Le prime avvisaglie di quella “crisi dei sentimenti” che avrebbe avuto ripercussioni per almeno una decina di anni, al punto da portare Giovanni Comisso ai limiti di un’abiura da se stesso, si manifestano nella tarda estate del 1942. Apparentemente, si debbono al caso, come racconta lo stesso Comisso ne “Le mie stagioni”, quando si trova a rileggere “La vita di Benvenuto Cellini”, un libro che a vent’anni gli era apparso meraviglioso. Ora l’impressione è del tutto diversa: “Penso che da questo momento, dalla rilettura di questo libro, incominci una mia crisi. Fino allora avevo vissuto istintivamente e considerato il mondo istintivamente, e anche la mia arte seguiva questa traccia senza alcuna considerazione umana. Uomo o albero per me erano uguali.”
A confermare il disagio, una nota nel Quaderno di fine dicembre dello stesso anno: “Io sono stato un essere amorale. Ò sempre creduto che tutto quello che facevo fosse bene, anche se recava male, perché recava bene a me. […] La mia arte è tutta amorale. È fatta solo di sentire, di constatare, non di giudicare e accusare. […] Nella mia arte, la mia scarsezza psicologica è appunto determinata dal mio sentire l’uomo come un animale, dal mio amarlo sensitivamente, senza profondità, così come io ò amato me stesso. Sono arrivato a un limite verso me stesso, verso gli uomini e nella mia arte. Sono arrivato alla riva, passerò all’altra riva?”
In realtà, c’è ben altro che la rilettura del libro di Cellini alle origini di questa crisi. All’annotazione del Quaderno, Comisso aggiunge: “Solo l’amore potrebbe farmi diventare altruista almeno per una persona, quella amata. E quindi darmi un senso di moralità.” Un’ipotesi che non è retorica ma che è dolorosamente reale e fa riferimento alla passione per il giovane Guido Bottegal che tra 1942 e 1943 raggiunge la sua massima intensità. Comisso aveva conosciuto Guido Bottegal, soprannominato il fuggitivo, nel 1940, proponendosi inizialmente come maestro, incuriosito dall’estro poetico ma più ancora attratto dalla sua folle giovinezza, in cui evidentemente Comisso si rispecchiava. Presto però la dimensione pedagogica aveva assunto i colori di un vero e proprio innamoramento e l’innamoramento era divenuto passione divorante, acuita dalle numerose fughe del giovane che lasciavano Comisso preda della gelosia e disperazione più cupe. Il terremoto sentimentale che scuote la vita di Comisso, viene registrato nei Quaderni (per rientrare poi nei libri Le mie stagioni e La mia casa di campagna). A inizio del 1943, Comisso si ritrova in piena rottura con sé stesso, sente che gli istinti non lo reggono più, non cerca più la superficie e i panorami delle cose. Dopo aver vissuto pensando solo a se stesso, come se tutto il mondo dovesse servire alla sua felicità, ottenendo gloria per sé, ebbrezza per sé, denaro per sé, la sua felicità si è spostata nel desiderare che tutto questo venga attribuito a un altro.
Matura in questo stato d’animo l’idea che “è l’arte che plasma le cose, e l’arte da cinquant’anni in Italia era stata un’arte crudele che aveva negato i sentimenti […] Mentre esperimentavo per la prima volta nella mia vita lo strazio di un sentimento che mi confermava l’anima dentro, comprendevo tutto il mio passato e il mio errore nella vita e nella mia arte. L’arte narrativa italiana da cinquant’anni non aveva mai toccato l’anima e ora se ne avevano le conseguenze con queste generazioni ultime e nuove crudelmente insensibili.”
Ricollegandosi a queste riflessioni, scrive dunque “una specie di accusa verso se stesso e gli artisti del suo tempo” e la pubblica nella rivista “Primato” del giugno del 1943, il cui testo potete leggere qui di seguito.
Può essere che abbia ragione Rolando Damiani quando scrive, nell’introduzione al Meridiano dedicato a Comisso, che “i ripensamenti o le presunte svolte di Comisso sono frutti stagionali, temporali delle sue primavere, durante le quali diceva di sentirsi rinnovato da un estro creativo, come se egli stesso fosse una pianta vivente di linfa e umori assorbiti dalle proprie radici”. Avremo però modo di verificare in seguito che “questa crisi dei sentimenti” non è stata poi di così breve durata, e forse rappresenta qualcosa di più di un temporale stagionale. Quanto poi abbia inciso davvero sullo stile di Comisso, è altra questione e non è questa la sede per affrontarla.
Nicola De Cilia
“I sentimenti nell’arte” di Giovanni Comisso
Sembra inutile, ma è necessario riassumere tutta l’importanza dell’arte di fronte alla vita. I giorni fuggono in gara con le idee e almeno queste idee possono essere trattenute e chiarite, anche se per molti di più facile memoria risultano luoghi comuni.
Se la vita degli uomini fosse abbandonata a se stessa, senza essere sorretta dall’arte, risalterebbe soltanto un movimento senza nome. I fatti, cioè tutta la vita nel suo intreccio di aspetti, passioni e azioni non diventerebbero storia, e per storia si deve intendere: tutte le forme d’arte in quanto rendono memorabili quei fatti. Vi furono genti scomparse da secoli, della loro esistenza non si avrebbe nessuna memoria se l’arte scaturita dal loro spirito non l’avesse definita e resa sublime. Non le loro azioni legate alla necessità limitata dei loro giorni poterono da sole assicurare una sopravvivenza al nome di quelle genti, ma l’arte che possiede il linguaggio più resistente al tempo. L’arte non solo rende memorabile la vita, ma la plasma. Se non vi fosse l’arte, gli uomini vedrebbero le cose del mondo solo in rapporto ai loro istinti di paura e di brama, non sentirebbero con le orecchie che solo per richiesta di questi istinti e non avrebbero neanche la parola, ma solo si esprimerebbero per muggiti, ruggiti e lamenti. L’arte ha insegnato nel lungo giro dei secoli a parlare, a vedere, ad ascoltare. La vita è sempre dominata dall’arte che è la più elevata essenza umana, che è il punto di contatto tra Dio fatto uomo e la vita. L’arte arriva a dominare la vita anche quando per una sua astrazione che la rendesse incomprensibile alla maggior parte degli uomini, potrebbe sembrare disgiunta e chiusa in se stessa: la sua influenza è inevitabile. Le generazioni già provate dagli anni si sistemano nella vita con posata elaborazione, ma quelle nuove, con intensa rapidità, assimilano le espressioni date dall’arte per farsi subito conformemente operanti. Un ragazzo di quattordici anni, dopo sei anni ne ha venti e di sei anni in sei anni, l’arte si rinnova col suo affluente potere di plasmare questa giovane vita che viene a fondersi con l’altra degli anziani.
Tutti gli avvenimenti nei quali anche la giovinezza ha parte importantissima d’azione sono preceduti incessantemente dall’arte che ne predispone lo stile. Le tendenze della vita sono determinate da tendenze dell’arte, e a queste tendenze rispondono in reazione diverse tendenze in un ricorrente giuoco ventoso. Esiste di questo giuoco una prova non lontana. Certa tendenza dell’arte del settecento, che si può concretare nei romanzi nuovissimi di Voltaire, dove i personaggi così per nulla legati all’anima nella loro astrazione irreale potrebbero senza dolore essere tagliati a pezzi, ha determinato la tendenza alle decapitazioni insensibili della rivoluzione francese. A questa tendenza metafisica dell’arte esauritasi con una realizzazione di fatti conformi per la durata di circa quaranta anni, ha reagito quella romantica con Balzac, Stendhal e Flaubert decisa di lottare per l’affermazione dell’anima nel complesso prezioso dei sentimenti e delle passioni. E da essa ebbe origine un’epoca successiva dominata dal principio della considerazione umana.
I rapporti tra la nostra arte e la nostra vita nel nostro tempo, hanno una qualche analogia con quelli di quel tempo.
Da quasi mezzo secolo l’arte italiana si è dimenticata dell’anima. La poesia si è fatta decorativa, astratta, oscura; la musica ha ripudiato le melodie così legate ai sentimenti e alle passioni per farsi dissonante, la scultura ha deformato l’espressione del corpo umano, la pittura considera tutto il risibile, tra cui l’uomo, come frammenti di stelle cadute sulla terra, l’arte narrativa non vuole emozionare, ma incantare. Quest’arte moderna rinnegando i sentimenti e le passioni ha lasciato sgombro il terreno all’avvento di una vita dove l’uomo non è più considerato come essere capace di un’anima, ma come pietra da costruzione. E fu dimenticato che un attimo vissuto passionalmente riempie tutta una vita affermando la esistenza dell’anima, di Dio in noi, al legittimo possessore. Indagando lo svolgimento di quest’arte pietrosa limitatamente alla poesia e alla prosa si può indicare l’origine filosofica in Nietzsche il quale negava l’uomo per affermare una costruzione irreale e falsa: il superuomo. Nella sua oscurazione egli trovava troppo semplice l’uomo e non ne vedeva la profondità. La nostra arte poetica e narrativa, umana, sorta con Foscolo e Leopardi, dopo Manzoni, Nievo e Fogazzaro, si era esaurita variamente con Carducci, Pascoli e Verga. D’Annunzio nella soggezione all’idea di Nietzsche incomincia in Italia un’arte non umana soffocando l’anima con sovrastrutture rettoriche ed esangui. Egli è l’iniziatore dell’arte pietrosa sino ad oggi. Da circa cinquanta anni, cinquanta ondate di giovani sono venuti a compiere operanti venti anni e la nostra arte non giunse mai con d’Annunzio e dopo d’Annunzio a una considerazione sentimentale dell’uomo. Ecco pronunciata la scottante accusa: noi nuovi scrittori non fummo mai dei sentimentali nel senso severo della parola. Da mezzo secolo la nostra arte non ha fatto mai piangere. Il nostro non fu che un arido giuoco a modellare aridamente la vita. Non si ebbe un grande numero di lettori, perché la maggioranza degli uomini credeva ancora nei suoi sentimenti, ma i pochi intellettuali che parteciparono a questa nuova arte dovevano finire coll’imporre attraverso il costume e i motivi vari del vivere comune penetrante lo stile non umano di quest’arte anche in una grande maggioranza. Noi poeti, scrittori, pittori, scultori e musicisti di questo avanzato principio di secolo con !a nostra arte neutralizzata, per dilettarci solo di una fredda, sebbene talvolta ben costrutta espressione, siamo i responsabili della mancanza di passionalità umana nelle generazioni ultime e nuove. I loro sentimenti che vanno da un Jacopo Ortis ad un Antonio Malavoglia sono esclusi. Da quando questo Antonio Malavoglia è uscito di prigione ed è passato dalla casa paterna senza osare di entrare, sono state miseramente disdegnate le lagrime per il lettore italiano, dimenticando che sono esse che segnalano l’efficenza [sic] dell’anima tra le sue grandi possibilità di amore e di odio. Noi artisti di questo principio di secolo siamo responsabili di avere reso vuota la vita tra pareti chiuse. Non dico che di proposito si possa mutare l’essenza delle nostre opere, ma bisogna convincersi di reagire allo spirito di quelle già create e determinare il calore ideale per una riaffermazione delle passioni nella nostra arte, fino alle esasperazioni estreme, fino al delitto e al suicidio per passione umana e allora la vita sarà colma di vita. Perché sarà sempre meglio vivere e morire da uomo che non da pietra.
Giovanni Comisso
Pubblicato sulla rivista settimanale Il Primato del 15 giugno 1943.
Immagine in evidenza: bronzo alla base del Perseo di Benvenuto Cellini