Intervista a Leonardo Piccione
Terra del ghiaccio e del fuoco, l’Islanda è ciò che comunemente si usa definire «un altro pianeta», lontano dalle convenzioni e dalle abitudini correnti. Sottoposta a un continuo processo di rigenerazione che ne modella il suolo, l’isola ci appare come «un esperimento», «un tentativo di convivenza forzata» tra uomini e vulcani. Proprio a questi ultimi Leonardo Piccione dedica il suo esordio letterario, una raccolta di quarantasette storie che mostrano, in realtà, come tra fuoco e individui ci sia poi un rapporto strettissimo, uno di quei tratti distintivi che costituiscono il carattere di un luogo.
Sfuggendo a una rigida categorizzazione di genere, Il libro dei vulcani d’Islanda riesce a tenere insieme nozioni geologiche e gusto per il racconto. Quanto peso ha avuto, nella scelta di tale impostazione, il suo particolare percorso di vita – la decisione, assunta a un certo momento, di «affiancare ai numeri le parole»?
Io ho completato un dottorato in Scienze statistiche, dunque per tanti anni della mia vita ho avuto a che fare con i numeri. A un tratto mi sono reso conto di non poter dare, con i soli strumenti scientifici, una risposta soddisfacente a coloro che mi chiedevano come mai continuassi a tornare in Islanda, a fare e disfare valigie per raggiungere l’isola. Il linguaggio dei numeri – che pure continuo ad amare – non era sufficiente a esprimere una “giustificazione” adeguata, perché esso circoscrive, mette un punto, e raccontare l’Islanda in tal modo è impossibile. Qui non esiste la dimensione del definitivo, della staticità. C’era bisogno, pertanto, di un linguaggio diverso, capace di dar conto delle sfumature e, in un certo senso, anche dell’incertezza. Ecco perché ho ritenuto che, al di là dei numeri, potessero venirmi in soccorso le parole. È chiaro poi che il mio percorso di ricercatore è tornato utile, specialmente nella lettura delle fonti e degli articoli scientifici, poiché mi ha aiutato a rendere in forma narrativa elementi e nozioni complesse. L’uso delle parole, poi mi ha sempre affascinato e ho ritenuto che, davanti a un’operazione del genere, fosse arrivato il momento di cimentarmi con esse.
Ho scoperto così che i metodi della letteratura e della scienza, apparentemente incompatibili, si completano in realtà a vicenda e servono per potenziare il messaggio e il racconto di un luogo.
La volontà di narrare l’Islanda senza ambizioni di natura scientifica sembra spingerla, nella costruzione delle sue storie, verso un desiderio di esplorazione che investe il terreno dell’aneddotica, della cronaca, delle tradizioni popolari. Come le è venuto in mente di costruire una raccolta così variegata?
Anche a questa domanda risponderei partendo dalla mia storia. La cosa che mi affascina della statistica è che cerca di spiegare il tutto attraverso dei campioni. Questo esercizio permette di mettere a fuoco una questione importante: noi non saremo mai in grado di conoscere tutto, ma selezionando opportunamente alcuni elementi è possibile avere un’idea generale delle caratteristiche di ciò che vogliamo comprendere. Ciò che ho fatto con i vulcani d’Islanda corrisponde un po’ a questo; un territorio così variegato non può essere raccontato nella sua interezza, ma attraverso alcune storie e personaggi è possibile rendere un’idea il più possibile realistica dell’essenza del luogo.
Ho scelto allora di raccontare di fatti e persone significative: l’artista, lo scienziato, il guardiano dell’eruzione, tutte tessere necessarie alla costruzione di un mosaico complessivo che renda conto anche della corrispondenza tra uomini e luogo.
Nell’ultima storia, quella dedicata al vulcano Grìmsvöt, lei scrive che «l’Islanda deve essere il tentativo di Dio di mettere a tacere i fervori del presente sotto una coperta di eternità». È anche per questo che ha scelto di non adottare la struttura del diario di viaggio, così vincolato all’utilizzo di date che scandiscono lo scorrere del tempo?
Non ho scritto un diario perché non avevo voglia di narrare un viaggio né di scrivere di me in modo diretto. Molti hanno parlato di sé in rapporto all’Islanda: William Morris, W. H. Auden, Giorgio Manganelli… Io non ero nessuno – non sono nessuno – per cui ho pensato che fosse più opportuno mettermi da parte e raccontare le storie di altri. Queste sono appunto svincolate dal tempo, perché alcune sono contemporanee, altre relative all’epoca della colonizzazione, altre ancora risalgono all’Ottocento. Inoltre non sono in ordine cronologico e quest’aspetto mi piace, l’ho fortemente voluto perché rispecchia un’altra caratteristica dell’Islanda che io ho colto negli anni. Qui il tempo si sovrappone, non c’è una linea temporale chiara, tutto è sempre sospeso. È una peculiarità con cui bisogna fare i conti, pertanto non ha senso parlare di tempo in termini netti, scanditi.
Potremmo anzi dire che quello islandese è un tempo analogico; inutile indicare un prima e un dopo da separare nettamente, ciò che esiste è unicamente il presente.
Il suo intenso lavoro di documentazione è testimoniato da un originale apparato bibliografico ribattezzato significativamente “camera magmatica”. Qui, accanto alle fonti consultate, lei menziona rapporti umani segnanti, fondamentali per lo sviluppo della sua ricerca. È grazie a incontri di questo tipo che ha imparato ad amare l’Islanda e a saperla raccontare con altrettanta passione?
La “camera magmatica” è una sezione del libro a cui tengo molto poiché, essendo una sorta di bibliografia, rappresenta un ponte tra la letteratura e il mio passato scientifico. Mi fa molto piacere che lei abbia notato l’importanza da me attribuita ai rapporti umani. Questi sono stati fondamentali anzitutto per un discorso di carattere pratico, giacché diverse persone mi hanno aiutato con la lingua; io non parlo l’islandese (sto imparando, ma è una lingua molto difficile) perciò necessitavo fortemente di un aiuto per la comprensione di articoli e testi. C’è poi un altro aspetto, che è quello che io indico con il concetto di «permanenza».
Non avevo voglia di scrivere un libro di viaggio, quello che mi interessava era stare sul posto e parlare del posto: andare alla piscina pubblica, alla stazione di servizio, alla panetteria, parlare e incontrare le persone per cercare di capire da loro l’essenza dello stare in un posto del genere.
Nelle storie del libro questi incontri sono finiti in una nota, in un inciso, in un aggettivo, nel tratto di un personaggio. Quando si scrive le cose si mischiano e vengono fuori in modo non sempre razionale, ma l’immersione totale nell’essenza del luogo mi ha permesso di definire i contorni di quanto volevo raccontare.
Gli uomini, abitanti orgogliosi di questa terra che lei definisce «esperimento naturale e esistenziale», affollano le pagine del volume sino a divenire coprotagonisti dei vulcani. Sembra che li accomuni una capacità di costruire e mantenere, giacché le tradizioni contribuiscono a tenere viva l’identità di un’isola in perenne “ribollio” e costante rigenerazione. È così?
Effettivamente non è un caso che il sottotitolo del libro sia Storie di uomini, fuoco e caducità. Nel testo ci sono i vulcani ma le donne e gli uomini rappresentano una presenza costante e ineliminabile. L’unicità di quest’isola consiste soprattutto nella convivenza di uomini ed elementi ostili. Una terra apparentemente inospitale è, in realtà, abitata da più di mille anni. A me interessava questo come punto di partenza. Gli uomini hanno arricchito la particolarità di tale terra attraverso le loro storie. Nei miei racconti, infatti, sono soprattutto i personaggi ad esprimersi e ad agire. Alcuni vulcani eruttano, scatenano la narrazione, ma spesso si trovano solo sullo sfondo, mentre è l’uomo a far succedere le cose.
Io ho tracciato un parallelo tra gli uomini e i vulcani; questi ultimi rompono gli equilibri geologici per crearne altri, e nelle storie degli individui accade più o meno la stessa cosa.
Come ricordato in appendice, il concetto del ritorno a casa è molto caro agli islandesi. Lei, dopo quest’esordio che l’ha portata a essere il primo autore italiano pubblicato da Iperborea, ha in programma altre incursioni letterarie in Islanda – un nuovo, avventuroso, ritorno alla sua terra d’elezione?
Non credo di aver detto tutto dell’Islanda perché ci sono ancora tante storie, tanti argomenti da trattare. Tuttavia, in questo momento, mi piacerebbe soprattutto raccontare – magari in una forma diversa – l’inverno e i suoi suoni. Sto cercando di immaginare una sorta di racconto audio o, semplicemente, una raccolta di suoni. Vorrei raccontare cosa succede in un posto come Húsavík (il paese dove mi trovo) in cui apparentemente non accade nulla, giacché d’inverno i turisti partono, i lavoratori stagionali vanno via e d’inverno resta poco da vedere e molto da sentire (penso al rumore del vento, al suono dell’oceano). Sto pensando a una formula per rendere tutto questo, una forma di racconto altra che non corrisponderà, per forza di cose, a una scrittura come quella del Libro dei vulcani. Non vorrei però, specializzarmi solo nella narrazione dell’Islanda. La specializzazione estrema – come è nel mondo accademico – costringe quasi a rivolgersi a pochi, a raccontare agli esperti del settore le proprie idee e i propri risultati. Io, al contrario, avrei voglia di parlare di tante cose: di astronomia, di pittura, di musica, ed è per questo che nel libro ho toccate tutti questi aspetti. D’altra parte, però, non vorrei limitarmi solo a scrivere d’Islanda, poiché tale scelta mi consegnerebbe a una nicchia di cui ora non sento di far parte. Certo, il lungo termine in Islanda non esiste, per cui mai dire mai…
Recensione di Ginevra Amadio a Il libro dei vulcani d’Islanda
Quarantasette storie per altrettanti vulcani. Potrebbero essere molte di più, ma va bene così. Il libro dei vulcani d’Islanda (Iperborea) è un volume di «permanenza» e lo stanziamento, si sa, implica sempre una predilezione per certi aspetti, paradigmi geografici e affettivi di un senso del luogo che si fa collettore di valori, rilevatore d’identità.
Esistono angoli di mondo non definibili, solamente, come categorie geometrico-spaziali. In essi è racchiuso lo spirito del luogo, la proiezione intensa e in-dicibile delle aspirazioni dell’uomo che vi testimonia il suo passaggio, la sua percezione emotiva. Yi-Fu Tuan li chiama fields of cares e non è un caso che l’Islanda appaia come il posto in cui tutto può essere misurato materialmente – «le ore toccate, i giorni annusati», i campi di lava osservati sino a dipingerli come Jóhannes Kjarval ha imparato a fare.
Il coinvolgimento dei sensi è un fattore ineliminabile nell’approccio all’isola: solo chi riesce a uscire dall’ottica convenzionale può sperare di afferrarne l’essenza e l’unicità. Quest’operazione di affezione e trasporto è testimoniata, da Leonardo Piccione, con la misurata parola dell’uomo di scienza, da sempre abituato ad affiancare le emozioni ai numeri per dar loro – fin dove è possibile – un’organizzazione logica, comprensibile. Dopo il dottorato in Scienze statistiche la decisione di raccontare la sua terra d’elezione è apparsa un desiderio naturale e spontaneo, quasi un’esigenza per omaggiare il luogo in cui geologia e arte si fondono rendendo insufficiente – se non inadeguato – ogni tentativo di definizione rigido e castrante. «L’Islanda è un esperimento», uno scenario di instabilità costante esemplificato e reso tale da quelle manifestazioni «dell’inquietudine del creato» che sono i vulcani. Assumendo questi come osservatorio privilegiato è possibile abbozzare la fisionomia dell’isola, tracciare una mappa per circoscrivere il territorio e renderlo più accessibile, meno, apparentemente, invalicabile. Dei quarantasette sistemi di cui l’autore parla vengono indicati, in apertura di storia, i rischi e le caratteristiche fisiche, il significato del nome e i segni particolari. Un’elaborazione grafica delle mappe altimetriche accompagna ogni scheda, ma è soprattutto il significato metaforico che la realtà vulcano assume a rappresentare il valore portante dell’opera e dell’operato di Piccione.
Così come la lava spinge per venir fuori, ridefinendo – in un processo di distruzione continua – l’assetto e la foggia dell’isola, così gli uomini, ospiti e padroni di un territorio impervio, costruiscono, attraverso i racconti, una nuova porzione di Storia, un altro importante tassello della tradizione di un popolo. Piccione insiste su questa «convivenza forzata», ne sottolinea l’apparente inconciliabilità per poi rovesciarla in parallelismo e corrispondenza d’intenti. È per tale ragione che il testo unisce dati quantificabili a suggestioni leggendarie, descrizioni oggettive a narrazioni letterarie. L’osmosi continua e inafferrabile tra individui e natura costituisce, in tal senso, una via d’accesso al carattere intrinseco del luogo, la sola e fondamentale chiave d’interpretazione della «malattia islandese» che investe il visitatore paziente, immune dall’ansia dei social e dalle manie d’ostentazione.
Le storie raccolte nel libro narrano infatti di un’umanità complessa, legata all’Islanda per vicende che esulano, in ogni caso, dal turismo di massa.
C’è Hannes Halldórsson, il portiere-regista della nazionale di calcio e Bobby Fischer, scacchista di fama mondiale divenuto cittadino islandese nel 2005. Ancora, vi è la storia di Óda che accompagna i turisti dentro il camino di un vulcano e quella di Helga Haralsdóttir, protagonista involontaria della famosa eruzione del 2010 dell’Eyjafjallajökull, causa di disagio e ritardi per i potenti della terra. Ed è proprio l’imprevedibilità a costituire uno dei fattori insopprimibili del pianeta-Islanda; essa «educa l’uomo al cambio di programma», lo pone dinnanzi ai suoi limiti, alla propria finitezza, come l’islandese di Leopardi, come il vichingo che scoprì l’America e che non a caso, paradossalmente, assomiglia al Cristoforo Colombo tratteggiato dal poeta nella sua sedicesima operetta morale. Soltanto facendo i conti con l’assoluta caducità è possibile cogliere quel senso del luogo che dalla narrazione esce fuori in maniera partecipata.
L’hic et nunc dell’Islanda non può essere fermato in uno scatto su Instagram né tanto meno in una guida da consultare frettolosamente, tra un’escursione programmata e una sosta in centro a Reykjavik. «Se hai certe ferite addosso l’Islanda non fa proprio nulla per curarle. Se possibile le apre di più. Le fa marcire». È questo il sentimento profondo che l’isola suscita, il significato – intenso e lacerante – che l’opera di Leonardo Piccione porta con sé.
Ginevra Amadio