Il nuovo romanticismo appare ne “La fiera letteraria” del settembre del 1946, tre anni dopo I sentimenti nell’arte. Il conflitto civile che tanto dolore e lutti ha portato all’intera nazione, ha coinvolto anche Giovanni Comisso, che il 25 aprile del 1945 ha assistito a un eccidio nei pressi della sua casa di campagna da parte di una banda fascista e lo ha raccontato con orrore e disgusto in un racconto apparso sulla “Fiera letteraria” del 16 agosto 1946 (pubblicato il 26 maggio 2020 nel sito del Premio Comisso, e col titolo Un’esperienza di Franco, nel volume Longanesi del 1972, Il sereno dopo la nebbia). Di fronte a uno dei giovanetti trucidati, Comisso ha un sussulto: qualcosa di quel ragazzo gli ricorda il giovane amico Guido Bottegal; di lì a poco giungerà la tragica conferma della sua morte, fucilato dai partigiani nell’altipiano di Asiago nel marzo del 1945, perché scambiato per una spia.
Tali avvenimenti sembrano confermare l’intuizione di anni prima: la letteratura nata sotto il segno di d’Annunzio e a cui ha contribuito Comisso stesso, ha creato una generazione di pietra, soffocando i sentimenti, trasformandosi in un arido gioco. A questa letteratura è mancata la passione e la capacità di commuovere, indagando il sentimento umano, in una parola sono mancate le lacrime. Il risultato è stata una generazione di folli sanguinari: “Una verità si sostanziava negli italiani: che era facile uccidere, che si poteva avere il diritto di uccidere. Non belve, non selvaggi, ma pietre.”
Comisso si propone di reagire dando nuovo spazio ai sentimenti prima col romanzo Capriccio e illusione (Mondadori, Milano 1947) e poi Gioventù che muore (Edizioni Milano-Sera, Milano 1949, da poco riproposto dalla Nave di Teseo).
Questo mutato atteggiamento spiega l’entusiasmo con cui Comisso legge il manoscritto di un giovane scrittore di Mogliano Veneto, Giuseppe Berto, che in prigionia in Texas ha scritto un romanzo dal titolo La perduta gente. Comisso lo segnala a Leo Longanesi che lo pubblicherà col titolo Il cielo è rosso, perfetto esempio di letteratura sentimentale, “nel senso severo della parola”.
Forse l’idea sostenuta da Comisso di una letteratura in grado di plasmare la realtà può risultare idealistica, frutto di una fiducia romantica oramai fuoricorso, ma suscita una domanda: perché, allora, la letteratura?
Elsa Morante in Pro o contro la bomba atomica, (Milano, Adelphi, 1987) attribuiva all’arte il compito “di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso col mondo”. Dunque, per entrambi questi scrittori, diversi sotto molti aspetti, l’orizzonte di riferimento è un umanesimo integrale che rischia la cancellazione insieme all’idea stessa di uomo, così come si era venuta elaborando nei secoli: di qui l’appello alle responsabilità degli artisti.
Ultimamente, dopo anni di ubriacature strutturaliste e disimpegno programmato, si assiste a una rinnovata attenzione al ruolo della letteratura. In tal senso, uno dei libri più belli usciti sul finire del 2019, è La terra dopo di noi (Contrasto, Roma 2019), di Telmo Pievani, filosofo di scienze biologiche: in un presente sempre più a rischio per la sopravvivenza dell’uomo, ci attendono sfide, molte e difficili, e per poterle affrontare è necessario collegare l’umanesimo con la scienza, perché l’ecologismo non può prescindere dalla giustizia sociale, dalla ricerca scientifica, dall’impegno umanistico: “l’ambientalismo del futuro sarà la più alta forma di umanesimo: un umanesimo scientifico.”
Allora, possiamo rileggere con meno sufficienza e con occhi diversi la conclusione dell’articolo di Comisso, quando dice che “la vita non può finire nella oscurità che abbiamo esperimentato, perché abbiamo la certezza che non ci è dato di fare dell’arte solo per diletto, ma che l’arte con la sua potenza a imprimere schemi di vita nella cera dell’anima è verbo, perché abbiamo visto nel corso del tempo come un’arte inumana abbia determinato un vivere inumano e che in reazione sorse una altra arte, quella umana, romantica, che determinò un vivere sociale umano.”
Nicola De Cilia
Il nuovo romanticismo
Enrico Falqui in un articolo apparso sull’Opinione il 20 giugno 1946, parlando del mio libretto: «I sentimenti nell’arte», con molta opportunità affianca quelle mie idee ad altre in certo modo analoghe suscitate da G. B. Angioletti nel 1941 con suoi scritti che promossero qualche interesse. Come nel giuoco infantile di ricercare qualcosa di nascosto e al ricercatore, secondo che si avvicina o si allontana dal nascondiglio, gli si dice: Fuoco. Oppure: Acqua. Angioletti si è avvicinato alla verità nascosta fino quasi a scoprirla, ma poi se ne è allontanato sperdendosi in elementi secondari. Il primo avvicinamento è questo: Siamo stanchi di una razionalità che rimane chiusa in se stessa e non sveglia intorno che flebili echi… perché non sappiamo che cosa potrà accadere della cultura europea, ma abbiamo l’impressione che per sopravvivere essa dovrà tornare allo slancio, al calore comunicativo che ci avevano incantati negli anni della nostra adolescenza. Non possiamo continuare a ripetere motivi tutti risolti in formule, a irrigidire i sentimenti, a chiudere porte e finestre alle idee generali, comuni e tuttavia grandiose del tempo passato. Saremmo, se continuassimo su questa strada, perduti. Fuoco! Fuoco! E si è allontanato occupandosi della modestia degli scrittori che li rende appartati dalla vita sociale. Per me risulta invece che la letteratura moderna per essersi fatta estranea ai sentimenti non ha potuto entrare nella vita sociale, e quand’è entrata nella vita sociale come quella di Carducci e di D’Annunzio e di Pirandello, lo fu per sentimenti sopraumani che fecero sorgere un falso romanticismo, mancante di terrena considerazione umana. Il vero romanticismo ultimo apparso fu quello di Verga con l’uomo ’Ntoni. Carducci, D’Annunzio e Pirandello, pur risentendo in qualche accenno di quel vero sentimento umano, la voce più alta l’hanno fatta oltre i limiti dell’uomo e in questo modo hanno preparato il terreno alla letteratura ultima, che dell’uomo si è dimenticata del tutto. Questa letteratura seppe tuttavia reagire a quella usando, in verità, almeno uno stile umano, fatto di parole parlate dall’uomo, ma la reazione completa avverrà quando nelle sue pagine apparirà un altro ‘Ntoni. Quando cioè i sentimenti, non più acciaiati o diamantizzati, perderanno la rigidezza per farsi fluidi come lagrime che riesciranno a suscitare. Solo col pianto una letteratura si fa romantica entrando fecondamente nella vita sociale.
E nuovamente Angioletti si avvicina alla verità nascosta e fa gridare: Fuoco! Una società impassibile non può esistere che in una nazione senza più speranze. Una società o un popolo valgono dunque in quanto comunicano spontaneamente con i loro uomini maggiori, artisti o filosofi, in essi credono e da essi prendono ispirazione. Dissi nei miei «Sentimenti nell’arte»: “la vita è sempre dominata dall’arte che è la più elevata essenza umana. E se l’arte è fatta di sentimenti umani avremo una società o un popolo umanamente sentimentale, modellato su quegli schemi, come avvenne dopo Manzoni, dopo Leopardi, dopo Balzac e dopo Flaubert, se invece l’arte è estranea ai sentimenti umani o è partecipe di sentimenti sopraumani, come in Voltaire e in D’Annunzio ecc. avremo una società o un popolo come si è visto al tempo della Rivoluzione Francese e come ci toccò vederlo nei nostri aspri giorni”.
Angioletti mise quasi la mano sulla verità nascosta quando scrisse: “Se continuassimo su questa strada (irrigidita ai sentimenti) saremmo perduti.” E, noi, come società e come popolo, in questi anni dopo un’arte chiusa in se stessa fummo perduti, dimentichi, in facili uccisioni, troppo facili, di ogni sentimento umano. Chi uccideva, uccideva sopratutto dentro di sé: l’uomo che nessuna parola dell’arte ultima aveva più imposto come schema.
Nei miei «Sentimenti nell’arte» pubblicati in un primo tempo nel maggio del 1943 prevedevo che come un’arte di Voltaire, con personaggi per nulla legati all’anima umana che nella loro astrazione irreale potevano senza dolore essere tagliati a pezzi, determinò la tendenza alle decapitazioni insensibili della Rivoluzione Francese, così la nostra arte contemporanea, insensibile all’uomo, avrebbe portato una considerazione pietrosa dell’uomo. E siamo arrivati a questo. Insomma: Candide sta alla ghigliottina, come… Corrado Brando (matto questo nome per essere riassuntivo, ma potrei aggiungervi tutta la letteratura ultima), sta al mitra.
Si dirà che la letteratura contemporanea coi suoi scarsi lettori non può essere imputata a tanta conseguenza. Il discorso si è qui impostato sulla letteratura che rappresenta la parola nella sua forma schietta, ma va esteso a tutte le arti che si sono comportate in questa ultima metà di secolo conformemente alla letteratura
Inoltre l’influenza non è mancata anche con la scarsa diffusione sia perché l’influenza dell’arte è cosa magica che avviene come la diffusione del polline sulle ali del vento e pochi venuti a contatto irradiano indirettamente il senso di quella letteratura a schiere sempre più moltiplicatisi, sia anche nel caso che questo non fosse avvenuto, l’influenza tuttavia esiste negativamente, con una mancata presenza lasciando la massa degli uomini deserta di schemi sentimentali, i soli efficenti a una vita sociale. Noi abbiamo visto come l’assenza di questi schemi sentimentali e sopratutto l’oblio della considerazione umana abbiano concluso nella possibilità a realizzare una crudeltà inaudita in questa lacerata Italia.
Durò circa due anni, ma furono sufficienti per inorridire, per dubitare per sempre del nostro sangue, per far sorgere il pensiero di fuggire per sempre questa terra, dimenticare la sua lingua, se non sorgeva questa nuova speranza e questa fede a operare attraverso l’arte per una ricostruzione dell’uomo. Dovemmo inorridire e arrossire per l’onta che gli italiani gettarono sul nostro sangue. Un’onta che non dobbiamo dimenticare, ricordare che stava nelle possibilità latenti persino in regioni che sembravano le più miti e umane. Il tempo, la libertà, il rinascente benessere non dovranno cementare il ricordo, che deve sussistere invece bruciante. Penso a Manzoni, cittadino di questa Italia, che nella sua Colonna infame, freme e sanguina per le torture esercitate dalla giustizia milanese contro presunti untori al tempo della peste. Quanto non avrebbe sofferto nella sua grande coscienza, se avesse vissuto in questa ultima Italia.
Questa cara e bella Italia rivelò una possibilità velenosa, quasi a compendio di tutte le sue più atroci possibilità dimostrate nei suoi secoli più oscuri. Bisogna avere la forza di non tacerle, per vergogna, di non dimenticarle e di trovare la causa oltre a quelle di facile apparenza.
Come fu che l’italiano potè arrivare a questo? L’anima sensibile dell’uomo non esisteva più: eravamo perduti. Noi abbiamo subito una crudeltà di schiere che si era da lunghi anni deposta nel fondo dell’anima italiana. Una verità si sostanziava negli italiani: che era facile uccidere, che si poteva avere il diritto di uccidere. Non belve, non selvaggi, ma pietre. E’ un abisso vertiginoso che si è dischiuso negli italiani, e anche se sintomi rifiorenti coll’estate lo velano, non possiamo dimenticare che è esistito e che esiste nella sua possibilità di riapparire. Si diffida di questo paesaggio una volta tanto amato, come dei fiori che celano una serpe, si diffida della gaiezza e del sorriso che riappare col sole estivo: questi italiani hanno trovato facile uccidere, torturare, impiccare, e fare scempio dei morenti. I sentimenti primi del vivere sociale si sono irrigiditi e noi siamo perduti. Questo è il dominante dolore, il nauseante dolore che ci perseguita.
Fuggire questa terra, dimenticare la sua lingua, dimenticare il suo paesaggio, non è possibile, perchè dimostrerebbe anche in noi la morte dell’uomo. Noi dobbiamo rimanere qui in questa terra ingrata, ma non disperante. Spem contro spem, sperare quando tutto induce a disperare, speranza contro speranza, ripeteremo anche noi questo grido di forza dei missionari nei paesi più inumani, perchè la vita non può finire nella oscurità che abbiamo esperimentato, perché abbiamo la certezza che non ci è dato di fare dell’arte solo per diletto, ma che l’arte con la sua potenza a imprimere schemi di vita nella cera dell’anima è verbo, perchè abbiamo visto nel corso del tempo come un’arte inumana abbia determinato un vivere inumano e che in reazione sorse una altra arte, quella umana, romantica, che determinò un vivere sociale umano. Non vi sarà rinnovamento in Italia fino a quando questo nuovo romanticismo non avrà sradicato profondo la compiacenza agli istinti crudeli dentro all’anima degli italiani.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul n. 25 della La Fiera Letteraria del 26 settembre 1946.
Immagine in evidenza: la famiglia Valastro nel film “La terra trema” di Luchino Visconti