Sciangai, marzo
Un polveroso boulevard congiunge la Concessione di Francia alla vecchia città cinese: il Boulevard des Deux Republiques. Generosità ampia dei Francesi nel voler innalzare la repubblica di questo Paese al livello della propria. La città un tempo era chiusa da mura, ora al loro posto sorgono caseggiati informi uno addosso all’altro. Per le strade non più circola alcun genere di veicoli; e appena ci s’addentra subito si riceve una impressione piacevole che non bene si determina. Negozi, botteghe di artigiani, gente che va e viene. Ci avevano parlato di questo quartiere come d’un luogo impossibile, dove la sporcizia s’intreccia alle malattie infettive e ai banditi pronti a puntare le rivoltelle in intimazioni gagliarde. Al contrario si ebbe buona ventura. Non incontri con mendicanti lebbrosi, non fetori esalanti dalle case sovraccariche d’inquilini; appena alcuni individui bighellonanti, dalla faccia affamata, uno dei quali tentò maldestramente di rubare la scatola degli occhiali ad una signora che mi precedeva. La penombra domina la strada dove i passi e le voci ritrovano la sonorità delle calli veneziane. Soprastanti ai negozi vi sono verdi verande tutte chiuse da invetriate, ad un punto congiunte da una passerella, sopra alla strada, pure tutta chiusa da invetriate.
Gioie, fauna e flora
Negozi di gioielleria, di argenteria, di avori intarsiati; e sui banchi rasenti alla strada, come per godere meglio della luce, stanno ragazzi curvi ed intenti ad incidere tavolette per il magiong; altri a scolpire statuette di legno o zoccoli per vasi di porcellana.
Frequenti sono i Cinesi vestiti di seta e con papalina sormontata dal bottoncino di ambra. Grassocci o magrissimi hanno quasi un’aria da religiosi.
In genere questa razza manca di spalle quadre, di mani forti, di piedi che possano lasciare l’impronta sulla terra, e il loro sguardo è sempre tra il timido e lo svagato.
Succede una stradina con basse casipole tutta invasa da venditori di uccelli. Centinaia di gabbie appese e cinguettio discorde. Canarini, merli, usignoli, pappagalli; e nei retrobottega: fagiani, ibis, aironi e anitre, meravigliosamente variati di colori.
Ad ogni bottega vi sono garzoni che preparano il becchime ed altri che mondano bozzoli selvatici, della cui crisalide gli uccelli vanno ghiotti; e frammisti ai pennuti, in altre gabbie, vi sono topolini bianchi, conigli, e bei cani d’ogni razza, che mi si garantisce essere stati rubati alle ricche famiglie di Sciangai.
Ecco pechinesi marrone e bianchi, spinoni e cani lupo, tutti che guaiscono o latrano disperatamente, quasi sperassero rivedere in noi i loro padroni perduti. Subito dopo s’apre un’altra calle, dove non si vendono che fiori.
Uomini e donne passano, comperano e se ne vanno con il loro ramo fiorito da mettere davanti all’altare degli avi o da ornare un angolo della loro casa. Orchidee selvagge, rami di piccole magnolie in flore, rami di pesco ed altri di fiori gialli.
Se le cronache non segnalassero quasi ogni giorno rapimenti tentati e consuntati a scopo di ricatto, assalti di banditi e se non si sapesse come nel fondo dell’anima cinese, dal facchino agli alti papaveri, non vi sia che una inestinguibile smania di mettersi in tasca il denaro degli altri, verrebbe da ritenere questo popolo, a vederlo cosi, quale il più dolce e il più puro del mondo.
La luce filtra attraverso ad una nebbia sollevata e inavvertibile, pare una luce da eclisse, e il blu dei vestiti di seta risalta vivo e gradito.
Vicino c’è una scuola, dalle finestre aperte esce un canto d’insieme di alunni. Non è canto, ma semplice lettura, che risulta modulata come un canto. Ogni parola cinese ha quattro differenti pronunce basate alcune su note tronche e altre su prolungate. Al variare del tono, varia il significato e varia la scrittura. E’ tutta questione di orecchio e di memoria.
Ogni carattere pur dando in certo qual modo, sia graficamente che nella composizione, l’idea della cosa che rappresenta, non ne indica il suono.
Alla nostra parola mare corrisponde la parola hai in tono alto, che scritta consta di un segno radicale che significa acqua, di un altro, madre e di un terzo,uomo, formando cosi questo concetto: acqua madre dell’uomo.
Scuole, templi e case da tè
Ciascuno di questi segni graficamente ha poi una corrispondenza con la forma della cosa che rappresenta. Hai, in toni diversi ha altri significati e altre scritture. Il Cinese quindi quando parla canta per dover farsi intendere, ma quando vuole cantare miagola e nei suoi teatri, tolti la bella fusione dei colori degli abiti, l’attraente grottesco delle truccature e in certi momenti la gustosa cadenza della mimica, musica e canto sono povere cose. Come musica il pezzo forte è quello che è stato preso da Puccini per l’ingresso di Turandot, che qui si sente suonare dai militari, nei funerali, nei cabaret e agli ingressi del negozi come richiamo per la folla. Dolore e fatica ispirano meglio: una nenia funebre intesa in una casa si disperdeva cupa e sommessa in modo toccante; e alcuni operai che manovravano un pesante argano s’accompagnavano nel lavoro con un canto, prima a botta e risposta tra due e poi entravano tutti in corosu d’una cadenza animosa o quasi felice. In un altro punto della città v’è un tempio buddista.
Le porte sono aperte, i fedeli entrano, pregano e bruciano bastoncini di sandalo. Accanto alla porta maggiore vi sono alcune statue di Budda, in legno dipinto di rosso cupo e di verde: gravi e beate.Una popolana insegna alla sua bambinetta a chinarsi a mani giunte davanti a un Budda panciuto e sorridente.
Ai piedi dell’altare un’altra donna, in cappa di seta, acceso un mazzetto di bastoncini di sandalo, lo agita ripetutamente ad ogni inchino.
Fuori del tempio v’è una piazzetta con due leoni in pietra ed un grande incensiere di bronzo al centro e tutto attorno bancherelle di venditori come ad una sagra. Per calli silenziose si arriva ad un bacino abbastanza grande, d’acqua bruna e stagnante.
I tetti appuntiti del palazzo mandarinale si specchiano perfettamente. Tetti con decori di statuine, di code di draghi e con pinnacoli di porcellana a più colori. Al centro del bacino vi è una casa da tè con tetti arriciatici alle estremità, collegata alle rive da due passerelle a zig-zag in pietra, dove si vedono donnine ferme come incantate a guardare le acque. Si sorpassa il canale su d’un breve ponte arcuato tutto in pietra, dai bassi parapetti e facili gradini. Il ricordo di altri ponti quasi uguali, lontano da noi, e il piacere per la sorpresa si fondono assieme.
Pittori, soldati e cantastorie
Si cammina con estro più libero quasi avessimo, ritrovato anche il salmastro dell’aria lagunare. Il cielo in penombra diffonde la luce blandamente come negli studi dei pittori. Attorno al bacino le rive sono squadrate, in bella pietra, popolate di banchetti d’incisori di timbri e di lettori della mano dalla fronte gialliccia e rugosa.
Le botteghe attorno, nelle case leggere, hanno solo invetriate per pareti e divisioni interne di carta intelaiata. Ecco un vecchio pittore seduto ad una tavola intento al suo lavoro con maneggevoli pennelli. Alberi e montagne si compongono al tocco elegante, poi sosta e fuma. Arso nel volto, gli brillano due minuti occhi da topo.
Un ragazzo riproduce a colpi di bulino una statua di dea, altri preparano dentiere, altri riproducono in grande da piccole fotografie testine di donna: la solita frangia spiovente sulla fronte, sguardo sorridente nel vuoto, nasino all’insù e guance e bocca plasmate come un piccolo grugno avido ed intontito. Non sono splendori, ma sono semplici ed ingenue. Un soldato cinese di guardia più fiero nelle armi che nell’aspetto ci saluta sorridendo come volesse dire: «Fidatevi di me, con una buona mancia sono pronto a difendervi.» Un cantastorie tiene attorno a sé uno sciame di fanciulli attentissimi, che poi si urtano gli uni e gli altri per guardare certe vedute di antiche, battaglie nelle scatole con le lenti. I giornali del mattino incollati su delle tavole ad uso del pubblico con gli ultimi avvenimenti della guerra civile non attraggono il naso che di scarsi lettori.
Luce blanda, non polvere, non fragori, traffico lento estasiato: questo preannunciato luogo d’orrore e di minaccia finisce col piacere e incantare.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera il 27 aprile 1930