La ricchezza di opere d’arte è tale in ogni nostra città che rattrista e fa gioire. Rattrista perché rende inevitabili le lacune le confusioni di interpretazione, e fa gioire per la scoperta che annulla la discontinuità generata dalla nostra fretta o dalla nostra pigrizia. L’ultima volta che visitai a Vicenza sulle pendici del Monte Berico le due ville famose una, La Rotonda: capriccio e illusione di Palladio, l’altra affrescata da Giovanbattista Tiepolo, altro capriccio e illusione a rendere piacevole la vita, per mia ignoranza non visitai la Foresteria di quest’ultima. Fu per mia ignoranza, ma anche non potevo pensare che nella stessa villa dopo le cinque sale sovrumane coperte di sovrumani affreschi, In quella che passa per la succursale della villa ve ne potessero essere altri. E’ poi mio sistema di avvicinarmi alle opere che non conosco senza alcuna preparazione critica, storica o elencativa. In questo modo sono sicuro della mia prima impressione e mi piace fare questo giuoco da barbaro che mi rivela il sapore intatto della conquista.
Sono ritornato alla villa; lungo il sentiero abbaiavano i cani a custodia delle rose traboccanti dalle siepi, certi rami teneri di verde si protendevano quali braccia per essere strette, il cielo era come sempre mirabile di leggerezza e poi sopra il muretto mi sorrisero i nani di pietra chiazzati di nero lichene.
La Foresteria fu affrescata da Giovanbattista Tiepolo e dal figlio Gian Domenico, un altro pittore di trascurabile importanza fece certe parti decorative. Il figlio aveva trent’anni, il padre era il culmine della sua potenza. La posizione di un figlio rispetto ad un padre che sia un grande artista quando anche il figlio segue l’arte del padre, è sempre delle più disagevoli. È destino dei figli di superare i padri, ma quando questi sono della grandezza di Giovanbattista Tiepolo vi è poco da sperare per un figlio. L’opera di Gian Domenico fatta in pacifica soggezione e umiliante rispetto a quella del padre è del tutto mediocre, quasi mediocri copie. Ma vi è un momento in cui il figlio si mette a creare in antagonismo al padre e quasi in ribellione e allora questo pittore rappresenta un fatto nuovo che sorprende e lo pone nella eccezionale classificazione di sintomo della pittura moderna.
Tutte le caricature non possono essere che di Gian Domenico: era un genere che il padre gli lasciava libero di esplicare in piena indipendenza. La critica ne ha attribuito una parte al padre, ma non è ammissibile che un sommo è così perseverante lirico come Giovan Battista potesse sdoppiarsi a una interpretazione crudele della vita. Sarebbe come pensare che Petrarca potesse aver scritto anche dei sonetti umoristici su Laura. Il padre è così gravemente e totalmente preso dalla sua sublimazione di esseri umani che sarebbe solo ammissibile per una sua intermittenza di follia che avesse potuto vedere con occhio freddo e denunciante, quello che aveva sempre veduto con ebbrezza e armonia.
Queste caricature sono testimonianze della ribellione del figlio al padre. Su di un piano meno crudele abbiamo i grotteschi di Gian Domenico, cioè tutte quelle scene di pulcinelli, di balletti, di carnevalate e del Mondonovo, che derivano dalla sua tendenza caricaturale, ma si sono limitate ad un verismo che rasenta il grottesco. Tuttavia viene la palazzina della villa un affresco del padre che rappresenta una scena campestre, una donna cittadina sta seduta davanti ad una capanna col tetto di paglia e un contadinone con grossa giubba e un largo cappellaccio in testa volge la schiena. Questo contadinone, accidentale ed eccezionale momento veristico del padre, generato forse dal terreno abbandono ad un soggiorno tra questi colli seducenti, fu accaparrato dal figlio per superare il grottesco del suo verismo in un crudo meravigliante, scevro da ironia o da caricatura. E questo è il sorprendente Gian Domenico delle passeggiate in campagna di Zinigo e delle scene campestri di questa Foresteria che anticipano Goya. Se il padre parte dalla completa o accennata armonia di un corpo e ne fa una sublimazione divina, il figlio invece, preso l’estro sfuggito balzanamente al padre nel dipingere questo contadinone, ne ha fatto suo sistema per tutta una rappresentazione sua propria. Egli non sublimizza, non dipinge praticamente come il padre nel suo grande stuolo di figure, ma dipinge in prosa e dice tutto per arrivare fino alle cose più crude, ma vere.
La stanza del Tesoro qui nella Foresteria è quella delle scene campestri. La scena della tavolata con il contadinone, già del padre, seduto e che volge la schiena e la donna gravida in piedi che assaggia la pietanza e il contadinello assiso per terra accaldato di sudore fino a esserne imbevuto il semplice vestito come una seconda pelle e beve assetato, è bella assai e nuova: il cestino di paglia vicino al ragazzo, lo sfondo di tavoloni serpeggiati dalla pianta di zucca con due verdi frutti che pendono, stupiscono di novità nella pittura veneta che da Giorgione a Veronese, a Tiziano, a Tintoretto si era aureamente polverizzata nelle opere del padre. L’altra scena è una siesta di contadini dove il vecchione ricorda un po’ i vecchioni del padre, ma gli attrezzi agricoli gettati per terra e il contadino disteso e quel paesaggio del lago rastrellato da una siepe di salici sono ferme scoperte del figlio. Però il pezzo formidabile di questa sala è un altro, quello delle tre donne che scendono dai colli per andare in città. Qui Gian Domenico volge decisamente le spalle al padre e a tutta la pittura veneta dei secoli passati e da solo questo pezzo avrebbe potuto sviluppare tutta una nuova pittura, questa moderna da Degas a Manet, a Cézanne, a Van Gogh, a Segantini, a Fattori, a Mancini. Sono tre donne viste di dietro, camminanti in pieno sole stivo per una stradina, due sono avanti e la terza è indietro in primo piano.
Questa terza donna deve far mordere le dita a tanti pittori italiani che si sono affaticati col macchiaiolismo e col divisionismo per afferrare la luce mentre qui il problema, in pieno Settecento, è già risolto con la più eccelsa semplicità di mezzi. Questa terza donna è una donna di luce, è una donna che esiste in quanto vi è la luce sulla terra che fa vibrare i colori, che dà ombre, che genera lo spazio, il volume. Scende questa luce del pieno meriggio estivo lungo la sua schiena, giù per i suoi fianchi, ne definisce la gonna celestina, il vuoto sotto, e, sotto, le gambe con le calze rosse, e questo rosso delle calze in parte nell’ombra della gonna e in parte battuto dal sole si fa allora vitreo; risponde a questa luce sul corpo, l’ombra dello stesso proiettata sulla polvere della stradina: un’ombra in movimento con la persona. Questo è il fatto nuovo, è il vero Mondonovo di Gian Domenico Tiepolo. Qui egli non conosce precedenti, egli è l’annunciatore del nuovo parlare: dipingere la luce, la luce vera.
Giovanni Comisso
da la Gazzetta del Popolo del 16/06/1943.
Immagine in evidenza: Affresco nella Sala del Carnevale – Mondonovo.
Fonte immagini: Villa Valmarana ai Nani; Wikimedia Commons