Il Diario di Giovanni Comisso: "Non capisco perché abbiano ignorato il mio sodalizio con De Pisis"

Il Diario di Giovanni Comisso: Non capisco perché abbiano ignorato il “Mio sodalizio con De Pisis”

Con la nuova monografia sulla pittura di De Pisis, curata da Guido Ballo, si prosegue nell’equivoco. Dopo la morte del pittore non è più tempo di fare sfilare in parata la sua produzione, incominciando dai quadretti da dilettante del 1916. Di tali riesumazioni ne abbiamo viste abbastanza, fino dall’epoca della grande mostra di Ferrara e si è voluto insistere anche alla Biennale; eppure avevo segnalato che De Pisis mi aveva detto, nell’ultimo incontro, che desiderava vi figurassero «i migliori quadri dei suoi migliori periodi».

Filippo De Pisis

Non so perché a ogni riesumazione del periodo infantile della pittura di De Pisis si debba tirare fuori quel «Paesaggio con conchiglie» della collezione Anfuso, che solo può adattarsi a una barchetta da gelataio. Potrà anche piacere al dadaismo nostalgico di Raimondi, ma non aggiunge un pelo alla gloria di De Pisis. Ora è tempo di selezionare e quando si sarà selezionato, non solo il falso dal vero, ma il mediocre dall’ottimo, allora sarà possibile il definitivo giudizio su De Pisis pittore.

Si sa come avviene la confusione: i critici d’oggi, certuni anche molto bravi, non sono coraggiosi. Per paura di essere considerati vecchie beghine dalla massa scoordinata e peritura dei pittorelli stravaganti, devono dimostrare di interessarsi seriamente all’astrattismo, al surrealismo, ecc., ecc. Di fronte al fatto importante della pittura di De Pisis, non possono non sentire la tentazione di parlarne, ma per non compromettersi nei precedenti impegni assunti cogli stravaganti, vengono a tirare fuori quei quadri imperfetti, brutti e stonati che De Pisis fece nei suoi primi anni.

Quella brutta pittura sperimentale che fece durante il periodo ferrarese e romano dovrebbe servire ai critici di oggi per confermare che anche una macchia d’inchiostro può essere un capolavoro, se esce dalla stessa mano che dipinse «L’atleta seduto». Ma vorrei avessero visto la vergogna e il risentimento che De Pisis dimostrò una sera in casa di Olga Signorelli rivedendo un suo quadro dell’epoca romana. Se a Ferrara e a Roma si era messo a dipingere, lo faceva perché era smanioso di fare, di strafare, pure di segnalarsi, pure si parlasse di lui. In quell’epoca egli scriveva anche tragedie, e dire che quella pittura di allora sia degna di essergli attribuita, sarebbe come si volesse mettere in scena quelle ridicole sue tragedie, come opere di un grande. Così le sue prose di allora, che pure tanto collimano col suo buon gusto pittorico, latente ancora, se si pubblicassero adesso non potrebbero convincere che egli sia stato anche un grande scrittore. Per essere riescito grande, nuovo, dominante nella pittura al declinare della sua vita, non è necessario che egli fosse stato un fanciullo prodigio. Certo, De Pisis sconvolge, con la sua vita e col suo risultato artistico, tutte le previsioni normali sulla formazione di un artista.

Su 68 tavole della monografia di Ballo se ne salvano appena dodici come degne di testimoniare il valore di De Pisis, cioè lo stesso numero contro le 56 pubblicate nella monografia curata da Marco Valsecchi, edita da Selecta. Questa contiene dunque opere più scelte, ma ripete sempre il solito pernicioso motivo della pittura iniziale a Ferrara e a Roma, quando si dovrebbe appena incominciare dall’epoca di Parigi.

Il testo di Valsecchi è piacevole alla lettura, perché intesse i giudizi sempre a una narrativa episodica e di ricordi. La monografia compilata da Ballo sembra fatta solo per illustrare alcune collezioni private milanesi. Alla maniera dei meridionali egli chiama questo suo scritto saggio, anche se fa riserve di modestia, ma per un saggio la bibliografia doveva essere maggiore. Non capisco, perché abbia voluto ignorare il «Mio sodalizio con De Pisis». Anche questa pubblicazione convalida sempre di più la necessità che su De Pisis venga fatta finalmente una monografia severamente ristretta ai suoi capolavori, da cui possa sorgere netto e lampante il giudizio imperituro sulla sua opera. Per capolavori di De Pisis si deve intendere quelle opere che nessuno riescirà a falsificare, opere di punta, isolate ed estreme che non rientrino nelle sue serie abituali. Solo così si potrà dare durevolezza alla fama della sua pittura, altrimenti portando a galla le opere mediocri, non si fa altro che il giuoco dei falsari e del tempo crudele, che sarebbe pronto ad annientare una gloria così bella, dopo che già ne ha annientate altre.
Giovanni Comisso

da Il Giorno del 06/03/1957
Immagine in evidenza: Filippo De Pisis – Autoritratto, 1932

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