“I brevissimi” di Antonio G. Bortoluzzi sono stati pubblicati per la prima volta dall’Insolita Storia Pop Bar di Belluno, in collaborazione con Ezio Franceschini, nelle antologie collettive “Storie minime bellunesi” tra il 2013 e il 2023.
Tonìn e la perùsola
Tonìn aveva cinque anni e sapeva che al mondo c’erano i bambini e le bambine: i primi avevano i capelli rasati e le seconde le trecce. Il giorno in cui il mondo cambiò, sua madre gli disse che sarebbero andati da zia Maria a vedere la piccola. Era sempre bello quando nasceva qualcuno nella valle: un vitello, un agnello, un bambino. Quando arrivarono al borgo ed entrarono in casa, tutti erano felici e guardavano zia Maria che stava armeggiando sul tavolo della cucina dove c’era un corpicino. Tonìn si alzò in punta di piedi e osservò le gambe magre e le babbucce a uncinetto ai piedi. La zia, con una presa alle caviglie, alzò le gambette, come si faceva con i conigli prima di dare il colpo alla nuca. E Tonìn vide. Vide che lì in mezzo non c’era niente e sentì tra le gambe un fastidio come di fil di ferro che s’infila sottopelle.
“Mai vista la perùsola?” Lo canzonò suo zio.
Sua madre gli diede uno scappellotto e Tonìn sentì il rossore della vergogna e le risate grasse. Osservò a lungo la punta dei suoi scarponi, ma non era lì che voleva davvero guardare.
Cane nero
Il ragazzino non aveva mai avuto un cane. Aveva un maiale, sette galline, undici conigli e due vacche.
– Il cane è il miglior amico dell’uomo – disse una mattina alla madre.
Lei si girò dal lavello di pietra e lui continuò. – Hai visto Rin-Tin-Tin e Lassie, no? Loro salvano i bambini.
La madre riprese a strofinare la pentola d’alluminio. – Guardi troppa televisione. E meno male che non vuoi un cavallo. C’è anche Furia, no?
Il suo vicino di casa, Nino Bue, aveva un cane nero che teneva alla catena. Certo, non era come i cani della tivù, aveva il pelo impolverato e puzzava come una carogna. Al ragazzino però piaceva lo stesso, sembrava un lupo della prateria, ma nero.
L’incidente successe a Natale, quando ammazzarono il maiale e il ragazzino prese di nascosto le sbèteghe e le portò al suo amico cane. Era bello vederlo saltare e afferrare con gli incisivi i pezzi di carne scarta che lui gli porgeva.
– Cosa fai? – urlò sua madre.
Lui si voltò nel momento in cui il cane balzava a mordere la sbètega. E la sua gola.
La donna urlò e corse e pulì la ferita con il fazzoletto. Erano solo due graffi profondi, non gravi. – Sei un ebete! – disse la madre.
Arrivarono anche gli uomini che facevano i salami con Nino Bue.
– Adesso l’ammazzo! – gridò il padrone del cane trascinandolo fuori dalla cuccia e prendendolo a calci con gli scarponi.
– È solo colpa mia. È solo colpa mia – urlava il ragazzino.
Avrebbe scambiato la vita di quel cane con la vita di tutta quella gente pazza. E con quella di sua madre.
Panàda
Entrò con sua madre nella cucina affollata di parenti e odorosa di fumo e cibo.
– Sedetevi – disse loro la vecchia zia.
Il ragazzino pensò avrebbe servito minestra e fagioli, non ci andava pazzo. Quando vide arrivare le fondine stracolme e bollenti capì che era ben peggio: era panàda, la brodaglia di pane vecchio, acqua, olio e chissà quale altro avanzo.
I parenti erano felici e parlavano di lavori, bevevano vino e soffiavano sulle fondine, anche i cugini. Sua madre sapeva che lui non sarebbe riuscito a mangiare quella roba: sì il fegato, le s’ciosèle, le cervella della manza, i sanguinacci di maiale, sì a tutto, ma non alla panàda che era come la sbobba che mangiava il maiale.
Alle sue spalle arrivò veloce la zia, ruppe l’uovo crudo sopra la zuppa bollente e quel grande occhio arancione sbiancò ai bordi. E iniziò a fissarlo, cattivo come Polifemo.
Sua madre, senza guardarlo, mormorò – Màgna e tàsi.
Pensò ai sofficini che vedeva in tivù: se ci piantavi la forchetta di traverso loro sorridevano pieni di formaggio dolce. E capì che quella sarebbe stata una bella vita da bambini, non la sua.
Ovomaltina
Franco e Ilario mi hanno chiamato dalla terrazza mentre aspettavo il pulmino della scuola perché dovevano farmi vedere una cosa.
Sul tavolo c’erano due belle tazze color arancione della Ovomaltina, con i loro nomi. C’era scritto proprio Franco e Ilario. Io non credevo che la fabbrica dell’Ovomaltina sapesse chi erano i miei cugini di Via Al Lago, a Puos d’Alpago, Belluno.
Quando sono andati in bagno a lavarsi la faccia ho grattato con l’unghia per vedere se la scritta l’avevano fatta loro con il pennarello nero, per farmi uno scherzo.
E invece la scritta era vera.
Io facevo sempre colazione con l’orzo e odiavo le palline nere che non si scioglievano e in bocca lasciavano l’amaro della polvere. E avrei voluto avere il mio nome da qualche parte per sempre e ho cominciato a desiderarlo forte, sempre più forte.
Poi ho ricordato le lapidi in cimitero. C’erano bambini come me. Ho recitato subito due Padre Nostro per cancellare lo stupido desiderio di prima.
Due Padre Nostro dovevano valere più di un desiderio.
Io, Pietro e l’angelo
Siamo arrivati in città, in piazza, con la macchina e mio padre e mia madre sono saliti dagli zii. Io sono rimasto in strada con i miei cugini: Vilma è una bambina bella, Pietro ha dei problemi, così dicono.
È arrivato un piccoletto: denti dritti, scarpe lucide, culo grosso, faccia da sbruffone. Ha iniziato a spingere Pietro e a fare eeeh per imitarlo.
– Sei un vigliacco! – ha gridato Vilma.
Mi sono fatto avanti e l’ho preso per il collo e ho stretto fino a quando si è inginocchiato a terra.
Sono tornato da Vilma, mi ha guardato ammirata. Poi ho sentito un colpo forte in testa, mi si sono piegate le gambe e sono caduto lungo disteso.
Ho aperto gli occhi nel sole del pomeriggio e ho visto il piccoletto correre via e agitare in aria la scarpa con cui mi aveva colpito in testa. Gli amici lo aspettavano all’angolo.
Pietro stava scavando intorno a un blocchetto di porfido con uno stecco. Ho guardato l’angelo sul campanile del duomo, ho pensato che a tutti può servire un angelo custode, ma non se sta così in alto
Io e Silvana
Mio fratello e Nicola stavano dentro la Fiat 128 gialla a fumare. Io sono arrivato in bici e mi hanno fatto cenno di avvicinarmi. Ho infilato la testa nell’abitacolo. Avevano un piccolo registratore. Nicola ha premuto play e ho sentito gridolini, risate e fiatoni. Oh, oh, ah.
– Chi sono? – Ho chiesto.
– Io e tua cugina Silvana – ha risposto Nicola.
Mi fratello ha iniziato a ridere come se fossero in sette a fargli il solletico.
Silvana era uguale a Katiuscia dei fotoromanzi. Talmente bella che la sera, quando m’immaginavo d’averla vicino, non riuscivo più a prender sonno. E i due vermi schifosi ridevano buttando indietro la testa e dandosi di gomito.
Una settimana dopo mio fratello mi ha detto che in quella cassetta c’era davvero Nicola, ma era stato lui a fare i gridolini, non Silvana.
Gli ho sputato in faccia e lui mi ha picchiato. Non m’importava delle botte. Non m’importava più di niente perché avevo già detto a Silvana quel che pensavo di lei: era solo una gran vacca, come tutte quelle dei fotoromanzi.
Allinam
Allinam non era una parola normale, ma un triste destino. E c’entrava con il prelievo del sangue, il mio: ero un bambino malato. In verità mi sentivo bene, correvo su e giù per i prati ripidi con gli altri del borgo, ma un certo giorno, a sei anni, risultò che ero malato, per via della “velocità del sangue”.
E allora, la mattina prestabilita, mi dovevo alzare prestissimo, fuori di casa a digiuno e poi giù a piedi per alcuni chilometri, quindi in corriera con mia madre fino a Belluno. Quando arrivavamo Allinam, il grattacielo dove torturavano i bambini pagòt, ero stordito, instabile sulle gambe e forse avevano ragione i medici: non mi restava molto da vivere.
Dopo il laccio emostatico, la siringa e l’ago maledetto la tortura finiva, e mia madre mi trascinava al bar lì vicino: cappuccino e due brioches. Piano piano mi tornavano le forze e una speranza, forse avrei visto ancora una volta la casa, la stalla, i prati. E avrei giocato nella ròsta coi girini vispi e lisci che solleticavano il palmo della mano. E non facevano del male come all’Inam, l’Istituto nazionale assistenza malattie di Belluno.
Piccole prove di lontananza
Sua figlia le telefonò e le disse che aveva trovato un appartamento quasi decente poco lontano dall’università.
Lei pensò agli anni, ai figli e al momento più lontano della sua vita in cui erano iniziate le prime prove di lontananza; aveva sei anni e le piaceva fare una cosa di cui aveva paura: quando pioveva sgattaiolava di casa, saliva nell’auto di suo padre parcheggiata in strada, ascoltava la pioggia e osservava il mondo deformato oltre il parabrezza sferzato dall’acqua. E stava lì, a lungo, da sola: era vicina e allo stesso tempo lontana da casa. E questo le dava una leggera ebbrezza.
Poi udiva la voce di sua madre che la chiamava, adirata e preoccupata. Allora scendeva dall’auto e correva alla porta d’entrata di casa, coi capelli bagnati.
Dopo tanti anni, si sentiva ancora dentro quell’acqua impetuosa delle piccole prove di lontananza, anche se sua madre non c’era più e sua figlia era quasi una donna.
Antonio G. Bortoluzzi è nato nel 1965 in Alpago, Belluno, dove tuttora vive. Finalista per due volte (2008 e 2010) al premio Italo Calvino, nel 2010 ha pubblicato “Cronache dalla valle”, nel 2013 “Vita e morte della montagna”, nel 2015 “Paesi alti”, con cui ha vinto il premio Gambrinus-Giuseppe Mazzotti nella sezione Montagna, cultura e civiltà ed è stato finalista al premio della Montagna Cortina d’Ampezzo e al premio letterario del Cai Leggimontagna; i tre romanzi, pubblicati da Edizioni Biblioteca dell’Immagine, sono raccolti nell’antologia dal titolo “Montagna madre, trilogia del Novecento” (2022). Con Marsilio Editori ha pubblicato nel 2019 il romanzo “Come si fanno le cose”, da cui è stata tratta l’omonima commedia teatrale e nel 2023 “Il saldatore del Vajont”, con cui ha vinto il Premio Coop Alleanza 3.0 della Giuria dei lettori del Premio Latisana per il Nordest 2024. È membro accademico del Gruppo italiano scrittori di montagna (Gism) e suoi articoli sono pubblicati su riviste nazionali e sulle pagine culturali dei quotidiani del Nordest.
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Antonio G. Bortoluzzi – Alpago, una sosta abusiva a mille metri, e sempre in attesa della neve (fonte: Facebook)