Corleone, Gennaio.
Sono qui con gli ingegneri che stanno costruendo le strade affluenti al primo borgo che sorgerà in questa desolata zona di latifondi. Sono ingegneri siciliani, uomini nuovi, giovani, di una giovinezza pensosa, elementi di quella borghesia siciliana in formazione e tanto necessaria in questa regione dove permane lo squilibrio tra popolo e gradi proprietari, senza raccordo d’una categoria intermedia professionista, commerciante, piccolo-proprietaria.
Dove sorgerà il borgo Schirò
Il nuovo piano rivoluzionario che darà alla loro regione il benessere, che rialzerà le condizioni dei contadini, che porterà i grandi proprietari ad una maggiore consapevolezza delle proprie terre unitamente ad un maggiore reddito, li anima con fede. Il loro capo ha loro chiesto la massima dedizione, un prolungamento straordinario delle ore d’ufficio ed essi hanno corrisposto con l’entusiasmo dei picciotti al seguito di Garibaldi, siamo sul poggio dove sorgerà il borgo Schirò, una mandria di bestiame se ne va verso il pascolo aizzata con grida acute da un giovane pastore con le cosce coperte da pelle di capra, il suo volto severo, le sue labbra dure che si chiudono pesanti sembrano marchiati dal paesaggio squallido dei monti.
Un ingegnere dà le consegne all’altro, tenendo spiegata una carta topografica: “La strada girerà attorno al poggio poi deve filare in direzione di quel monte, spetta a te decidere se passerà a destra o a sinistra della vetta, farai un sopraluogo. Da quest’altra parte invece usufruirai della trazzera fino a quella masseria e poi proseguire fino ad allacciarsi alla nazionale“.
Sono parole semplici, dette con la più grande naturalezza di questo mondo, sebbene ognuna di esse abbia il potere e il valore di un germe fecondo. L’altro ascolta con l’occhio fermo dietro gli occhiali e mi sembra di intendere il battito impetuoso del suo cuore. Sono della stessa regione, sono amici, sono compagni di lavoro. “Siamo intesi Turiddu?“. “Sta bene, Ciccio, domattina mi metto all’opera“.
Da Palermo avevano caricato sulla macchina due socchi di picchetti per segnare il percorso, e ora mi rendo pienamente conto della necessità: sul posto non vi è neanche un albero, non un albero da abbattere e da tramutare in picchetti. Era venuta anche la moglie di Turiddu e credevo per fare una gita; no, Turiddu rimarrà sul posto per molto tempo e sua moglie sarà con lui, si sistemeranno in una casa cantoniera, per questo avevano caricato anche alcuni succhi di carbonella. La casa cantoniera è in una vasta solitudine, sul volto di questa donna non vi è ombra di preoccupazione. Mentre noi si andava a vedere la zona dei lavori essa aveva già sistemati i lettini da campo e presa in consegna la cucina.
Ricordo di altri tecnici
È scesa la sera, dopo un tramonto pieno di rosse nubi verso il Mediterraneo. Dai latifondi è incominciata la discesa dei contadini che si sono attardati ad arare, i muli sfilano sulla strada, i piccoli cani abbaiano, i contadini tengono il capo ravvolto nel loro scialle. In una stanza della casa che serve da studio sono stati accesi i petromax, sono sopraggiunti due altri ingegneri e un geometra, arrivano da una strada già in costruzione, giovani e siciliani essi pure sono dominati dalla stessa fede. Danno il benvenuto al nuovo arrivato e a sua moglie, cercano di rincuorare la signora, ma questa non dimostra di averne bisogno.
“Alla sera c’è un po’ di tristezza, ma si è stanchi e si va a dormire come i polli, appena finito di cenare“, uno dice. La signora sorride lievemente, uno di quei sorrisi pesanti abituali a questa gente severa. L’altro ingegnere venuto da Palermo avverte il geometra che sua moglie lo ha incaricato di raccomandargli di scrivere più spesso.
Il geometra alza le spalle: “Cominciasse lei a scrivere più spesso che non ha niente da fare, qui non c’è tempo. Ne approfitto quando piove e per nostra fortuna piove di rado“.
Ma la conversazione viene subito messa da parte, riuniti due petromax sulla tavola hanno spiegate le carte topografiche e tutti si radunano attorno per studiare il da farsi. La signora passa alla cucina a prendere in consegna da una donna la roba da mangiare.
La luce viva delle lampade illumina i volti attenti.
“Da qui a qui sono pochi chilometri, lo so, a calcolarli sulla carta, ma bisogna provarsi a farli, specie se il giorno prima ha piovuto. Non vi è nè trazzera, nè sentiero, quindi un passo avanti e uno indietro. Ti assicuro che mi occorre una giornata per il sopraluogo“.
E parlano, e misurano e fanno calcoli. Guardo questi cinque nomini, questi cinque costruttori italiani del nostro tempo, con le loro fronti pensose sulle carte spiegate e d’improvviso mi si dischiude il ricordo di altri uomini come questi anelanti di compiere il loro lavoro. II ricordo di altri come questi che hanno aperto la breccia alla vita contro una materia inerte da secoli. Rivedo quell’ingegnere che nella piana della Nurra aveva sfidato per un anno intero la malaria nell’opera di bonifica e risanare le acque e resa abitabile la terra non pensava di fuggirla, ma chiedeva al suo capo di poter acquistare un pezzetto di terra per costruirsi la sua casa. Rivedevo gli ingegneri di Mussolinia con lo sguardo proteso verso la terra prosciugata del lago, sorridere di gioia a vedere l’aratro segnare il primo solco.
Vita semplice di infaticabili lavoratori
Rivedevo l’ingegnere che aveva fatto la strada che dal bassopiano porta ad Asinara per Fil-Fil condurre sicuramente la macchina per le migliaia di curve perchè le aveva costruite tutte lui ed erano tutte impresse nella sua anima. Rivedevo il cimitero del Mareb con le tombe dell’ingegnere Rocca e di sua moglie e quella dell’ingegnere di Collaredo trucidati coi loro operai da una banda abissina, mentre sistemavano la strada verso Adua. Rivedevo la fabbrica di cementi di Dire Dana cogli ingegneri bergamaschi, stretti come fratelli nella grande opera; accaniti a questa stessa luce dei petromax attorno al motore che generava la luce e che s’era guastato interrompendo il lavoro notturno, mentre si gettava il cemento sul tetto della grande costruzione. E rivedevo l’ingegnere addetto alla ricerca delle acque nel falso deserto della Libia, mostrarmi i detriti lasciti nella scavazione dei pozzi a centinaia di metri.
Bonifiche, strade e strade, fabbriche e pozzi, case coloniche e nuovi villaggi, e vita, nuova vita moltiplicantesi dalle loro opere. E in essi una semplicità, una fratellanza, un sacrificio pari a quelli dei combattenti. Uomini del nostro tempo, infaticabili, che nella loro moltitudine rimarranno oscuri, felici di dare gloria puramente al loro mestiere.
“Allora siamo intesi? Questo è il lavoro per la prossima settimana. Vi occorre nulla da Palermo?” chiede l’ingegnere alzandosi.
“Nuovi progetti di strade” risponde uno per tutti e i loro sguardi stanno fissi come se scorgessero nel tempo il rifiorire della vita dal loro lavoro.
Giovanni Comisso
Pubblicato sulla Gazzetta del Popolo il 18 gennaio 1940
Si ringrazia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e il portale della Biblioteca Digitale