In letteratura esiste una figura retorica chiamata ekphrasis il cui scopo è restituire al lettore un’immagine vivida di un luogo o di un’opera d’arte figurativa attraverso una descrizione minuziosa, approfondita, poetica.
Non si tratta di semplice trasposizione da un mezzo espressivo a un altro: alla base di tutto vi è, infatti, una profonda fiducia nella capacità della parola di farsi immagine nella mente del lettore, riproducendo l’atto creativo originario.
L’ekphrasis è il segno tangibile dell’amore fecondo della letteratura per l’arte e dell’arte per la letteratura.
Dall’amore tra le arti all’amore tra gli uomini: Guardami negli occhi (Feltrinelli, 2017) del giovane scrittore veneziano Giovanni Montanaro prova a figurare il sentimento che lega Raffaello Sanzio alla misteriosa Fornarina, protagonista di uno dei suoi più celebri dipinti.
Giorgio Vasari nelle Vite aveva scritto di una donna che «Raffaello amò sino alla morte» e della quale «fece un ritratto che sembrava viva viva». Il romanzo di Montanaro sembra nascere proprio da qui.
In Tutti i colori del mondo (Feltrinelli, 2012) hai scritto di Van Gogh, del suo difficile rapporto con i colori e con l’esistenza e del suo piccolo, grande «miracolo»; tutto ciò attraverso le parole struggenti e amare della protagonista Teresa Senzasogni, che lo ama senza riserve.
In Guardami negli occhi a parlare di amori che «non sanno finire» e dell’arte – similmente senza tempo – di Raffaello è invece proprio la Fornarina del famoso dipinto. Come hai vissuto questo nuovo incontro d’amore tra arte figurativa e letteratura nel tuo percorso letterario?
Senza cercarlo. Ho tante storie in testa, stanno anni a maturare. Prima di scrivere questo romanzo, andavo in un’altra direzione, verso Venezia, la mia adolescenza. Ma poi è vero che mi nutro di arte, che i destini di uomini grandi come Raffaello sempre mi appassionano, mi piace riscoprirli umani, coi loro difetti. Una volta che sono tornato a Roma, ho deciso di andarmi a rivedere la Fornarina a Palazzo Barberini, perché è un dipinto che mi è sempre piaciuto, senza sapere perché.
Tornato in hotel, ho deciso di mettermi a studiarla, per scoprire qualcosa di più. Subito, sullo smartphone, ho trovato degli studi inglesi che mi hanno fatto scoprire quel che hanno rivelato i più recenti restauri.
La Fornarina porta al dito un piccolo anello, che era stato cancellato ed è tornato fuori da solo. Quel dipinto aveva una storia straordinaria, di un amore nascosto, da proteggere. Ho capito subito che quello sarebbe stato il mio prossimo romanzo.
Avrei fatto parlare un’altra donna, dopo Teresa, un’altra che fosse non la testimone di un grande artista, ma la protagonista di un grande amore.È che Ghita, la Fornarina, rispetto a Teresa, è tutta diversa; è forte, ha superato tante prove, ha un amore con Raffaello che diventa carne, che si complica, che si fa verità. È per quello che amo quel dipinto. Lei non è particolarmente bella, non è la donna più bella del mondo; è la donna che lui ama, con tutte le sue imperfezioni.
Un altro elemento che accomuna i due romanzi mi pare essere il vento. Il vento che accompagna la nascita di Teresa Senzasogni nelle prime pagine di Tutti i colori del mondo irrompe bruscamente sul finire di Guardami negli occhi, come a reclamare qualcosa.
Mi torna alla mente, per certi versi, il vento occidentale di Shelley, distruttivo e vivificante al tempo stesso. Che cosa rappresenta per te, Giovanni, il vento?
Io amo il vento, la pioggia, tutto quello che mette vicini il cielo e la terra, che pare che comunichino, che ci fa salire. Vorrei che i miei romanzi fossero pieni di vento, che non si risolvessero quaggiù, che avessero qualcosa di universale, di vero, qualcosa che fa salire, qualcosa che scompiglia, che cerchi le cose grandi della vita.
Mi sembra tu abbia insistito molto nel romanzo per rendere Ghita, la Fornarina, una presenza viva e sensuale, che il lettore potesse quasi toccare con mano.
Ti soffermi a lungo a descrivere la fisicità dei corpi, la furia del desiderio. Parli anche però di «purezza»: la purezza è quella «forza potente» che Ghita scorge negli occhi di Raffaello quando ne intercetta lo sguardo. Anche il dipinto originale della Fornarina, del resto, parla di passione e di purezza a chi lo osserva. Puoi dire qualcosa di più a riguardo?
Quel dipinto davvero rappresenta l’amore. È forse l’unico dipinto di Raffaello che non aveva committenza, che lui aveva fatto per sé, per loro due. Per questo è così bello. Non doveva vederlo nessuno. Era per loro. È come quella foto in cui siamo venuti bene; non è che siamo vestiti alla moda, o siamo pettinati perfetti, è che abbiamo qualcosa, l’anima sul viso.
Ed è per questo che quel dipinto, che questa storia contiene il bello dell’amore. Perché c’è la passione, il desiderio, ma anche la purezza, la pulizia. Mi ricordo quando ero adolescente, quando ho trovato la prima fidanzata con la quale, dopo aver fatto l’amore, non sentivo nessun desiderio di allontanarmi, perché mi sentivo a casa, puro. Ecco, quell’amore mi dà la stessa sensazione che ho provato da ragazzo.
Fermi restando gli elementi d’invenzione, necessari alla narrazione, in tutti e due i romanzi si avverte la presenza di un meticoloso lavoro di ricerca storica. Trovo che in entrambi ci sia equilibrio tra finzione e ricostruzione, attenzione affinché l’una non invada lo spazio dell’altra, rispetto per le proporzioni.
Tornando alle finzioni, però, Nabokov sosteneva che lo scrittore in fondo non è che «un grande imbroglione»: alla letteratura è concesso servirsi di menzogne per fare emergere la propria verità. Secondo te, fino a che punto lo scrittore è libero di costruire sui fatti a proprio piacimento senza essere oggetto di critica da parte dell’etica?
Direi che è sempre valido il paradigma del verosimile, alla Manzoni. Io credo che compito dello scrittore sia di essere onesto. Il lettore non si imbroglia, il lettore lo capisce. Solo se c’è una base di verosimile, allora la fantasia è lecita, allora l’invenzione è necessaria. Prima di scrivere io studio moltissimo, attendo, ristudio, verifico le cose che ricordo e che ho appuntato. Ho bisogno di sapere tutto quello che la mia storia ha intorno, per scriverla. Vale per le ambientazioni storiche, ma anche per quelle contemporanee.
Prima di scrivere, bisogna accatastare fascine e fascine, perché il fuoco venga grosso, duri. Poi, si parte, ed è una fiamma, e brucia tutto, e si vedono cose tutte diverse, ma tutto viene da quel legno, che quasi non si vede.
Vorrei concludere ponendo una domanda anche all’altra parte di te, all’avvocato. In base alla tua esperienza e al tuo sentire, pensi possa esistere una qualche analogia tra il mestiere di avvocato e l’attività di scrittore, nel momento in cui si tratta di ricostruire fatti e avvenimenti piegandoli secondo determinate esigenze?
Sono anni che mi interrogo su queste due metà della mia vita. Credo di avere capito che, in fondo, tutte e due hanno qualcosa in comune.
E non è la mistificazione o la falsificazione dei fatti. Piuttosto, è la rappresentanza, il fatto che a me viene affidata la responsabilità di raccontare la storia di altri.
I propri clienti o i propri personaggi, in fondo, hanno esigenze anche simili.
Hanno bisogno di te, solo tu puoi riuscire a dare loro quanto spetta, a mettere in ordine i fatti che stanno alla base di quel che loro ti chiedono.