Giovanni Comisso - Il Minotauro

Il Minotauro

Durante un mio viaggio, ho voluto fermarmi a Zagabria, dove non ero mai stato, per ricercare Emilio, un mio vecchio professore di tedesco conosciuto a Fiume, nel periodo epico della presa di quella città da parte di D’Annunzio. Fino a qualche anno egli mi aveva sempre puntualmente mandato i suoi auguri per le feste, ma poi era subentrato il silenzio.

Non so mai controllare il passaggio del tempo, non mi ero accorto che quaranta anni erano passati dal nostro incontro a Fiume e se lo avessi ritrovato avrebbe dovuto riapparirmi non più il giovane roseo stranamente bianco, quasi esangue al collo e alle mani accuratissime. ma un vecchio esangue del tutto in spaventoso accordo con il cinereo dello sguardo in profonde occhiaie.

Emilio univa, durante le sue lezioni, la parola persuasiva da professore a una particolare mollezza sensuale, così che quella lingua mi risultava fatta per signore sedute in poltrona e per signori ossequiosi, secondo il dovere di casta. pronti ad avere l’onore di baciare la mano alla dama gentile. Egli stesso mi appariva come una giovine signora, quando la impersonava nelle battute di risposta alle domande del nobile signore. Cosi quando assumeva il tono di questi, ossequioso e, sdolcinato, sebbene impettito, appariva come un barone o maresciallo della tavola rotonda, di quelli che coprivano la minaccia dello scandalo con erti baffi simili a una mascherina indispensabile. Egli invece era rasatissimo, anzi non aveva segno di barba e una peluria da pesca appariva se la luce lo radeva sulle guance rosee e bianche.

Fu egli che mi insegnò con le sue labbra molli la pronuncia esatta della acca nella lingua tedesca. Portava tacchi molti alti e ondulava nei fianchi quando si alzava a lezione finita mentre gli dicevo in tedesco con tutto lo sdolcinato ossequio appreso da lui: Ringrazio il mio gentile professore per la pazienza che ha avuto”.

Gabriele D’Annunzio e alcuni legionari a Fiume nel 1919 (Wikimedia Commons)

Un pomeriggio mi disse se volevo partecipare a un festino con altri suoi amici nella città vecchia dove avevano una casa a disposizione. L’aria di quel tempo, a Fiume, era invero folle. Quando arrivai a quella casa trovai il mio professore e altri suoi amici vestiti da donna affacciati alle finestre che scherzavano nel richiamare gli arditi mentre rientravano nella caserma vicina, come se quella casa fosse un postribolo. Fu in quella notte, nell’ottobre del millenovecentodiciannove che scrissi questo “poemetto in prosa“, come allora si usava definire, e lo intitolai: “Minotauro“: “Dimenticate le obiezioni della debole saggezza, che non ci riguardavano più, si entrò nella stanza con il pavimento di legno, deserta di mobili. E ci sorprese per terra una grande bambola ignuda. Il cameriere con gli occhi di vetro, inspirandoci un’immensa pietà ci aperse la porta dello stanzino della tua infanzia e tu entrasti con passo di danza per fingere di metterti a dormire. Frattanto con la mia mano sentii la forma del tuo capo”.

Quel Minotauro era Emilio e l’idea di quell’essere favoloso mi era stata data dalla sua ambiguità e forse di più dai suoi tacchi alti come zoccoli taurini.

Le lezioni di tedesco non proseguirono più regolarmente e finii con l’avere appreso soltanto quelle espressioni dolciastre di saluto che adesso non si usano più.

Volevo rivedere Emilio, avevo il suo ultimo indirizzo e mi illudevo potesse apparirmi come quaranta anni prima. Feci ricercare dal portiere dell’albergo se per caso aveva il telefono. Il suo nome non era nell’elenco. Ero stanco per il lungo viaggio e pensai di mandare qualcuno con un mio biglietto perché venisse all’albergo, ma la strada non era lontana: Nova Ves, poco dopo la cattedrale di Santo Stefano. Una camminata mi avrebbe fatto bene e decisi di andare a piedi.

Mi trovavo da quando avevo passato la frontiera in una condizione strana, non avendo minimamente pensato che subito dopo, la lingua italiana non poteva più correre, quasi fosse diventata una moneta fuori uso. Se mi occorreva qualcosa non sapevo come fare: di slavo sapevo solo poche parole, nessuno sapeva parlare altra lingua dallo slavo, qualcuno sapeva qualche parola di tedesco o di francese, ma non si riesciva a comprenderci chiaramente.

Cattedrale di Zagabria (foto di Koreanovsky, Wikimedia Commons)

Quando arrivai vicino alla cattedrale di Santo Stefano vidi due donnette con cappellino di paglia, allegrette e quasi pareva ironizzassero tra loro nell’attribuirsi la qualifica di comunista l’una all’altra. Mi avvicinai e facendo un inchino, mi tolsi rispettosamente il cappello per chiedere in tedesco con l’ossequiosità insegnatami da Emilio, dove fosse la strada Nova Ves. Se non avessero capito che ero straniero credo si sarebbero spaventate di averle sorprese nel momento in cui scherzavano sull’essere o non essere comuniste. Vollero sapere di quale paese ero e come seppero che ero italiano senza dimostrare alcun entusiasmo mi indicarono la strada prossima in salita.

Mi sembrava di essermi conformato, in quella piazzetta contro allo sfondo della cattedrale gotica e di un torrione antico, con quel saluto dove l’inchino si era accompagnato alla levata, d’altri tempi, del mio cappello di paglia, alle figurette di certe vecchie stampe di città, dove in un angolo vi è sempre un gentiluomo che saluta così una gentildonna incontrata. Mancava un cagnolino al seguito delle donnette e a me la spadina al fianco.

Nova Ves incominciava subito con il numero uno tanto sulla destra che sulla sinistra e avrei dovuto arrivare al numero novanta. Le case erano di quelle solite a uno o due piani come nei villaggi slavi. La strada era sempre in salita, pure dolce, ma per arrivare al numero novanta avrei dovuto fare almeno due chilometri e non vi era indicazione di autobus. Mi sentivo esaurire sebbene il movimento del camminare mi facesse bene, ma avrei voluto bere qualcosa e nessuna di quelle casette appariva fosse una osteria dove bere birra o vino o sidro o ancora meglio un caffè. Mi sorreggeva la tenacia dell’emigrante che torna alla città natale e vuole trovare prima del buio la sua casa con la madre ancora viva. Salivo a grandi passi, quando vidi che il numero novanta era prossimo, ma proprio allora mi accorsi che il numero della casa del mio amico era seguito dalla lettera K e quindi avrei dovuto lasciare passare altre nove case. Le tabelle dei numeri, vecchie e sbiadite, erano difficilmente leggibili con la luce che già declinava. Finalmente arrivai al 90 K sulla sinistra. La porta era aperta e cercai sulla tabella dei nomi degli inquilini se vi era quello di Emilio, ma sembrava fosse stata martellata: schiacciati erano i pulsanti dei campanelli, schiacciate le cornicette dove avrebbero dovuto essere stati incastrati i bigliettini. Martellata quella tabella come al passaggio di una rivolta popolare e quella casa era vecchia di prima di molte guerre.

Al davanzale di una finestra del piano terra una signora mi guardava incuriosita. Dissi in italiano, in francese e in tedesco che cercavo il mio professore che doveva abitare in quella casa. La signora non riescì a capire e fermò un’altra, più distinta, che passava frettolosa. Ripetei la stessa domanda, parlava francese, ma il nome del mio professore le era sconosciuto. Mi indicò un falegname che abitava al numero 90 M che forse doveva saperne qualcosa. Questi mi guardò con sospetto. Ripeté il nome del mio professore ma non lo aveva mai sentito.

Passai sulla destra della strada per cercare l’altro numero 90 K, ma anche qui un giovane che usciva parlandogli in tedesco mi assicurò pure nella stessa lingua che in quella casa non abitava il mio amico. Pensai che la lettera del numero novanta poteva essere un’altra da quella scritta nel mio taccuino, quando mi sentii toccare al braccio, era una vecchietta contadina con il solito fazzoletto colorato stretto alla testa, piena di rughe al volto, scaltra allo sguardo e mi fece capire mi avrebbe accompagnato alle altre case per vedere se vi abitava il professore Emilio. Non mi fossi pensato di regalarle subito cento dinari, quella donnetta mi prese al braccio per andare alle altre case, che erano di diversi piani, con l’intenzione di non mollarmi più. Inutile cercare il nome sulle tabelle al l’ingresso: anche queste erano martellate. Per una decina di case salimmo le scale. Ella mi precedeva con la sua ampia sottana, rivelando alle gambe due paia di calze una ricadente sull’altra. Per lei era come fare la salita di un viottolo delle sue montagne, mentre la mia stanchezza arrivava all’esaurimento così che quando le porte si aprivano ed ella spiegava che io cercavo un professore, mi trovavo senza fiato per meglio spiegare in qualche lingua. Nessuno aveva sentito mai parlare del mio professore Emilio, né al 90 A, né al 90 B, né al 90, eccetera.

Veniva la sera e volevo rientrare all’albergo per riposarmi. Il mio amico Emilio pallido come era già quaranta anni prima doveva essere oramai morto dissanguato. Ma nel ritornare sulla strada vidi un ragazzo giocare a palla con un altro ed entrambi avevano le gambe scoperte fino alle cosce bianche, ceree, quasi da albino come la carnagione di Emilio. Pensai fosse una grana tipica dei corpi di quella terra con molte foreste, con molti pascoli, con molto latte di cui quella gente si nutriva. Emilio non doveva essere morto dissanguato, egli aveva semplicemente la stessa carne linfatica di quei ragazzi slavi, anzi slavati e non pensavo di fare un gioco di parole. AI ritorno la strada in discesa mi faceva quasi correre, ma non mi ero dato per vinto e sempre speravo di ritrovare Emilio.

George Frederic Watts – The Minotaur (Wikimedia Commons) – part.

Mi accorsi di una piccola chiesa e a un prete che vi rientrava in fretta chiesi ancora di lui, se lo conosceva, se era vivo o se era morto. Parlai in francese sicuro mi potesse comprendere, ma ne sapeva poco. Allora parlai in latino: “Ego quaero vos si cognoscere magistrum meum…” ma si finiva nella solita confusione delle lingue. Egli aveva fretta per le sue funzioni e io non mi sentivo più capace di declinare verbi e parole latine. così non seppi nulla di Emilio.

Mi sentivo stordire, invero camminavo come in un labirinto verso angoli chiusi e invalicabili al centro dei quali potevo forse trovare il Minotauro. Sulla piazza del duomo, in disparte, vi era il terrazzino di un caffè. Un signore anziano leggeva il giornale, gli occhiali da sole gli coprivano il viso, ma la testa reclinata pareva quella di Emilio quando leggeva il quaderno delle mie lezioni. In fretta feci i pochi gradini della terrazza sicuro fosse lui, ma abbassato il giornale, non lo era. Per dispetto non presi neanche qualcosa per sostenere il mio esaurimento, ma più giù nella grande piazza vi era un altro caffè e mi sedei al primo tavolino libero. Guardai attorno, era uno di quei caffè che piacevano a lui, a Fiume, di quei grandi caffè con tanti camerieri, orchestrina e cameriere che girano con il vassoio delle paste, di quelle paste cariche di crema, di zabaglione, di panna. sulle quali egli modellava le labbra golose, come una ventosa. Osservavo a uno a uno gli uomini seduti e quelli che arrivavano. Anche se avesse avuto settant’anni il suo passo non avrebbe dovuto essere mutato, ma nessuno gli somigliava. Ordinai una cioccolata e alcuni cornetti bianchi, di una farina cosi bianca come la sua carnagione e fu la sua sola apparizione.

Oltrepassai la piazza affollatissima, tutti erano tesi nello sguardo e mi guardavano come una bestia rara, forse perché ero il solo che portavo il cappello e corrispondevo con uno sguardo ugualmente teso per vedere se tra quella gente vi era Emilio. D’improvviso una scala scendeva sotterranea, pensavo dovesse portarmi al centro del labirinto cretese e che il Minotauro mi attendesse la sotto. La scala scendeva, non vi erano corridoi chiusi e obbliganti a ritornare, tutti portavano diritti alla grande sala bianca degli orinatoi. Verso l’angolo ve ne era uno di libero e a destra, proprio nell’angolo un signore anziano stava fermo e preoccupato di nascondersi al volto e al sesso tenendo rialzato con la mano libera l’impermeabile. Cercavo di scoprire il suo profilo, ma era impossibile. Egli continuava a sostare al suo posto come fosse un prostatico e contraeva le spalle come se un dolore lo perforasse. Poteva essere Emilio, il Minotauro di Fiume poteva essere finito così nella sua vecchiaia, guardai i tacchi delle sue scarpe erano alti come zoccoli. Guardai a sinistra. altri stavano avidi e sospettosi e guardavano verso di me quasi imploranti: vittime del Minotauro, ma egli insisteva sempre al suo posto e non rivolgeva lo sguardo. Era lui, doveva essere lui e non potevo muovermi dal mio posto fino a quando non si fosse rivoltato. L’attesa fu lunga, infine parve essersi liberato dall’angoscia, intesi un suo sospiro e lo vidi nel volto per un attimo, mentre si rivolgeva verso la scala: la sua bocca era tagliente, segnata da corti e ispidi baffi, che non avrebbero potuto essere di Emilio.

Giovanni Comisso

da Il Mondo del 25/06/1963.

Immagine in evidenza: Manchester, UK – Il Minotauro (foto di oleg jasenovic, Wikimedia Commons))

Share