Dopo le reazioni di Trump al risultato delle elezioni (“ho vinto io”) mi pare di poter dire che il cosiddetto negazionismo stia diventando un habitus mentale e uno stile di vita sempre più diffuso nel mondo. Non credo affatto che si tratti di un fenomeno recente, sono anzi convinto che esso abbia radici psicologiche profonde e antiche. Non solo: credo che in qualche caso la capacità di negare i fatti sia anche sintomo di una certa grandezza d’animo. In altri casi essa è sintomo di stupidità o di volontà di tenersi stretti i nostri piccoli e grandi privilegi, le nostre piccole e grandi certezze. Comunque sia qui associo liberamente e dilettantescamente sul negazionismo in salsa italiana…
Perché sì ho l’impressione che esista in effetti un negazionismo speciale di tipo italiano. Ora a voler datare approssimativamente la nascita del negazionismo italiano (qui genericamente inteso come habitus mentale) direi che dobbiamo risalire alla Controriforma. Voglio dire, prendete il Rinascimento, prendete Machiavelli. Machiavelli è qualcuno che ci invita a considerare i fatti, la realtà, a non negare o edulcorare i suoi aspetti sgradevoli; perché, spiega, “mi è parso piú conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla imaginazione di essa”. Ora, “andare drieto alla verità effettuale della cosa” è sempre una manifestazione di grande coraggio e molti artisti e intellettuali tra ‘400 e ‘500 lo dimostrarono.
Poi però c’è stato il Concilio di Trento, la Controriforma e non solo Machiavelli è diventato un pensatore vietato, ma soprattutto c’è stata quella catastrofe culturale per noi italiani che fu il processo la condanna di Galileo con tutto ciò che ne seguì. Va da sé che non mi metto adesso a ricordare fatti che non conosco neanche tanto bene. Quei mi interessa il negazionismo come attitudine mentale e il ruolo che esso svolse nell’affaire Galileo.
Ebbene molti allora pregarono Galileo di recedere dalle sue oposizioni filo-copernicane, anti-tolomaiche, anti-aristoteliche e lesive della parola biblica, gli chiesero di negare cioè alcune evidenze che avrebbero potuto sconvolgere certi equilibri mentali e sociali. Il primo fu il Cardinale Bellarmino che in modo molto sottile, però sotto sotto minaccioso, pregò Galilei di dire che quello che lui affermava era solo una supposizione, un’ipotesi, quasi una fantasia, e non certo la constatazione di una realtà fattuale: dovrebbe “il signor Galileo prudentemente contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente … Perché il dire che, supposto che la Terra si muova e il Sole stia fermo, si salvano tutte l’apparenze … e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il Sole sia nel centro del mondo … è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante.”
“… dovrebbe il signor Galilei prudentemente contentarsi…” Trovo a suo modo affascinante questa prosa gesuitica (Bellarmino era un gesuita) tra l’insinuante e l’intimidatorio: sarebbe “prudente” che il Galileo dicesse che si tratta solo di una supposizione perché, insomma, se invece si ostina ad affermare che è “proprio vero” che il sole se ne sta fermo immobile e la terra gli gira intorno… bè quella sì sarebbe una “cosa molto pericolosa” per tutti, ma soprattutto per Galilei stesso.
Ora c’è un passo tratto da una lettera di Galileo che mette in chiaro il punto debole dei negazionisti in genere, qualunque sia la loro ideologia, cioè di tutti coloro che vorrebbero che certi fatti pure osservati fossero, appunto, negati, dichiarati non veri, o comunque minimizzati, allontanati dalla nostra vista (pensate tanto per dirne una quanto il “socialismo reale” sia stato negazionista). E il punto debole è che quei fatti cocciutamente continuano a esserci, fregandosene di tutti coloro che invece, non potendo abolirli, pretendono che si dica che non esistono, o che esistono ma debolmente. Rammentare che la realtà di qualunque tipo oltre un certo limite si rifiuta di essere rimossa sembra un’ovvietà, ma non è così.
Ecco il passo: “Il comandar poi a gli stessi professori d’astronomia, che procurino per lor medesimi di cautelarsi contro alle proprie osservazioni e dimostrazioni, come quelle che non possino esser altro che fallacie e sofismi, è un comandargli cosa più che impossibile a farsi; perché non solamente se gli comanda che non vegghino quel che e’ veggono e che non intendino quel che gl’intendono, ma che, cercando, trovino il contrario di quello che gli vien per le mani”.
Eh già, hai voglia di dire ai professori d’astronomia (o ai professori di virologia) che dovrebbero “cautelarsi contro alle proprie osservazioni e dimostrazioni”, e che “cercando trovino il contrario di quello che gli vien per le mani”, o gli cade sotto gli occhi, hai voglia di farlo la realtà cocciutamente non si fa convincere, persiste. In altre parole Galileo sta suggerendoci che niente e nessuno potrà mai fare sì che “ciò che è non sia, e che ciò che non è sia”. Insomma non basta dire, che ne so che “Covid 19 è clinicamente morto” perché il virus lo sia davvero, ci sta che quello persista fastidiosamente a esistere, infischiandosene di quel che certi umani dicono di lui. Ma senza scadere troppo nella polemica spicciola mi piace ricordare come, proprio ispirandosi al caso di Galielo, Pascal ha scritto un aforisma straordinario e definitivo in tal senso, questo: «Toutes les puissances du monde ne peuvent par autorité persuader un point de fait, non plus que le changer; car il n’y a rien qui puisse faire que ce qui est ne soit pas». … nessun potere potrà mai fare che ciò che è non sia! Che pensiero straordinario!
Una verità inoppugnabile certo, ma difficile da accettare. Anzi la più difficile di tutte le imprese. Perché ognuno di noi vorrebbe che la realtà si piegasse ai nostri desideri, ciò che (la bastarda) non fa quasi mai. E però si tratta anche di un pensiero a suo modo consolante, perché insomma pone dei limiti a tutti quei poteri che pretenderebbero che “non intendessimo quel che intendiamo”, che non percepissimo quel che percepiamo. L’unica possibilità che resta è allora quella di indurre le persone e anche noi stessi a dire il contrario di ciò che pure ci sta davanti. In fondo anche Don Chisciotte, simpaticissimo negazionista, dopo essersi rotto il naso ha continuato a dire che no, quelli non erano mulini a vento, ma giganti, e un po’ lo facciamo tutti. Ma c’è comunque un limite in cui ogni negazionismo, fosse anche quello più prepotente, si imbatte. Diamo ancora la parola a Galileo per capirlo: “perché, per rimuover dal mondo questa opinione e dottrina [copernicana] non basta il serrar la bocca ad un solo, sarebbe necessario proibir non solo il libro del Copernico e gli scritti degli altri autori che seguono l’istessa dottrina, ma bisognerebbe interdire tutta la scienza d’astronomia intiera, e più, vietar a gli uomini guardare verso il cielo.”. Che facile non è, perché da sempre gli uomini sono portati a levare lo sguardo verso l’alto, e cioè a essere curiosi.
Ora secondo me da quella volta il rapporto tra noi italiani e “la verità effettuale della cosa” si è molto deteriorato. Nel senso che abbiamo adottato un regime di doppia verità: può bene essere che le cose stiano come sostiene Galilei ma l’importante è che per “salvare tutte le apparenze” si affermi l’opposto, si affermi una verità istituzionale, raccomandata, prescritta dalle autorità. È una situazione mentale complessa in cui si finge (anche a se stessi) che i fatti non siano quelli che si impongono a noi ma altri a noi più confacenti. E che ci sia una relazione con la questione del virus lo dimostra il fatto che il secondo grande autore italiano che sulla scorta di Galileo ha fatto i conti con il negazionismo è stato Manzoni a proposito del contagio della peste.
Ritroviamo infatti nel romanziere la stessa denuncia avanzata da Galileo contro i meccanismi di denegazione della realtà, svolta con lo stesso spirito ironico-illuminista. Il riferimento è ai tentativi fatti dal popolo milanese per negare che la peste fosse… peste: «In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo». Tant’è vero che il protofisico Lodovico Settala, che invece aveva osato diagnosticarla e curarla come tale, viene assalito dalla folla: «Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; […]. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver veduto chiaro, detto ciò che era». Ma naturalmente la peste non smise per questo di propagarsi e si fu costretti a parlare di «febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro». E cioè appunto l’idea del complotto, tale e quale quella che molti coltivano ancora nel caso non riesca loro l’impresa di dire che il Covid non c’è. Anche se oggi gli untori sono cambiati e mutevoli: potrebbero essere i cinesi, le multinazionali, i poteri forti, le case farmaceutiche, Bill Gates, un Dio irritato per i nostri peccati, eccetera. L’idea che il virus sia comunque un fatto imprevisto e selvaggio che si è messo di traverso ma con cui occorre misurarsi se lo si vuole addomesticare, quello riesce difficile da pensare.
Ripeto: non sto dicendo che accettare che “ciò che è è”, sia un’operazione mentale facile. Anzi è la più difficile di tutte e per tutti e viene facile evitarla (scagli la prima pietra chi…). E tuttavia dobbiamo provare a esercitarci in questo difficile esercizio, individualmente e collettivamente. Quando penso all’illuminismo fondamentalmente mi riferisco a questo: alla possibilità di sopportare (non tanto di accettare) la realtà, alla possibilità di farle fronte e farci i conti, limitando i danni che essa con il suo strapotere può infliggerci. Credo che questo virus sia un formidabile test per mettere alla prova la nostra capacità di tollerare che il mondo non si arrende ai nostri desideri e alle nostre fantasie.
Stefano Brugnolo
Stefano Brugnolo è nato nel 1956 e si è laureato nel 1980 a Venezia sotto la direzione di Francesco Orlando, ha insegnato Letterature comparate a Sassari , e dal 2009 è docente di Teoria della letteratura presso l’Università di Pisa. Ha scritto vari libri tra cui: La tradizione dell’umorismo nero (1994) presso Bulzoni e La tentazione dell’Altro. Avventure dell’identità occidentale da Conrad a Coetzee, edito da Carocci nel 2017.
Immagine in evidenza: “Niccolò Machiavelli nello studio”, Stefano Ussi, 1894