Macao, marzo.
Riprendiamo il viaggio in compagnia di Giovanni Comisso. Dopo aver visitato a Canton il tempio in cui Marco Polo è divinizzato, ci imbarchiamo su d’un battello a vapore alla volta di Macao…
Si lascia la rada di Hong-Kong su d’un battello a vapore. Sotto, la seconda e la terza classe sono gremite infernalmente di Cinesi.
Nella penombra i volti lividi e gli sguardi obliqui fanno pensare a penitenziari o a ricoveri notturni di senza tetto.
Di sopra, sul ponte di prima, sedie a sdraio, folla europea elegante, Portoghesi e Inglesi e qualche donnina cinese chiusa nella sua cappa di seta. Il fumo nero esce dalla ciminiera e si prolunga nel cielo mattutino sopra al mare verdastro, tutto cosparso di piccole isole montane e deserte.
Precauzioni opportune
Dopo qualche passo ci s’accorge che il boccaporto delle macchine è circondato da un’alta gabbia di ferro come per racchiudere una bestia feroce. Anche il ponte di comando è sbarrato da cancellate di ferro e dietro alla porta d’ingresso c’è una guardia, malabarese che spia chiunque passi vicino. Sono le misure di sicurezza contro i pirati.
Costoro potrebbero essere a bordo come passeggeri di terza classe e ad un momento convenuto potrebbero salire sul ponte, intimarci la borsa o la vita, e poi filarsene a terra a mezzo di giunche complici nella faccenda. Un grato odore di cucina invece continuò a salire da un altro boccaporto durante tutto il tragitto.
Le montagne nelle isole si elevano brulle, secondo una forma costante: un picco elevato e due minori laterali.
Più avanti il mare diviene, terroso: tutti i fiumi del Kuang-tung si riversano in questo punto. Incrociamo con grandi mute di giunche dalle vele bislacche. Infine vediamo biancheggiare sulla costa le case di Macao.
I Portoghesi ebbero questa terra in dono dall’ imperatore, nel 1577, per averlo aiutato a scacciare da Canton il corsaro cinese Chang-So-Lao. Questa Colonia fu importantissima base di penetrazione religiosa in Cina e fino al secolo scorso anche importantissimo centro commerciale. Il sorgere di Hong-Kong e l’impiego delle navi a grande pescaggio ne decretarono la fine. Il porto, già poco profondo, fini coll’ostruirsi di melma portata giù dai grandi fiumi.
Vicina così a morire, Macao ha tentato la risoluzione disperata di costruirsi un porto adatto alle navi moderne, tra le prospicienti isole di Taipa e Coloane, pure portoghesi. Il lavoro enorme, di spesa fortissima, è stato assunto da una impresa olandese. In quindici minuti d’automobile si fa tutto il giro della Colonia; spinti da tale ristrettezza, i Portoghesi hanno pensato di conquistare terreno al mare: altri lavori di interro sono già stati eseguiti e sopra vi hanno costruito nitidi gruppi di case popolari.
Tali opere dimostrano tutta una buona volontà di rinascere, da parte di questi prodi Portoghesi che tanta simpatia hanno per l’Italia. Il Portogallo non ha questi grandi prodotti e queste grandi merci da esportare nel sud della Cina, facendo base a Macao. Sicché ottimi e intraprendenti commercianti portoghesi, qui, sono costretti a impiegare l’antico vigore nel rappresentare ditte straniere.
La città delle bische
Oltre che dal nuovo porto, è attesa una maggiore ripresa commerciale dal recente allacciamento col retroterra cinese a mezzo di una strada automobilistica che finora va sino a Sian-kei, a sessanta chilometri di distanza.
La città ha il suo immancabile aspetto cinese su cui s’innesta tutto un placido e grazioso sapore di Portogallo, materiato qua e là nel bianco e celestino delle case, nello stile dei palazzi pubblici con finali sul frontone e logge.
Il porto ad occidente è fitto di grosse giunche da commercio e di altre da pesca con le loro reti al sole. All’arrivo del battello la folla si accalca sul molo, i «coolies» con le loro carrozzelle invitano a salire. Frastuono di voci e colpi vibranti di grossi «gongs» che precedono un corteo di portantine fiorite, fiancheggiate da portatori di grandi lanternoni di carta. E’ uno sposalizio che passa.
Macao ha grande fama nelle cronache del giuoco. Certi Cinesi, generali ribelli sopraffatti, ricchi lestofanti amministrativi, agitatori politici, giubilati desiderosi di pacevengono qui a godersi la vita, passando, magari alla, stessa tavola, intere le notti a giuocare a «magiong» e a gozzovigliare sfrenatamente.
E’ pregna di bische. Ve ne sono di losche dall’aspetto di macellerie: pareti nude e luride. Un banco massiccio sopraelevato, attorno la folla. Sul banco mangiano e giuocano.
In piedi, illuminati da lampade ad acetilene appese alle pareti, tre o quattro Cinesi, lustri in volto e imperturbabili come giudici, dirigono il giuoco.
Ai loro lati un aiutante prende una manciata di dischetti di ottone e subito li copre con una coppa. I giuocatori devono indovinare, togliendo i dischetti a quattro alla volta, se ne rimangono tre, due od uno. Il giuoco si chiama «fantan».
Ho visto «coolies» perdere il frutto d’una giornata dato dalle loro gambe e altri andarsene con un guadagno di più di mille lire; in entrambi i casi non c’era segno d’emozione sul voltò giallo come ossa dissotterrate.
Le bische di lusso hanno luci, decori e gente migliore, ma il sistema è lo stesso. Altro giuoco che infuria è quello della «colomba volante», una specie di tombola. Ad ogni passo vi sono sgabuzzini con le cartelle esposte; bambini, uomini, donne giovani e vecchie, tutta la città giuoca, e quattro o cinque volte al giorno si fa l’estrazione. Questa passione per il giuoco è come un gorgo creato dalla ristrettezza della vita nella piccola Colonia.
Folclore cinese
Usciamo da Macao per la vecchia porta del Cerco, guardata da truppe negre del Mozambico. Di qui parte la strada che va a Sian-kei. E’ stata costruita da un consorzio cinese senza bisogno di ingegneri e si dimostra ottima. E’ percorsa da un servizio regolare di autobus. Al di là ci si trova finalmente in territorio cinese governato da Cinesi.
Breve sosta davanti alla Dogana internazionale e poi si fila verso la terra attesa che nel pomeriggio brumoso si presenta magnificamente intonata. Ecco i campicelli dei coltivatori di riso, il contadino ara col suo bufalo lento; lontano i monti sfumano nella nuvolaglia; s’incontrano uomini frettolosi che portano a bilancere delle ceste, camminano sull’orlo della strada, senza osservare. Si passa tra colline sparse di tombe dalla sagoma uniforme a ferro di cavallo.
Poi subito la prima cittadina cinese: Chien-shan- cai, cinta di basse mura merlate, da cui spuntano i tetti a punta delle piccole case. Antica città i cui mandarini un tempo hanno dato molto filo da torcere a Macao. Ora pare deserta. Campi minuti, terreno lavorato dovunque; di tanto in tanto, tra i colli che s’alzano isolati dal piano, il fumo di altri villaggi.
E appena alcuni bellissimi cosidetti alberi della pagoda formano un boschetto, ecco subito come un pergolato in muratura, un luogo di riposo e di meditazione inalzato alla memoria di Sun-Yat-Sen.
Siamo nella sua terra natale. Altrove solitari, improvvisi e armoniosi si alzano fusi con la natura a due a due archi di pietra grigia in memoria di personaggi illustri e benefici. Poi ancora villaggi. E lungo la strada sempre gruppi di donne dai cappelli a larghe tese che lavorano a trasportare la terra rossastra. Giovani, e vecchie si sentono stridere animose. Le montagne confondono i propri contorni nella bruma diffusa come per un effetto di pennello che lasci assorbire il colore dalla carta.
Campicelli lavorati, piccola, minuta proprietà. Ognuno conosce i propri senza bisogno di segni divisori in forza d’una profonda fiducia reciproca.
Il Governo cinese ha tentato di compilare un catasto, ma ha dovuto desistere di fronte alla congiura del silenzio dei proprietari. La grande proprietà esiste senz’essere eccessiva.
La casa di Sun-Yat-Sen
Ecco Cioi-hang, dove da poveri contadini nacque Sun-Yat-Sen: l’uomo che ha dato nuovi destini alla Cina. La sua casa è all’ingresso del villaggio, è d’un discreto stile europeo; se la costruì di ritorno dall’esilio. Dentro v’è un altare alla memoria sua e del suoi avi che occupa tutta l’altezza della casa.
Una donnetta ne è la custode e viene ad offrire il tradizionale tè; una bambinella linfatica e timorosa ci viene indicata come una nipote di Sun. Vi sono fotografie alle pareti, l’ambiente è umido e non suggestivo. Fuori un magnifico gruppo d’alberi della pagoda, dal grosso ceppo che si ramifica ampio e glorioso, con scanni in pietra nell’ombra, fa pensare d’aver accolto le prime meditazioni del rivoluzionario giovanetto nel riposo dal lavoro del campi. Il villaggio ha tutte giuste e salde casette di mattoni; una calle selciata di grosse pietre l’attraversa.
Pare che non vi sia nessuno, i contadini stanno a mangiare chiusi nelle loro case. Ogni porta ha un cancelletto con delicati intarsi agli stipiti. Un giardino con una balaustrata di ceramica verde, più in là una piazzetta col Tempio degli Avi.
Una testa si scopre timida a spiare: è il ragazzo che ha le chiavi del tempio. Il locale serve anche da scuola. Vi sono i banchi e una lavagna, in altro posto alcuni attrezzi per la ginnastica e pochi strumenti di una banda.
Grandi lanterne di carta pendono senza luce. Silenzio.
Poi nel ripassare tra le case una porta s’è socchiusa e attorno alla tavola si vedono bocche avide di fanciulli curvi sulla scodella, che a colpi di bacchettine si riempiono di riso bianchissimo.
Di ritorno a Macao l’acqua giallastra del porto è ferma ed opaca, tutta disseminata di giunche ancorate e di piccole barche in movimento. Le isole lontane rientrano nel cielo di cenere e davanti ad ogni porta s’accendono le grandi lanterne.
Giovanni Comisso
Pubblicato sul Corriere della Sera il 13 aprile 1930