PRELIMINARI
La frase di un personaggio di Goethe: ‘Un essere bello, puro, nobile, altamente morale, senza la virile forza naturale che fa l’eroe, soccombe sotto un peso che non può né portare né respingere’ (in La missione teatrale, 1777, VI, 8, poi Il noviziato di Wilhelm Meister,1795-96), determina per quasi 250 anni fraintendimenti e catastrofi interpretative. T.S. Eliot noava che Goethe faceva di Amleto una sorta di Werther. Valida per e giustificata dai suoi magnifici soliloqui e monologhi, meditazioni, commenti e sprazzi di pensiero, sanzionata dall’apoteosi finale, quasi sacrale, che be fa un martire, definizione oscura però altri lati di Amleto, evidenti nel testo. C’è anche un lato molto meno nobile, che va spesso perduto, principalmente per tre motivi.
- Della tragedia abbiamo un testo abnorme di quasi 4,000 fra versi e prosa (sul perché e sui dettagli non mi soffermo qui), il doppio di un dramma normale — due ore, come specifica Shakespeare stesso — che è comunemente tagliato per le messinscena: a seconda dei tagli, che privilegiano quanto sopra, emerge spesso un Amleto migliore di quanto non sia.
- Amleto è personaggio altolocato, un Principe del sangue, figlio di Re, primo nella possibile successione al trono e tale proclamato in I, ii, 109, e come tale altezzosamente si comporta con i comprimari che come tale lo trattano dall’inizio alla fine. Non dà confidenza a nessuno, gli unici a dargli del tu sono i Re e la madre — con quel che ne consegue
- Dopo la rivelazione dello spettro del padre che lo impegna alla vendetta, Amleto prende una decisione spesso trascurata o sminuita sulla scena: ‘visto che d’ora in poi magari | mi metterò a fare il mentecatto’ – ovvero lo scemo, il tonto, il pazzoide (‘As I perchance hereafter shall think meet / To put an antic disposition on’, I, v, 169-70).
Per T.S. Eliot è ‘less than madness and more than feigned’, non proprio pazzia, ma non tanto finta. La sua forma è quella tipica dell’amens, del demente, di chi ha o finge di aver perso il senno: secondo il celebre racconto di Ofelia, Amleto le compare dinanzi col farsetto slacciato e gli occhi stralunati. Ma antics sono ancor oggi propriamente le bizze, i capricci, le sceneggiate che fanno i bambini e quasi tutti i personaggi televisivi: Amleto se ne concede parcchie nel corso della tragedia, ed è un errore e una disgtorsione non tenerne conto. Per illustrare il mio assunto, farò parlare il più possibile Shakespeare.
I – AMLETO SU SE STESSO
III, i [subito dopo il monologo ‘Essere o non essere’, a Ofelia]
Am. Vattene in convento. Perché vorresti procreare dei peccatori? Io stesso sono passabilmente onesto, ma potrei accusarmi di tali bassezze, che sarebbe meglio mia madre non mi avesse messo al mondo. Sono molto orgoglioso, vendicativo, ambizioso, con più offese a disposizione che pensieri in cui formularle, immaginazione per plasmarle e tempo per attuarle. Perché gente come me dovrebbe strisciare fra cielo e terra? Siamo tutti furfanti matricolati, non credere a nessuno.
III, ii (Monologhetto)
Am. E’ giusto l’ora della notte in cui escono
le streghe, i cimiteri si spalancano,
e l’inferno stesso erutta il suo contagio
in questo mondo. Adesso potrei bere
sangue caldo e compier nefandezze
da far raccapricciare il nuovo giorno.
Esce
V, i
Am. [a Laerte] Toglimi le dita dalla strozza.
Sebbene non sia di sangue caldo e avventato,
ho in me qualcosa di pericoloso, da cui
guardati se hai cervello.
Con Ofelia, qui e nelle scene che seguono, è chiaro il suo accanimento persecutorio, la volontà di ferire e annientare; sono scene di violenza ed efferatezza psicologica, sevizie verbali e anche fisiche, a base quasi sempre sessuale. Amleto si sente da lei tradito, la crede in combutta col padre e con il Re – e in parte ha ragione, perché lei ne è dipendente e succube, indifesa com’è: ma si tratta di bella e buona violenza verbale e sessuale quasi insopportabile, che oggi porterebbe dritto a anni di carcere. Con tutta la sua ‘nobiltà’, Amleto spinge Ofelia alla follia e poi ad una morte ‘fangosa’ nel ruscello (che passa con qualche possibile giustificazione per ‘suicidio’). Il convento (nunnery) a cui ripetutamente la manda era al tempo anche inteso come ‘casino’, bordello, data la polemica anticattolica sulla licenziosità. vera o presunta che fosse, delle monache (vedi quella di Monza).
II – CON OFELIA
III, i
Am. Vattene in convento, addio. O se per forza vuoi sposarti, sposa uno sciocco; perché i saggi sanno bene come li abbruttite. Va’ in convento, va’ – e di corsa. Addio.
Of. Potenze celesti, fatelo tornare in sé.
Am. Ho sentito, sì, quanto basta, dei vostri belletti. Dio vi ha dato una faccia, e voi ve ne fate un’altra. Ballate, ancheggiate, parlate col birignao, trovate altri nomi per le creature di Dio e spacciate la vostra licenza per candore. Vattene, non ne voglio più sapere, mi ha reso pazzo. Dico che non ci saranno altri matrimoni. Quelli che già sono sposati – tutti tranne uno – vivranno; gli altri resteranno come sono. In convento, va’.
Esce
Of. O che nobile mente stravolta! [ o’erthrown!] (v. 152)
III, ii, 106 ss. [Scena della recita]
Reg. Vieni qui, caro Amleto, siediti accanto a me.
Am. No, buona madre, qui c’è lega che attrae di più. [Rivolto a Ofelia]
Pol. [A parte al Re] Ah, avete sentito?
Am. [Si sdraia ai piedi di Ofelia] Signora, posso giacervi in grembo?
Of. No, mio signore.
Am. Voglio dire, posarvi il capo.
Of. Sì, mio signore.
Am. Pensate che intendessi sollazzi rustici? [country matters]
Of. Non penso un bel niente, signore.
Am. Una bella pensata, sta fra le gambe delle ragazze.
Of. Che cosa, mio signore?
Am. Il bel niente. [Nothing]
Of. Siete spiritoso, mio signore.
Am. Chi, io?
Of. Sì, mio signore.
Am. O Dio, l’unico re dei mattacchioni!
……………
Of. Siete bravissimo a far da coro, signore.
Am. Farei io da paroliere fra voi e il vostro amante, se vedessi le marionette far l’amore.
Of. Siete pungente, signore, pungente.
Am. Vi costerebbe un bel gemito [groaning] smussare la mia punta.
Of. Sempre meglio, e peggio.
Am. Così voi bistrattate i mariti. –
Per capire bene — cosa che non permettono le traduzioni autarchiche di dilettanti, attori o registi: country matters,data l’omofonia della prima sillaba con cunt /’kʌnt/ = cunnus latino, le con francese, vagina, nel periodo valeva tout court ‘cose di sesso’. Onde la mia scelta. Alternative sarebbero ‘godurie, baldorie’, ‘piaceri bassi’; ovvero, per infilarci la parola, ‘trafficare da villico’, ‘gratificazioni campestri’; attenuano invece l’urto della frase ‘far festa’, ‘intimità rusticane’, ‘scampagnate intime’, e simili (Le Goff mostra come nel Medioevo – ma arriva fino a Shakespeare – il rustico e il contadino erano visti come bestie immonde, e le ‘nozze alla contadina’ erano quelle ‘senza parroco’): drastico sarebbe ‘fare sesso’ – però troppo diretto e contemporaneo. ‘Sconcezze’, ‘porcherie’ escludono il senso di piacere presente nel testo. Né funzionano corrispettivi in italiano come ‘mone-llerie’, ‘fregna-cce’, ‘figate’, che hanno assunto significati diversi (esistono interi saggi sulle due parole).
L’infilata di allusioni licenziose, lubriche — si diceva una volta — continua con Nothing, altro modo gergale di indicare la vagina, che anticipa il concetto oggi aborrito e rigettato di Freud, la ‘mancanza’ e l’ ‘invidia del pene’. Come se non bastasse, subito dopo Amleto si fa ancora più rozzo e specifico: con un gemito di piacere Ofelia gli potrebbe take off my edge: edge è il filo della lama, la punta, ma anche ciò che è teso, tirato (to be on edge). Rileggendo lo scambio, violento e sprezzante, si resta senza fiato, e ce ne vuole per riprendersi. Ha ragione Ofelia nella sua semplicità: c’è cattiveria in Amleto (v. 143), che con lei si sbizzarrisce in questo tipo di allusioni, sottintesi e innuendoes, mentre con la madre poco dopo (III, iv) esplode in forme dirette di rancore, schifo e fobia per la sua sessualità ‘senile’ secondo una tipica applicazione del ‘ritorno del rimosso’ freudiano
III – CON LA MADRE
III, iv
Am. Ah, ma vivere nel sudore e nel lezzo
d’un letto insozzato, marcio di corruzione, [enseamed]
far le moine e l’amore in un porcile…
……………
Reg. Che devo fare?
Am. Non quello, no, che vi dico di fare: [sarcastico, voglio sperare]
lasciare che il Re tronfio vi tenti ancora
al letto, vi strizzi voglioso la guancia,
vi chiami sua topina, e per una paio
di baci schifosi o una stropicciata sul collo
con le sue lerce dita vi faccia spiattellare
tutto, che proprio matto non sono, ma
matto ad arte. Sarebbe bene farglielo
sapere…
Qui si scatena un ovvio complesso di Edipo che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro e riempito chiavette di computer: sempre con accentuata fobia per la sessualità femminile (giovanile o senile che sia) e violenze verbali quasi inaudite. La misoginia è all’apice: in entrambi i casi si potrebbe usare la parola ‘ignobile’: Goethe/ Meister avevano mai visto o letto queste scene, o le dimenticava?
IV – CON POLONIO
III, iv
Am. E a te, disgraziato, temerario, stupido [appena ucciso]
ficcanaso, addio. Ti ho preso per uno
che vale più di te. Accetta la tua sorte,
vedi cosa costa fare l’impiccione.
…………. [Segue scena con la madre]
E per questo signore [alla fine]
mi pento: ma così ha voluto il cielo,
punire me con lui e lui con me,
……………
Con costui devo far fagotto. Strascinerò
il carcame nella stanza accanto. Madre, [guts: Montale usa ‘trippaglia’]
buonanotte davvero. Questo consigliere
ora così immoto, così muto e così serio,
era in vita uno sciocco cialtrone ciarliero.
Su, messere, andiamo a farla finita con voi.
Esce trascinando Polonio
IV, i
Re. Allora, Amleto, dov’è Polonio?
Am. A cena. [E’ messo sotto scorta]
Re. A cena? Dove?
Am. Non dove mangia, ma dov’è mangiato. Una certa congrega di vermi politici è alla prese con lui. Il verme è l’unico imperatore nella dieta: noi ingrassiamo tutte le altre creature per ingrassarci, e ingrassiamo noi stessi per i vermi. Un Re grasso e un pezzente magro non sono altro che un menu variato – due pietanze sullo stesso tavolo. Finisce lì.
Con Polonio – che sarà anche sciocco e petulante e colluso col Re, di cui è una sorta di primo consigliere, ma meriterebbe, almeno come tutti i morti, un po’ di rispetto – è un tripudio di ostentato disprezzo. La sua uccisione è ‘casuale’, ma c’è del gusto in questa ‘esecuzione vicaria’, per interposta persona – Amleto crede di infilzare il Re. E’ un comportamento che si definisce callous, insensibile; non mostra alcun rimorso per la sua morte, l’attribuisce alla volontà del cielo, e si considera punito quanto lui…; anzi, c’è quasi compiacimento e malcelata soddisfazione: gli sta bene. Persino del suo cadavere fa oggetto di scherno e risa; sarà anche aapplicazione della sua ‘antic disposition’, la mezza pazzia che finge per ingannare i nemici, ma la sostanza non cambia: l’incuranza e lo sfoggio di disprezzo sono intollerabili.
V – SU ROSENCRANTZ E GUILDENSTERN
Am.[a Orazio] Ecco il mandato. [per far ‘giustiziare’ Amleto]
Leggilo con tuo comodo. Ma adesso
vuoi sapere come mi sono comportato?
Or. Ve ne prego.
Am. Avvolto com’ero in canagliate –
ancor prima del prologo, già il cervello
si era messo in moto – sedetti, escogitai
un altro mandato, lo misi in bella mano
………….
Vuoi sapere cosa scrissi?
Or. Certo, mio signore.
Am. Un caloroso appello da parte del Re,
a Inghilterra in quanto suo fido tributario,
acciocché come una palma fra loro cresca
l’affetto, e sempre il suo serto di grano
la pace porti, e neanche una virgoletta
si frapponga alla loro amicizia, e molti altri
‘acciocché’ di tal fatta ed egual peso,
di procedere, appena letto e recepito
il contenuto, senza ulteriori discussioni
del più e del meno, ad una immediata
messa a morte dei latori, senza dar tempo [Rosencranz e Guilderstern]
di confessarsi. […]
Or. Così i due ci restano.
Am. Ah, smaniavano per avere quell’incarico!
Non li ho io sulla coscienza, il loro guaio
nasce dal mettersi in mezzo. E’ pericoloso
per le nature vili infilarsi fra gli affondi
e le rabbiose stoccate di possenti avversari.
Che i due vengano così allegramente mandati a morte (anche qui addossando loro responsabilità e colpa), e che non gli si conceda nemmeno il tempo di confessarsi prima dell’esecuzione, è in linea con quanto Amleto vuol riservare al Re (III, iii, 89-95) – ucciderne non solo il corpo, ma anche l’anima — sembra un po’ troppo per i malcapitati, pur collusi col potere usurpatore e dispotico: non basta evidentemente la morte corporale. Tale atteggiamento imbarazzava il religioso Ottocento, e dovrebbe far molto dubitare della sua nobiltà d’animo. L’unica piccola razionalizzazione può essere che esser stato privato degli ultimi sacramenti è l’aggravante che il padre lamenta gli fosse stata riservata con l’omicidio a freddo (I, v, 76-79, III, iii, 80-84) – ma la vendetta non può essere così ragionata e radicale per due poveretti, le cui colpe sono incommensurabili con un’eternità di pene.
VI – CON IL RE
III, iii
Am. Adesso potrei farlo, to’,
ora che sta pregando, ed ecco, lo farò… [Snuda la spada]
E così va in paradiso; e questa sarebbe
la mia vendetta. Va vagliato bene.
Un farabutto uccide mio padre, e
per questo io, il figlio unico, mando
quello stesso furfante in paradiso.
Ma è dargli retribuzione e buonuscita,
non vendetta. Lui ha sorpreso mio padre
impreparato, satollo di cibo, nel fiore
e nel rigoglio di tutti i suoi peccati,
come in pieno maggio; e quale sia
il suo rendiconto, lo sa solo il cielo.
Ma per quanto ne possiamo saper noi,
dev’essere oneroso. E così io mi vendico
cogliendolo mentre si purifica l’anima,
quando è bell’e pronto e preparato
per il suo trapasso? No. Via la spada,
e riservati un momento più sinistro:
quand’è ubriaco fradicio, o nell’ira,
o nei piaceri incestuosi del suo letto,
mentre bestemmia al gioco, o in qualche atto
che non abbia nessun sentore di salvezza,
per mandarlo a gambe all’aria a scalciare
con le calcagna al cielo, e la sua anima
sia dannata e nera come l’inferno,
dove andrà. –
I motivi per cui Amleto risparmia il Re mentre sta pregando non sono naturalmente da bravo cristiano o particolarmente nobili, e ribadiscono il suo lato crudele e cinico: vuole dannarlo per l’eternità, per sempre, il suo nemico (che pur legittimamente deve e vuole uccidere, cfr. V ii, 63-70), e in quell’epoca non era una metafora, bensì sofferta realtà in cui si credeva fermamente: per l’eternità, per tutti i secoli dei secoli, worlds without end. Il Settecento, dall’indignato Dottor Johnson in avanti, trovava intollerabile tale motivazione, e rifiutava di mettere in scena questo passo; arzigogolando, l’Ottocento lo giustificava come un ulteriore sintomo o un’altra scusa accampata per procrastinare e non passare all’azione. Ha ragione Nemi D’Agostino, che la definisce una scena orribile in cui ‘Amleto è davvero portatore di negatività e di morte. Egli risparmia Claudio per ucciderlo due volte, nel corpo e nell’anima’. Le esegesi psicanalitiche basate sulla natura distorta della nevrosi trovano comprensibile la motivazione – ma si tratta pur sempre di mandare un uomo, seppur colpevole, alla dannazione eterna. (Ciò tanto più vale in quanto, per premunirsi sulla responsabilità relativa allo stato di peccato della vittima designata, nella casistica medievale si postula che i sicari si portino dietro un prete che provveda ad assolva le vittime dai loro peccati.)
Dobbiamo insomma arrenderci all’idea che Amleto è amareggiato, vendicativo e violento nel profondo. Sarà nobile di rango, nei suoi sentimenti profondi e nei suoi soliloqui e meditazioni – questo sì – ma non certo nobile d’animo nei comportamenti con le persone a lui vicine – compreso il presunto amico del cuore, Orazio. A conteggiare le vittime dirette e indirette di Amleto, si arriva a una dozzina di morti: un po’ troppi per un’ ‘anima bella’ e per i lettori e spettatori che vi si specchiano, immedesimandosi con lui: uno capace di andare all’arrembaggio di una nave di pirati, d’uccidere senza scomporsi o comunque a mente fredda, di tirar magistralmente di scherma (fra lui e Laerte c’è dichiarata rivalità fra chi è miglior spadaccino) e allenarsi per questo, di muovere con accortezza in una corte piena di trabocchetti e pericoli, infilzare in un duello all’ultimo sangue un re usurpatore, e non so se basta. Chi sa farlo, e non si ritrae di fronte a quanto abbiamo vista finora, si accomodi.
ENVOI – Sonetto 30
Quando alle assise dei bei pensieri muti
convoco rimembranze del passato, di tante
cose agognate sospiro la mancanza
e con nuovo duolo piango il tempo perduto.
Allora inondo l’occhio non uso a lacrimare
per cari amici nella notte eterna della morte,
soffro pene d’amore da lungo cancellate
e lo sperpero di visioni ormai svanite.
Allora mi affliggo per crucci superati
e tristemente da un dolore all’altro
rifaccio il conto dei tormenti già patiti
che pago come non fossero saldati.
Ma se per un momento penso a te, dolcezza,
recupero le perdite, il dolore cessa.
Testo rielaborato da una Presentazione all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti il 27 novembre 2021. © Sergio Perosa.
Sergio Perosa è un linguista, critico letterario e traduttore italiano. Dal 2003 è professore emerito all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Buona parte della sua storia di studioso e docente universitario, critico, giornalista-scrittore e uomo pubblico, è narrata nella suo testo “Veneto, Stati Uniti e le rotte del mondo” (2016).
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