A volte mi pare di inventarmeli, i finali, così da poterli piangere – questa misura del tempo, che è un’invenzione dell’uomo, la pratico con la cura degli ossessi e la memoria dei romantici. Da gennaio a gennaio, da un compleanno all’altro, dalla partenza o dal ritorno di un viaggio – fisso ogni volta l’inizio di un percorso nuovo; e quando il giorno finisce, patisco la mia distanza da ognuno di questi punti e la consapevolezza che l’indomani sarà più ampia, poi più ampia, poi di più, e così fino alla fine dei tempi – del mio tempo, appunto.
E nel ricalcolo di questi percorsi, mi tocca fare i conti con la fine – della scuola, di un rapporto, di quel viaggio, di un’età, della mia presenza in un posto – e tutto finisce di nuovo ogni volta che si ricorda la fine di qualcosa.
E adesso che gli anni Dieci sono finiti – gli anni Dieci che sono stati i miei anni – adesso che stanno finendo – anche se non significa niente, perché gennaio sarà proprio come dicembre, che a sua volta è stato come novembre, perché gennaio e dicembre e novembre non esistono davvero – mi sono chiesto come verranno ricordati – che significa, in sostanza, come li racconteremo noi. Al di là della politica, dico; al di là delle guerre, dei crolli economici, di Messi e Ronaldo – cioè nei racconti di tutti, nel modo di vivere i giorni, nelle mode e negli umori. E io credo, davvero, che questo sarà ricordato come il decennio dei meme, perché il meme è stato lo strumento più universale per leggere il mondo come non si era mai fatto prima: un modo immediato, dissacrante e soprattutto accessibile a tutti sia nella sua fruizione che nella sua produzione.
Il meme è un capolavoro comunicativo, ed è figlio di un processo evolutivo che io ho visto nascere.
Alla fine del decennio scorso, quando Facebook era un posto molto più patetico di quello che è ora e gli utenti scrivevano gli stati in terza persona, c’erano i demotivational, che erano una sorta di progenesi del meme. Simili nella forma ma molto più grezzi, i demotivational sono andati via via scomparendo – come gli stati in terza persona – quando Facebook ha cominciato ad assumere un carattere più “serio” e quando, di fatto, gli utenti hanno iniziato a coglierne le reali potenzialità, che andavano ben oltre il proprio gruppetto di amici perduti e poi ritrovati. In sostanza, Facebook è cambiato quando sono cresciuti gli utenti che erano destinati a farlo diventare grande – quelli che oggi hanno pressappoco la mia età.
In questi anni, mi sono infatti reso conto che i contenuti in circolazione sulla piattaforma si rivolgono soprattutto a quella fetta di utenza, attraverso una serie di allusioni che spesso arrivano perfino a “tagliare fuori” la generazione successiva. Fino a qualche tempo fa, per esempio, i riferimenti all’università erano assai più scarsi di quanto non siano ora, ed era così per il semplice fatto che l’utenza media non era ancora arrivata a frequentare quegli ambienti. Quando Facebook è nato, l’università era l’idea del futuro – il nostro.
Qualche giorno fa, durante una discussione con una mia amica, mi è capitato di nominare Facebook, e lei ha detto: “Ma chi lo usa più, Facebook?”. E io le ho detto: “Ma tutti!” – però non ero molto convinto, perché è da un po’ che sento in giro questa storia. “Giuseppe”, ha sentenziato, “nessuno usa più Facebook”, e allora io ho preso il cellulare dalla tasca e le ho mostrato lo schermo: “guarda, solo in questo momento ho 140 amici online”. “Sì, ma non significa niente”, ha ribattuto. “E poi dipende, i tuoi amici che hanno cinquant’anni lo usano ancora, ma i ragazzi stanno tutti su Instagram”. Ho pensato che aveva ragione – e aveva ragione perché lo sapevo anche io, in fondo, di questa trasmigrazione da una piattaforma all’altra, così come so che l’età media dei miei contatti è più alta della sua e di quella dei miei coetanei.
E Instagram è bello, lo uso anch’io – si fa per dire; “perfino uno che non ce l’ha, lo usa più di te”, mi ha detto lei – ma in fondo perché dovrei voler vedere le foto allo specchio di persone che già conosco, o le storie – le “stories” – di un piatto di pasta, un hamburger, la casa coi parenti? Lo so che Instagram è il futuro (prossimo) – e che principalmente serve a rimorchiare, come tutti i social, come tutti i canali comunicativi, e che quindi in teoria i piatti di pasta te li devi vedere, e i “selfie” con gli amici e i libri brutti e i video sgranati in posti bui, e se sei furbo devi pure distribuire le tue “reaction”. Lo so ma non sono pronto – forse sono troppo vecchio, forse resterò su Facebook finché non sarà morto del tutto, tra i quarantenni e i cinquantenni, nella speranza che pure loro, finalmente, imparino ad usare Facebook.
Voglio dire, questo decennio sta finendo, e io non avevo mai avvertito la scadenza di un decennio vissuto con memoria e coscienza dall’inizio alla fine; e ora so che inizieranno gli anni Venti, e quando io dico “gli anni Venti”, penso alla Parigi del secolo scorso, a Hemingway e Fitzgerald, e adesso invece mi toccherà smettere, o almeno specificare – “gli anni Venti del secolo scorso”.
E anche Facebook sta finendo – e in questo momento, prima di svuotarsi del tutto, è ancora il luogo della mia generazione, di chi stava guardando la Melevisione quando crollarono le Torri Gemelle,
di chi pensa ancora che il 1970 sia trent’anni fa, di chi a inizio decennio si lamentava della scuola perché aveva sedici anni e poi è passato a lamentarsi dell’università perché ne aveva ventidue e ora invece si lamenta della realizzazione che arriva solo per gli altri perché ne ha ventisei, e siamo qui – ancora per poco – a raccontarcelo attraverso i meme.
Facebook, per la mia generazione, è stato anche un modo inedito di vivere la giovinezza, perché ci ha fatti sentire al centro del mondo, perché ci ha mostrato tutte le distanze possibili tra noi e i nostri genitori e i nostri nonni
(che non capiscono i meme, che non sanno riconoscere una bufala, che inoltrano i “buongiorno, caffè?”, che dicono di essere migliori di noi – come molti di noi, inevitabilmente, crederanno di essere migliori dei prossimi) e ci ha permesso di farci sentire uniti, di sentirci unici e partecipi di un tempo migliore (“ma che ne sanno i duemila?”, appunto).
Adesso che siamo cresciuti e che Facebook è (quasi) finito, mi auguro che ci abbia lasciato almeno questo: la consapevolezza di essere invece come tutti. La consapevolezza, insomma, di quanto siamo stupidi da adolescenti, sfacciati e presuntuosi da giovanissimi, disillusi e petulanti una volta cresciuti, patetici e seccanti da adulti, impacciati più tardi – la consapevolezza di queste cose perché le abbiamo viste, ne conserviamo gli screenshoot, ed è lo stesso dall’Italia alla Francia, in Australia o in India, certo ognuno a suo modo, ma tutti così. E spero che averlo visto sarà sufficiente per smettere di credere che prima si stava meglio, perché è da un po’ che è sempre il contrario; oggi si sta meglio di ieri ed è plausibile credere che domani si starà meglio di oggi.
Che lo crediate o no, si è chiuso il miglior decennio della storia dell’umanità. Della Storia – capito?
Sono dieci anni più grande di quando questo decennio è iniziato. È tautologico, lo so. E allora?
Mi accompagna l’immagine dei miei amici cresciuti – con me, come me o diversamente da me – e mi invecchia e mi commuove come un addio.
E torno indietro al decennio scorso, quand’ero bambino e la birra era una concessione di mamma, mentre adesso la beviamo senza nemmeno guardarci, come il caffè, e intanto pensiamo che ci aspettano i doveri dei grandi, che ci aspetta una casa in cui abitiamo lontani da casa, ora che viviamo le attese alle casse e alla posta come gli adulti perché siamo adulti, ed è da tanto che abbiamo smesso di pensare alle auto come a un favore di papà. Io non guido, ma immagino che per gli altri sia così.
Io non so cosa saranno gli anni Venti – se saranno “qualcosa”. Se il futuro sarà su Instagram, o su una piattaforma che ancora non c’è, o magari non sarà su internet perché perfino internet sarà superato. O magari tornerà in voga Facebook, e noi trentacinquenni spiegheremo ai sedicenni come si usa veramente. Non provo nemmeno ad avanzare un’ipotesi.
Per quanto mi riguarda, so che continuerò a fissare altri punti da cui potermi voltare, che avrò una buona ragione per sentirmi invecchiato quando la giovinezza sarà finita per davvero, che continuerò a misurare il passato ma non per saperlo migliore – per saperlo, semplicemente.
Giuseppe Del Core
Biografia. Nato a Bari il 27 maggio 1995. Laureato in Lettere Moderne nel 2018 presso l’Università degli Studi di Bari. Attualmente studente di Filologia Moderna presso l’Università La Sapienza di Roma. Ho pubblicato per Corrimano nel 2019 (in una raccolta dal titolo “Dipinto da entrambi i lati”) e per Effe. Scrivo articoli di critica letteraria per Flanerì. Ho vinto il Comisso 15 righe.