Vincitore della XXXVII edizione del Premio Comisso con La casa dei bambini (Fandango, 2013), Michele Cocchi dà ora alle stampe il primo romanzo italiano della collana Weird Young di Fandango, dedicata ai giovani lettori. Un testo dal titolo emblematico – Us – in cui la storia di un giovane hikikomori perturba e interroga il nostro orizzonte d’attesa. Con una prosa votata all’essenzialità – nell’abrasione del confine tra reale e virtuale – l’autore indaga un nuovo ‘spazio’ di crescita, toccando temi di stretta attualità.
Anzitutto il titolo: Us. Un riferimento diretto al gioco che orienta la narrazione, certo, ma anche un richiamo alla dimensione esistenziale. Dire “noi” significa asserire un concetto, illuminare uno spazio in cui i chiaroscuri prevalgono sulle divisioni. Nel testo risuona, in tal senso, un interrogativo cogente, l’invito a deporre i ‘vecchi’ schemi mentali e ripensare sé e l’altro. Da cosa deriva quest’urgenza?
Prima di rispondere, Ginevra, vorrei ringraziarti, per la recensione e per le domande stimolanti che mi poni e che mi costringono a riflettere, a fare ordine nei pensieri. Quello dell’intervista è sempre un momento importante, di rielaborazione e di creatività. E grazie agli amici del Comisso, con me sempre affettuosi e solleciti.
Veniamo alle tue domande. Se il Novecento è stato il secolo del capitalismo, del liberismo, della ricerca della massima libertà di espressione dell’Io, è arrivato il momento che inizi una nuova epoca, centrata sulla riscoperta del valore dell’Altro, e del pianeta nel quale viviamo. Non perché lo dica io, ma finalmente ne parlano economisti (vedi Piketty o Rajan), evoluzionisti, sociologi, antropologi, fisici… Dal mio punto di vista, quello cioè di chi di mestiere fa lo psicoterapeuta dell’infanzia, e per passione scrive storie che riguardano l’uomo, il perché è evidente: ogni passaggio della vita, soprattutto quella mentale, si fonda sulla relazione reciproca. Ogni aspetto della nostra vita ha a che fare con l’Altro, con quello che ci portiamo dentro che è stato fondamentale per il nostro sviluppo; con quello che quotidianamente incontriamo e con cui, per necessità, dobbiamo rapportarci; e infine l’Altro che è rappresentato dal luogo che ci ospita e con cui siamo interconnessi. Se noi trascuriamo uno soltanto di questi Altro, in fondo trascuriamo noi stessi, presto o tardi ne pagheremo le conseguenze, se non noi direttamente i nostri figli, o i nostri nipoti. È la lezione di Mandela, il cui insegnamento è protagonista in uno dei capitoli di Us: se sarai preda di quelle emozioni che usano l’altro, lo violano, stai facendo del male a tutta l’umanità e dunque anche a te stesso. Oggi sei tu a fare del male a me, domani sarò io a fare del male a te. La domanda vera allora è un’altra: come è stato possibile ignorare tutto questo? Come è stato possibile ascoltare soltanto quella parte del nostro cervello che persegue il piacere personale, la soddisfazione personale – quello che Freud chiamava il pensiero primario – senza pensare, riflettere, sentire il dolore dell’altro e provarne compassione? La società ha cavalcato le nostre aree più irrazionali, più sensibili alla paura, più onnipotenti – sii te stesso, raggiungi il massimo, tutto il resto non conta. Deve invece venirci in aiuto la Memoria, e la capacità di pensare e riflettere autonomamente su ciò che ci viene impartito come verità. L’uomo ha la capacità del pensiero astratto, del pensare sull’agire, del pensiero critico, di compiere delle scelte, di dare contenimento alle proprie pulsioni, di declinarle, sublimarle, rappresentarle simbolicamente.
Il videogioco svolge un ruolo fondamentale, per i protagonisti è una porta d’accesso alla storia, alla comprensione della sfera umana – un luogo in cui sperimentare e interpretare i vissuti. Qual è il confine tra potenzialità e insidie in questa forma d’‘intrattenimento’, sempre più schiacciata dal peso di vituperi o idee pregiudiziali? Il romanzo lascia ben intendere come il gioco – lungi dall’essere fonte d’isolamento – riesca a porsi, anche, come spazio di condivisione e percezione del mondo…
Il mondo dei videogiochi, pensiero su di essi, è straordinariamente vasto. Il problema è che se ci siamo incuriositi almeno un po’, comunemente pensiamo a Fortnite, a Fifa, a Call of Duty, a GTA, o a Brawl Stars sul telefono, giochi che vanno per la maggiore, e che in alcuni casi le case produttrici, hanno progettando facendo leva anche – non solo per fortuna – sul nostro bisogno di essere i migliori: acquista crediti potrai investire in strumenti che ti renderanno più visibile. Oppure: ti faccio vincere, ma domani ti farò perdere, non vuoi più perdere? Spendi un po’ dei tuoi soldi veri e io ti renderò più forte. E nonostante ciò, tutti questi giochi consentono di fare squadra, cooperare, il che li rende non solo divertenti, ma utili a uno dei compiti evolutivi centrali dell’adolescenza: la socializzazione. Ma ci sono poi giochi, molti dei quali chiamati Indie (cioè sviluppati da case di produzione più piccole, indipendenti, con meno possibilità economiche) che nascono per essere delle vere opere d’arte, in termini di originalità del prodotto, di esperienza videoludica complessiva. Come ogni opera d’arte vi saranno giochi-opere d’arte di puro intrattenimento, altri di riflessione sul mondo, di narrazione epica, eccetera eccetera, con la differenza che rispetto a quasi tutti gli altri generi artistici il giocatore interagisce con l’opera, può provare – giocando – un’ampia gamma di emozioni. Io fantastico un momento, a scuola o altrove, dove aiutare i ragazzi a pensare intorno ai videogiochi, conoscerli meglio, proprio come facciamo per un romanzo o un quadro, e come dovremmo fare per un film, una canzone o un fumetto…
Aggiungo, rispetto alla tua domanda sulle ‘potenzialità’, che la creazione di un videogioco deve essere però libera, come ogni forma arte, infatti sono piuttosto critico sui giochi che prevedono, per chi ne fruisce, costi ulteriori e successivi a quello dell’acquisto, lo sono anche sui giochi unicamente pedagogici. È vero, cioè, che il videogioco può essere una grande occasione di narrazione dell’uomo, dell’universo, una grande occasione di riflessione, ma non dobbiamo mai dimenticare la dimensione ludica, il piacere che produce sui nostri sensi.
Ancora sui nomi. Tommaso, Luca e Beatrice scelgono per Us delle identità rivelatorie, veri specchi della loro personalità. In un contesto del genere, cosa significa mostrarsi in queste vesti? Si tratta del desiderio di esprimere liberamente se stessi, con le proprie insicurezze e aspirazioni?
In Us i giocatori, per partecipare, devono costruire un proprio avatar, lo possono fare in maniera classica, scegliendo tra caratteristiche fisiche da combinare insieme oppure con il trasporto, trascinando l’immagine di un personaggio nello spazio di costruzione dell’avatar. Ecco che dunque la proiezione di tratti di sé sul proprio personaggio che sempre un giocatore agisce quando costruisce un altro da sé – così come lo scrittore quando immagina i suoi personaggi – viene ulteriormente sollecitata. Non so se si tratta del desiderio di esprimere se stessi, il desiderio presuppone un movimento consapevole, la proiezione invece è di solito non consapevole. Scelgo gli abiti di Momonga, oppure quelli di Lana, l’eroina coraggiosa di Conan il ragazzo del futuro – un cartone animato degli anni ’80 – perché qualcosa mi dice che queste rappresentazioni sono significative, anzi, necessarie. Lo stesso vale per i nomi, Logan come l’eroe selvaggio e tribolato di Wolverine, Hud come il Paul Newman scontroso e ribelle di Hud il selvaggio, Rin come la bambina che attraversa il dolore col sorriso e la speranza di giorni migliori nel manga Usagi Drop. A volte la proiezione è la rappresentazione di come mi vedo, altre di come fantastico di essere, di come vorrei diventare. Us spinge i giocatori a mostrarsi sotto le vesti dei loro avatar: è quella straordinaria abilità mimetica dei bambini di essere quello che non sono, di giocare a fare finta di, che ha ancora un momento di gloria nell’adolescenza quando i ragazzi si mostrano sotto le spoglie di un nickname. Giocare a essere qualcun altro, per sperimentare nuove caratteristiche, o per prendersi ancora un po’ di tempo prima di mostrarsi per quello che veramente siamo, con le nostre reali caratteristiche, fragilità, vulnerabilità.
Il tema della scuola è centrale in Us. Le prospettive adottate disegnano un quadro sfaccettato, in grado d’illuminare lo scarto tra le richieste dei giovani e la risposta dell’istituzione. La questione è di stretta attualità, dopo mesi di chiusure, DaD, interrogativi sul ruolo della scuola in sé… Cosa ci insegna il romanzo e qual è, ad oggi, la situazione?
La situazione, ahimè, mi duole dirlo, è sconfortante. Ci sono docenti, ne conosco anch’io per via del mio lavoro, che hanno per l’insegnamento una vera vocazione, o comunque una grande passione, si legano ai ragazzi, alle loro storie, ai loro affetti, pensano alla didattica plasmandola, adattandola ai propri studenti; ma ci sono docenti che ripiegano sul mestiere dell’insegnamento non trovando di meglio, pensando che per insegnare sia sufficiente avere un buon bagaglio di conoscenze da trasmettere. Alcuni giorni fa, sul programma Tutta la città ne parla di Radio 3, si discuteva proprio di questo, di come si è immaginato che i 24 crediti che una recente legge ha pensato di richiedere agli insegnanti nelle aree di psicologia, pedagogia e antropologia, sarebbero stati sufficienti per dotare il futuro aspirante insegnante di quegli strumenti utili per fare bene il proprio mestiere. È una delle tante contraddizioni del nostro Paese, una toppa inutile.
Innanzi tutto è necessario restituire agli insegnanti, di ogni grado, il valore che realmente hanno e avranno; sono infatti quei professionisti con il più complesso compito dell’umanità: formare i futuri cittadini del pianeta. Io mi sento di sposare le parole del maestro Franco Lorenzoni, da sempre attivo nel Movimento di Cooperazione Educativa: fare cultura, trasmettere conoscenza, non è una questione di quante cose so e sono disposto a raccontarti, per poi giudicarti attraverso un voto, bensì è una questione di costruzione reciproca del sapere. Finché continueremo a interpretare il ruolo dell’insegnante come un entrare in classe, fare lezione, proporre una verifica, e uscire, avremo perso. Hud ha ragione, questo posso farlo benissimo guardando un video su Youtube, e paradossalmente è quello che è successo – parzialmente – nella didattica a distanza, qualche insegnante ha proposto dei video – a volte fatti da altri – al posto della lezione. Questo è molto pericoloso. In pochi hanno chiesto davvero come i ragazzi si sentissero, ma non nel senso di chiedere a inizio lezione un generico Come state? ma di dedicare del tempo a parlare di questa nuova condizione che ha colpito tutti, di ascoltare i ragazzi, di aiutarli a trovare le categorie di pensiero adatte a elaborare ciò che hanno provato. Dobbiamo tornare a incuriosirci dei loro linguaggi, ma per fare questo abbiamo bisogno di persone che siano interessate davvero ai ragazzi, che vedano in loro la predisposizione a intervenire nel mondo con il loro, di sguardo, non con il nostro: uno sguardo che però ha bisogno della nostra esperienza per maturare e essere conosciuto al meglio.
La sua opera lavora su zone inesplorate ed è quasi un unicuum tematico nel panorama narrativo. La forza della materia – e la capacità di governare la stessa – deriva senz’altro dall’esperienza di psicoterapeuta per l’infanzia e l’adolescenza ma, sul fronte puramente letterario, quali sono i suoi autori di riferimento?
Negli anni dell’università – forse proprio perché anch’io condizionato da un modo di fare scuola molto classico – prendevo un autore e ne leggevo tutte le opere, o quasi tutte, tutto Kafka, tutto Conrad, tutto Vittorini… Oggi ho imparato che è molto più nutriente leggere quello che ci va di leggere, saltare da un genere all’altro, da un autore all’altro, permetterci di non finire un libro, o di tornarci sopra decine di volte. Ti ringrazio per l’unicum, mi lusinga, sebbene vi siano autori che abbiano esplorato l’infanzia e l’adolescenza con risultati ben più soddisfacenti dei miei e che per me sono oggi dei modelli. Il problema è che talvolta il rischio è di essere etichettati come autori che scrivono soltanto di ragazzi o, peggio, autori per ragazzi! Io credo che in questo risieda il problema, molto diffuso anche nella critica, di essere un po’ resistenti a vedere che l’infanzia e l’adolescenza non sono soltanto fasi della vita da attraversare, sono condizioni che ci apparterranno per sempre. Rappresentano quel bacino inesauribile di esperienze da cui traiamo nutrimento, quelle aree inconsce della nostra mente che influenzeranno le nostre scelte di domani, quello sguardo ingenuo, curioso, attento con cui guarderemo il mondo e le cose nuove che il mondo ha da offrirci. Ho già sentito dire: Cocchi, uno scrittore per i ragazzi. Oppure mi è stato domandato più volte: Quando scriverai una storia sugli adulti? Io sorrido, ma amaramente. Poi penso però di essere in buona compagnia, e trovo conforto, accanto a me siedono infatti i fantasmi di Calvino, di Dahl, London, Stevenson o Mark Twain. Nomino loro, e aggiungo Golding, Molnar, Salinger, Pavese, Dumas padre, Fenoglio, o la straordinario Dickens perché loro sono i giganti, oltre che i fantasmi, che hanno solleticato quella mia parte infantile e adolescenziale che ha interesse a guardare il mondo, a dargli un senso, e a provare a trovarvi una speranza per il futuro, e questa, la speranza, può risiedere soltanto in loro, nei bambini e nei ragazzi, nella loro energia, nella loro vitalità, nella loro innata spinta a essere parte di questo pianeta, a dialogarvi, a risolverne le sofferenze.
“Us” di Michele Cocchi. La recensione
Sono tanti e interconnessi tra loro i temi che Us di Michele Cocchi sviluppa secondo lo schema classico del romanzo di formazione, ottimamente improntato all’indagine di ‘nuove’ costanti, alla dissezione di un mondo interiore fragile e imperscrutabile. Il testo, pubblicato nella collana Weird Young di Fandango, rischia di collocarsi impropriamente entro la gabbia dorata della letteratura per ragazzi, cui certo offre un contributo notevole in termini stilistico-contenutistici. La peculiarità dell’opera, tuttavia, risiede anzitutto nel tentativo di (ri)costruzione di un’identità personale che non conosce rigidi incasellamenti né limiti di genere. Non che Cocchi prescinda da uno sguardo privilegiato sul mondo dell’adolescenza – corroborato dall’esperienza di psicoterapeuta dell’infanzia e dell’età evolutiva – ma la forza della sua penna consiste piuttosto nella capacità di tematizzare le sfilacciature emotive, i vuoti relazionali che definiscono la società odierna.
C’è dunque, in quest’ultima opera, una tendenza a radiografare gli stati d’animo più profondi, una manovra di avvicinamento a un microcosmo ‘oscuro’, talvolta ustorio nell’alternanza di tenerezza e ostilità, malessere e ri-adattamento. La storia di Tommaso, ragazzo auto-recluso, apre spazi di riflessione sul rapporto col mondo, fissando – senza pretese risolutive – le tappe di una ricerca di sé che prevede inevitabili scontri con l’ambiente circostante, improntato a una normatività che si fatica ad accettare o, meglio, sostenere. Quest’operazione contribuisce a demistificare la vulgata comune sulle origini e cause di un fenomeno ‘invisibile’, propriamente ricondotto a un’imposizione particolare, certo altra rispetto a quella sperimentata nel lockdown, eppure parimenti ineludibile; la scelta del ritiro, infatti, è per Tommaso un atto estremo, l’esito di un obbligo mai pronunciato eppure vissuto come tale, la sola via per sfuggire alle aspettative sociali.
Il disagio del giovane si manifesta dapprima in forma psicosomatica, con «macchie rosse sul collo, sulla faccia e sulla pancia» che danno un prurito insostenibile, l’ennesima sensazione di inadeguatezza perenne. Poi viene il basket, il desiderio di guardarlo unicamente in video, lasciando da parte gli allenamenti pur promettenti, così come la scuola e i coetanei espansivi, persino Alberto «che è stato il suo migliore amico». Non ne può più, Tommaso, di sollecitazioni e paragoni, soffre enormemente l’atteggiamento della madre, quella protezione che sfocia in rassegnazione e grida («Sciupare cosa? Cosa rischio di sciupare? Qua non c’è niente da sciupare, è una larva…»), controbilanciata dall’equilibrio del padre vissuto come arrendevolezza («Gli è grato ma allo stesso tempo lo disprezza, che razza di padre è uno che non è capace d’infuriarsi?»). Il rifiuto del reale – di questo reale – è l’unica arma che possiede, anche se un ‘mondo’ il ragazzo sa crearlo, una dimensione dove non esser fuori posto, in cui «parlare senza domandarsi ogni volta se ciò che sta per dire risulterà stupido o banale».
Us, il videogioco che scandisce le sue giornate, diviene progressivamente uno spazio altro, segnato da attriti e scelte, ripensamenti e perdite. Cocchi è bravo a immaginare una realtà virtuale in cui artificialmente si rivivono i grandi conflitti del Novecento, dalla ex Jugoslavia al Sudafrica di Mandela. È un espediente arguto, che consente al giovane di osservare un’umanità variegata, sofferente o cinica, vittima o carnefice – come accade a lui e ai suoi compagni di squadra (Rin e Hud, alias Beatrice e Luca), chiamati a vestire i panni dei guerriglieri o di manutengoli nazisti. Le lunghe pagine sulle ‘missioni’ sono tra le parti più avvincenti del libro, sostenute da un ritmo calibrato, in cui le azioni paiono un apprendistato alla vita e i dialoghi svelano tormenti e slanci.
Ciò che l’autore riesce a mostrare, in fondo, è il rapporto ancora misconosciuto tra gaming e crescita, ribaltando i pregiudizi sull’alienazione e una supposta, estrema, deriva violenta. Si scoprono infatti modalità relazionali autentiche, frutto di affinità tra personaggi e avatar, turbati da eventi mai approfonditi prima, ridestati – ancora – da una torpidità solo apparente.
È nell’erosione del discrimine tra reale e virtuale che si colloca il definitivo snodo esistenziale: contro le regole di Us Tommaso rivela il suo nome, sancendo così il ritorno alla dimensione corporea, la stessa che gli lanciava segnali d’allarme (prurito, escoriazioni) appena fuori di casa. Questo cambio di passo, orientato alla riscoperta di sé e dell’altro, corrisponde a un ‘nuovo’ ritmo della narrazione, più serrato, incalzante, povero di descrizioni e denso di fatti. Il richiamo alle azioni del videogame è chiaro e riuscito, ma nell’istituire questa corrispondenza Cocchi sceglie una prosa più affabile, che segna uno scarto rispetto all’essenzialità iniziale, come a tracciare una lenta evoluzione, lo sbocco naturale di una vicenda ‘eroica’. La conclusiva riappropriazione si compie, infine, mediante un atto catartico, nella realizzazione dell’idea bachtiniana del riso, inteso come principio di rinascita e rinnovamento. Tommaso e i compagni, finalmente ‘attori’, prorompono in una risata che sa di fertilità e sfogo. È la possibilità di percepire un ruolo ‘nuovo’, di operare altre scelte, di svincolare l’uomo da una realtà già ordinata per lui, da altri silenziosamente preconfezionata.
Ginevra Amadio