È difficile inserire il mio amico Leo Longanesi nella storia d’Italia, eppure vi appartiene. Il piccolo Leo, intelligente e bizzarro piaceva agli uomini del fascismo, ai gerarchi, a questi uomini che si sentivano grandi, a cominciare da Mussolini, piaceva seguendo il gusto dei principotti medioevali italiani verso i loro nani di Corte. Nello stesso tempo, siccome sembrava un ragazzino, faceva a loro presumere di essere in un’epoca eccezionale di fanciulli prodigio.
Piaceva a Mussolini, perché ridicoleggiava gli uomini con i baffi che usavano ancora la retina reggibaffi. Ad altri che erano stati i suoi compagni di scuola perché manteneva vivo un certo spirito goliardo, mentre essi si sentivano sacrificati all’austerità di una carica.
Se si potesse raccogliere un epistolario di Longanesi con le relative lettere degli altri a lui ne uscirebbe una magnifica documentazione del carattere degli italiani durante il fascismo.
Gli feci vedere alcune fotografie che avevo portato dal Giappone, di quei lottatori rimpinzati di riso e di gemme di bambù; subito le volle, perché gli andavano benissimo per colpire quei gerarconi ugualmente deformi. Una sera con lui e con amici a Bologna, venne la notizia che era morto il dittatore spagnolo Primo de Rivera. Volle fare un discorso, lo alzammo sul basamento di un pilastro sotto i portici ed egli alzando il pollice disse solamente: ”E uno…”.
Dirigeva l’Italiano da lui denominato: “Foglio della rivoluzione fascista”, Ma il suo fascismo era soprattutto una rivoluzione contro il cattivo gusto nel parlare, nello scrivere, nel pensare, nel gestire e finiva per diventare il serpente che si mangia la coda. Quando a Roma si fece la mostra del fascismo, gli affidarono la sala dedicata a Mussolini e cercò con vecchie fotografie e vecchi documenti di fare di quello un uomo semplice, comune e senza aureola. Subito coloro che avevano posti di fiducia nel regime per avere assunto come segretaria qualche donnetta amante passeggera di Mussolini, gli rimproverarono di non avere rappresentato l’uomo come trascinatore di folla.
Pure essendo romagnolo di Lugo non aveva simpatia per i romagnoli. Diceva che tutti gli italiani sono come quei mercanti che si fanno spazio alla fiera della città a colpi di gomito. Quando da Bologna si trasferì a Roma vi temeva solo il giudizio di Cardarelli, perché lo stimava moltissimo e conosceva quelle sue aggressive sfuriate che hanno raddrizzato l’intelligenza romana. Cardarelli pure essendo uomo timido, quando sedeva per così dire in conclave, all’Aragno o al Gambero, diventava eloquente e un suo giudizio poteva annientare.
Longanesi aveva soprattutto un gusto tipografico ed è riuscito a trasmetterlo alla stampa giornalistica ed editoriale. Amava le fotografie e sapeva sceglierle e impostarle secondo un giudizio critico per fare cadere un uomo importante mettendo in evidenza la riga dei suoi calzoni o la posizione delle mani. Troppo poco ha vissuto e uomini come lui in Italia sarebbero stati necessari parecchi. Era sempre scontento di tutti e aveva l’estro del morso avvelenato. Si dice sia stato lui a inventare la frase: “Il duce ha sempre ragione”, ma se invero era sua, suonava sempre a doppio taglio, venendo usata particolarmente quando il duce aveva torto.
Abbiamo fatto assieme alcuni numeri speciali dell’Italiano: quello dedicato al mare, quello sul cinema, sulla nuova narrativa russa ed era un piacere collaborare con lui, sempre vibrante, sempre scintillante. Destinato a vivere in un’epoca di cattivo gusto egli ne aveva uno ottimo e sarà ricordato per questo e per questa sua posizione storica. Bisogna ricordare i suoi errori perché suoi, quello maggiore fu l’attacco a Toscanini, quando si rifiutò di dirigere gli inni nazionali prima di iniziare l’esecuzione di un’opera. Longanesi non sapeva che Toscanini li aveva diretti durante la guerra sul Monte Santo appena conquistato con una banda raccogliticcia di suonatori reggimentali. E di sicuro non sapeva del valore musicale di Toscanini, perché non amava la musica.
Altro errore fu questo. In un radioso mattino Mussolini si sveglia con la mania di purificare la lingua italiana dagli esotismi. Quello che più gli dava i nervi era la parola chauffeur, Per dire conducente di automezzi. Allora conia la parola autista e la impone alla stampa con l’ambizione di avere trovato una bella parola semplice, spigliata e pura. Si sapeva che era sua, anche Longanesi lo sapeva, ma in un numero appare tutta una pagina filologica dedicata a dichiarazioni di illustri psichiatri sul significato della parola autista, che riguarda una particolare malattia mentale. Quella volta il principotto gigante dovete incassare il colpo del piccolo nano di corte. Noi dell’Italiano eravamo per la parola conducente venuta in uso durante la guerra, ma gli italiani vogliono sempre apparire più di quello che sono. Conducente sapeva di mulo e non venne accolta, chauffeur era piaciuta un tempo, perché abbinata all’automobile sapeva con la sua cadenza francese, più o meno stiracchiata di aristocrazia. E non si indagava che significava: colui che accende un forno. Dovendo mutarla perché l’epoca lo richiedeva, autista apparve una novità e se non derivava dal francese, derivava dal greco, se non sapeva di mulo sapeva per caso di benzina, piacque e venne messa subito in circolazione da fascisti e da antifascisti. Anzi questa parola ideata e imposta da Mussolini entro vorticosamente nella lingua italiana e sopravvisse al fascismo, sebbene Longanesi avesse fatto capire che riguardava una forma di pazzia. Fu l’altro errore di Longanesi: in tutta la sua lotta per il buon gusto egli aveva finito per non capire che gli italiani sono destinati per sempre al cattivo gusto.
Giovanni Comisso
da La Nazione del 21/03/1966.
Immagine in evidenza: Leo Longanesi (Radiocorriere n. 7 pag. 36, 1950, fonte. Wikimedia Commons