Vorrei fosse il tempo degli eroi invisibili. Invece non lo è.
Mentre mi accingo a scrivere questo articolo, leggero, per segnalare qualche libro, leggo sul Corriere questo titolo: Londra, attacca i passanti a coltellate. È il tempo degli assassini invisibili, sommersi, quelli che non ti aspetti, che sono in agguato dappertutto. È il tempo in cui guardi negli occhi un passante, o il tuo vicino di casa, o il tuo sconosciuto compagno di viaggi e ti chiedi se non sia lui l’assassino che non ti aspetti. È il tempo della diffidenza, della paura. E io mi aspetto ancora il tempo degli eroi invisibili, di quelli che ti passano accanto e non lo sai. Ecco perché abbassa lo sguardo, quell’uomo, mi dico, perché non vuole che si sappiano i suoi meriti, per umiltà. Anche se questo è il tempo in cui si pensa: vedi, abbassa gli occhi perché forse è un assassino, è uno di quelli che metterà una bomba.
Mi chiedo se davvero ne abbiamo bisogno, di eroi, o se aveva ragione Brecht, se possiamo davvero farne a meno. Mi viene in mente un libro di Stefano Jossa, Un paese senza eroi, in cui si dice che l’Italia non ha nella sua tradizione un eroe nazionale. Ed è meglio così, dice, censendo le migliaia di volte in cui nei quotidiani viene citata la parola “eroe”, migliaia di volte e tutte a sproposito: sono “eroi omerici” i calciatori dell’Italia di ritorno dall’Europeo; sono “eroi sconosciuti” i protagonisti della docu-fiction Rai Coppie in attesa; sono eroi i “plebei da contrapporre ai pallosi intellettuali”. Davvero abbiamo bisogno di questi eroi a buon mercato? Di questi racconti epici posticci?
Ma io vorrei fosse il tempo degli eroi invisibili, sommersi, di quelli di cui non si parla, di quelli che puoi incontrare al supermercato, o sul pianerottolo di casa, senza conoscerne la storia, il passato. Vorrei aspettarmi, dall’incontro con l’altro, una storia segreta di umanità e perdono. Vorrei incontrare, negli altri, il volto di Miralles con le sue cicatrici, la sua pancia gonfia, la gamba zoppa, i modi spicci. È tempo di rileggere Soldati di Salamina di Javier Cercas. Miralles ha combattuto mille battaglie, ha portato un tricolore non suo il cui significato era semplicemente libertà. Forse ha risparmiato un uomo, un nemico da una morte certa ma inutile. Si è innamorato di una prostituta in un campeggio di serie B, ha ballato un paso doble, ha pianto. Ora vive in un istituto per anziani, a Digione. Lotta con la suora che lo dirige per una sigaretta clandestina. Nessuno sa di lui, nessuno conosce la storia che si porta dentro, è un eroe, è invisibile. Forse è il mio vicino di casa.
Cercas torna a parlarne nell’Impostore, quasi si pente di averlo creato. Forse lo trova retorico, sul confine stretto tra realtà e finzione. È difficile scrivere di eroi positivi, di gesti edificanti, senza retorica. «La trovata più enfaticamente e oscenamente cattolica», chiama Emmanuel Carrère la proposta che lo porterà nel finale del Regno a partecipare a una lavanda dei piedi. È un gesto gratuito e positivo, di un uomo costantemente attratto e respinto dal male, ma anche dall’Assoluto, un uomo benestante, fortunato, che accetta un po’ per sfida, un po’ per curiosità di accostarsi a una ragazza con la sindrome di Down e lavarle i piedi. Nulla di eroico, certo, ma è un modo di guardare l’altro che supera la diffidenza che la paura dissemina tra la gente. Forse anche il mio vicino di casa l’ha fatto.
Piccoli gesti che possono diventare enormi. Come quello di Rudolf di Conforme alla gloria di Demetrio Paolin, che sceglie di denunciare il passato nazista del padre, mostrando a tutti lo scempio di un quadro realizzato in pelle umana che teneva in casa. Forse è una necessità, eppure scegliere di guardare, di non girarsi dall’altra parte, di voler condividere con il suo popolo quella ferita è un gesto a suo modo eroico, ma silenzioso, sommerso, che non fa rumore, è piuttosto un bisogno di fare i conti con se stessi. Anche per questo vorrei conoscerlo, per condividere il suo dolore, per portarne un frammento con lui. Per questo sto per suonare alla porta del mio vicino di casa.
E se mi aprisse Adele, penso, la protagonista del Brevetto del geco di Tiziano Scarpa? Anche lei nasconde un segreto, anche lei crede in un mondo migliore, anche lei lotta per ottenerlo. Eppure la sua idea di mondo migliore è diversa dalla mia. Lei fa parte dei Cristiani Sovversivi. Anche lei immola il suo tempo e la sua vita a un ideale. Forse assomiglia a chi lotta quotidianamente in nome di un dio invisibile. Nella sua prospettiva, Adele è un’eroina. La capisco, eppure di lei ricomincio a diffidare. Ricomincio ad aver paura e prima di bussare alla porta del mio vicino esito. Mi chiedo se l’alternativa sia tra il nichilismo e il male, mi chiedo se davvero si possa credere ancora negli altri, uomini incontrati per caso, incrociati per via, al supermercato, sul pianerottolo di casa. Eppure non crederci, penso, sarebbe il nostro fallimento, il trionfo del male.
Così mi decido e busso.