Nuova edizione per Santi Quaranta. Postfazione di Isabella Panfido.
Un dichiarato omaggio al sodalizio tra Giovanni Comisso Arturo Martini e Gino Rossi, la scelta dell’editore Santi Quaranta di ripubblicare a settant’anni dalla morte di Gino Rossi e Arturo Martini “I due compagni” di Giovanni Comisso nell’edizione Longanesi postuma del 1973.
Ben consapevoli del fatto che “La Piccola Atene” sia stato un momento unico ed irripetibile per la cultura trevigiana, auspichiamo che questo sguardo verso le nostre radici costituisca un punto di partenza imprescindibile per poter consolidare i fermenti culturali del presente e puntare al futuro.
Lasciamo ora la parola a Isabella Panfido, che, con la consueta precisione e capacità narrativa ci propone uno stralcio della postfazione a “I due compagni”.
Al momento della composizione di I due compagni Giovanni Comisso ha già alle spalle l’esito felice di diverse opere: Il porto dell’amore del 1924, ripubblicato nel 1928 come Il vento dell’Adriatico; Gente di mare del 1928; Giorni di Guerra del 1930; Il delitto di Fausto Diamante del 1933; Storia di un patrimonio del 1933; Avventure terrene del 1935; oltre a Questa è Parigi del 1931 e Cina-Giappone del 1932, reportage di viaggi ed esperienze di vita all’estero. E’ autore conosciuto e apprezzato nel milieu artistico tanto quanto negli ambienti del potere, la sua prosa, unica per leggerezza e immediatezza, fortemente sensoriale e autobiografica piace alla critica più sensibile al nuovo: il successo dei primi romanzi gli offre visibilità e opportunità di lavoro e collaborazioni giornalistiche di rilievo.
Nella sua autobiografia del 1952 Le mie stagioni, uno scritto memorialistico che per capitoli/anni muove dal 1918 – riprendendo cioè il racconto dalla fine di Anni di guerra – fino al 1945, all’esordio dell’annata 1934 Comisso scrive:
“ Il 6 di marzo ritornando alla mia casa di campagna ebbi l’idea del romanzo: I due compagni, che cominciai subito a scrivere. Dopo molti anni ero riuscito a ritrovare il pittore Gino Rossi confuso tra pazzi comuni in un manicomio di campagna. Gino Rossi con Martini ed altri nel 1912 e nel 1913 volevano rivoluzionare l’arte in opposizione a quella allora celebrata in Venezia attraverso le esposizioni biennali. Le lotte furono aspre, e iniziarono una strada poi seguita dai giovani. Rossi e Martini erano i più accesi e le loro opere le più ardite. Insieme avevano vissuto a Parigi e nell’isola di Burano. Rossi dopo combattimenti e dopo una dura prigionia, abbandonato dalla moglie finì coll’impazzire. Dimenticato da tutti e senza famiglia passò da un manicomio all’altro. Il direttore dell’ultimo ospizio dove lo trovai si meravigliava egli asserisse di essere un grande pittore e volesse che lo chiamassero conte (effettivamente era figlio naturale di un conte). Il suo male consisteva nell’idea fissa di essere perseguitato ma per il resto ragionava meglio di noi. L’altro personaggio del romanzo sorse da una fusione di me stesso con Martini e per altri accidenti, con un mio cugino che era anche pittore e amico di Rossi”.
Il ritrovare l’amico pittore malato e derelitto è quindi l’occasione della composizione, ma è indubbio che ad accendere la miccia per il nuovo romanzo si sia aggiunto a questo triste incontro anche un altro elemento della autobiografia comissiana.
L’ esperienza di Comisso sul fronte orientale durante la Grande Guerra era già stata ampiamente riversata nel bellissimo memoriale di Giorni di Guerra, fino ad allora – e forse tuttora – il suo libro più riuscito, un libro che, insieme a largo plauso, costò al suo autore anche l’accusa di disfattismo mossa dalla censura fascista, per la realistica descrizione della ritirata di Caporetto. A distanza di anni dalla redazione definitiva di Giorni di guerra, smaltita in fretta l’ubriacatura fiumana, era maturata nello scrittore una coscienza diversa: l’atteggiamento verso l’esperienza bellica si era fatto più lucido, scremato dell’entusiasmo vitalistico che aveva felicemente caratterizzato la sua opera del ’30. Ora sente la necessità di riguardare a quel tempo inebriato con uno sguardo meno ‘stagionale’ – per usare un’indovinata definizione di Contini – e più collettivo. La malattia mentale di Rossi, l’abbandono alla lucida follia di una mente che era stata geniale e potente, porta Comisso a riflettere sul destino di una generazione marchiata per sempre da quella tragedia – vissuta più o meno drammaticamente ma che tragedia epocale era stata –; quella generazione, la sua, a cui appartenevano anche i due straordinari talenti artistici del pittore Gino Rossi e dello scultore Arturo Martini. E nel raccontare le vicende dei due amici, partecipi di un evento che li travolge, le discussioni sulla teoria dell’arte, le difficoltà di conciliare la quotidianità della vita con gli ideali dell’estetica, l’isolamento artistico e l’incomprensione della critica, Comisso ritorna a scrivere sulla guerra le pagine più vibranti del romanzo, necessitato, parrebbe, da una memoria che non ha esaurito ma anzi riscoperto il proprio carico di sofferenza, obbligato a circostanziare il dramma della follia dell’amico Gino Rossi dentro un tempo luttuoso che sembrava già elaborato in Giorni di guerra.
Il romanzo, ritenuto da una certa critica non completamente riuscito a causa del suo sviluppo su un doppio binario poco caratterizzato – tagliente la recensione di Eugenio Montale sulla rivista Quadrivio nel 1936 “ una composizione da ‘via crucis’ a tavolette alternanti […] poco colore o poco brillante[…] un’assenza quasi incredibile di significati espliciti.”- resta quale testimonianza generazionale e cronaca di tempi angosciosi – impressionistiche le pagine sulla Treviso di guerra – e, insieme, omaggio a due straordinari talenti, amici e compagni: la coraggiosa resistenza per un’arte nuova, la frattura con il classicismo, il viaggio in Francia, il tempo di Burano e delle infinite discussioni sulla teoria dell’arte, la mostra dei rifiutati, segnarono una condivisione profonda di vita e di ideali tra Rossi e Martini, le cui biografie inverano, nei loro differenti destini, la predizione delle pagine di I due compagni.
Isabella Panfido