Volfango Goethe, quando arrivò dal pigro settentrione a Vicenza, trovò nelle varie accademie palladiane della città che questi italiani discutevano serenamente se la fantasia poteva ispirare la realtà più che ogni altra forma di pensiero. Oggi sembra di essere come allora e tra la stessa civiltà, se in un paese come San Polo di Piave si discute sulla influenza delle spezie nella cucina regionale e di questa su quella nazionale.
Il luogo era bellissimo con vecchie case come in Francia per iniziarvi subito un romanzo e verde nuovissimo e tenero. I gamberi erano assunti a piatto onorabile fuori dalla limpidissima acqua di una sorgente che affiorava a un prato. Dicono che altre volte vengono importati dalle buie grotte di Postumia, ma fuori dalle pentole dove sono stati a bollire sono ugualmente grossi e compatti nelle rosse armature. Non è un cibo che si possa trovare dovunque: bisogna ordinario, cioè farlo venire, e anche quando è pronto non si sa come mangiarlo. Si mordono i gusci e una volta penetrati si scopre che contengono il vuoto. II gambero è buono e assaporabile come sugo che possa condire un risotto.
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A questo si pensava vedendo la vasta folla dei commensali ragionanti, e ci si accorgeva che era una folla d’altri tempi, suscitata da certi mangioni venuti dai lembi estremi della penisola. Non sapevamo dove si fossero visti altre volte: erano i componenti di una vera Italia, memorabili, muniti di una pappagorgia encomiabile.
Essenzialmente eleganti, con stoffe di bella scelta nel colore, mentre la forma era quella dei grassoni, come solo poteva essere. Avevano scarpe snelle come un colpo di pennello, di un cuoio rispettabile, e su di esse il corpo I esuberante poteva bilanciarsi ritmicamente. Subito, mentre giravano da una tavola all’altra, ci si accorse di averli visti ad altre trattorie o per stretti corridoi di un treno che li sbilanciava, appoggiandoli da una parte all’altra, mentre camminavano a piccoli passi.
Il pranzo assunse alla presenza di costoro un altro aspetto. Erano essi gli ideatori pietanze famose, di trattorie con i profumi rintanati negli angoli, di lieti conversari, di un saper narrare fiorito di immagini segnalabile o vago, I tutto un vivere che partene dalla cucina può arrivare al poesia e alla certezza della felicità seduti a una tavola. Che importa se erano i grassoni dalle larghe spalle, dal grande volto ovale, dalla piccola statura e dalle corte braccia? Erano costoro che garantivano l’Italia floreale e lieta. Nessuno di questi sarebbe finito nello Stato Maggiore, tutti avrebbe avuto bisogno di una partecipazione con il proprio fisico rappresentato evidente. I grassoni non avrebbero potuto viaggiare in aereo o spostarsi da un orizzonte all’altro. I loro movimenti erano consapevoli di una dinamica ragionata. Ogni loro idea era basata sulle dimensioni del loro corpo, ma non legata a queste, così che per un grassone avere un’idea propria era assurdo.
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Li osservavamo mentre si spostavano da una parte all’altra della tavola, irrequieti mentre risorgevano in noi le immagini di altri tempi: ingrassavano perché si purificavano alla cura d’acque. Erano emblemi di una trattoria e de suo mangiare e più ancora del cuoco; facevano pensare a qualche cliente seduto solo e intento a mangiare come un grande bruco su cumuli di tenere foglie. Alcuni anni erano bastati per cambiare l’aspetto di locali e di vivande. Sembrava di avere vissuto attraverso una malattia per finire in un mangiare diverso e con altri sistemi. Una rivoluzione forse era scoppiata tra di noi e non ce ne eravamo accorti: bisogna essere snelli come i cittadini di quei popoli impegnati a vincere una partita domani o dopodomani.
I nostri grassoni non saranno mai uomini da salto e che possano fare del male. Questa è la vera Italia: trovare, su piccole sedie, corpi sovrabbondanti e amabili sorrisi.
Giovanni Comisso
Il Gazzettino 19 maggio 1967