque d’un piccolo lago.
Pare che verso il nord della Corea vi sia un’estesa regione popolata di monti dalle forme più bizzarre dove stanno rintanati conventi buddisti accanto a cascate e a cupe foreste. S’è visto nell’albergo di Heiyo un grande quadro a bianco o nero del pittore giapponese Yokohama Taikan rappresentante appunto questo paesaggio.
E’ un quadro veramente notevole, un’armonia di masse a volte sfumate tra nebbie, e riescì immensamente piacevole nella tristezza del locale che non sapeva né d’oriente, né d’occidente.
Heiyo a sei ore di treno da Keiyo fu antichissima capitale della Corea e primo centro culturale cinese. Sorge in riva al fiume Daido contro ad un vasto orizzonte di pianura spazzata continuamente dal vento che scende dai monti lontani. Fu luogo di battaglia durante la guerra cino-giapponese. Sulle colline appena fuori della città, in riva al Daido, sormontate alle cime da antichi padiglioni, salimmo appunto assieme a una scolaresca giapponese accompagnata da un ufficiale, il quale, come furono in buona posizione, spiegate grandi carte geografiche, cominciò ad illustrare ai giovanetti le fasi della passata battaglia.
Le grosse teste scoperte ascoltavano attente in silenzio la voce roca e decisa dell’ufficiale che ora additava a destra e ora a sinistra. E, finito di parlare ossequiato da un generale inchino, tutti sfilarono dinanzi a lui sorridente con l’ambizioso piacere di vederli già cresciuti e pronti a indossare la divisa.
Giù ai piedi dei colli vi è un grande padiglione con colonne di legno laccato di rosso, già luogo di ritrovo di poeti coreani, e punto caro a Jak London quando si trovò da queste arti come corrispondente dal fronte durante la guerra russo-giapponese.
Il largo fiume si stende tagliato da grandi isolotti. Lungo la riva vi sono barche per diletto, dai viali scende una folla varia di Coreani e di Giapponesi. Cala la sera e si ritorna in città.
Tolta una sola strada con discreti negozi, tutte le altre sono misere straducole con luridi abituri. I bambini giuocano per terra imitando le madri che sulla soglia accanto ad un fornello preparano da mangiare. Altre donne rialzano il giubbetto, scoprono il petto bruno e spostato sul fianco il bambino che reggono sulla schiena gli concedono di avidamente poppare. I vecchi fumano in piccole pipe d’argento. Un’antica porta sormontata da un padiglione col tetto dagli angoli rialzati risalta contro al cielo che s’oscura.
Nella penombra ognuno, vestito di bianco, si muove leggero e dalla grande pianura arriva di scatto e impetuoso il primo vento della notte.
Giovanni Comisso