Baroni universitari? Non certo una novità, piuttosto un male endemico che opera sempre allo stesso modo: cooptare i meno pericolosi e lasciare fuori dal recinto i migliori e più meritevoli.
La biografia “La casa dalle finestre sempre accese” di Anna Folli (Neri Pozza) su Giacomo Debenedetti, presentata al Premio Comisso, introduce anche all’episodio della “cattedra mancata”, o meglio, “negata”, al più grande critico letterario del Novecento.
Non facciamo i nomi di chi gliela negò, ma anche i cognomi: la prima volta presiedeva la commissione che non lo mise in cattedra Natalino Sapegno; un’altra volta Carlo Bo. Prosit.
Eugenio Montale, che con quella sua inarrivabile sensibilità poetica e con quel suo curriculum così poco accademico non si pose mai l’idea di andare in cattedra (troppo bravo e, al contempo, troppo lontano dal cursus honorum) si inoltrò nel “mistero” del perché Debenedetti non fosse in cattedra, capendo perfettamente le ragioni psicologiche delle parti in causa. “C’è qui un mistero che non mi interessa chiarire”, scrive Montale con una sorta di litote. Debenedetti, chiedendo di andare in cattedra, ovvero “di salire un ulteriore gradino, commise forse una ingenuità” scrive con finta ironia Montale: era troppo importante per sperare che colleghi-competitor gli concedessero il dovuto riconoscimento. D’altra parte, aggiunge il Premio Nobel, “molto maggiore è il torto di chi respinse il suo desiderio”. Da una parte l’ingenuità; dall’altra la malafede.
Siamo all’inizio degli anni Sessanta, ma a leggere i verbali della commissione (li ha approfonditi Paola Frandini) il tempo sembra essersi fermato. Quello che si legge allora sono parole che si leggono anche oggi paro paro, del tipo: il candidato dimostra grande padronanza ma…, il candidato è di grande livello ma non pertinente al raggruppamento disciplinare… ecc. ecc. Nella nota della Commissione del primo concorso al quale partecipa, Sapegno (e gli altri docenti, per altro “amici” di Giacomo) lodano la sua “inconfondibile personalità” e la sua “ricca cultura estesa ad ambiti diversi” (e già con questa affermazione si preparano a far cadere l’asino), ma la Commissione si duole che non si possa riconoscere un “progresso” nella produzione di Debenedetti (un po’ come oggi, che valgono solo le pubblicazioni degli ultimi cinque anni perché si utilizzano pseudo sistemi scientifici), al quale si rimprovera un “indubbio allontanamento, una certa involuzione dispersiva”. Come scrive la biografa Folli, “non contano le pubblicazioni dei ‘Saggi critici’, gli scritti su Saba, Proust, Svevo, Alfieri, l’ascendente sugli studenti. Conta invece che Giacomo non abbia seguito il classico curriculum di chi vuole diventare professore ordinario. E le sue esperienze nel cinema e al Cinegiornale Incom … sporcano l’illibatezza accademica”. Insomma, Debenedetti ha dovuto lavorare e questo non va bene, si è avvicinato pure al giornalismo (oggi diventata uan disciplina universitaria anch’essa) e ciò lo rende persino pericoloso: sarà in parte così anche per Umberto Eco, ma con risultato, fortunatamente, opposto.
Nel ’64, Debenedetti sta per lasciare Alberto Mondadori, ci risiamo. Va al concorso ma niente da fare. Tre anni dopo, quando Carlo Bo presiede la Commissione, Debenedetti crede di farcela: ma l’esito sarà lo stesso. Gli vengono riconosciuti “cospicui meriti acquisiti nella complessiva e varia attività svolta nell’ambito della cultura” (e, di nuovo, quel “varia” e il troppo ampio termine “cultura” lasciano intendere che lo vogliono segare), ma sembra che abbia scritto troppo poco. Incredibile!
Debenedetti morirà pochi mesi dopo e, immediatamente, si aprirono le cateratte del coccodrillismo: “Possedere un tale esemplare nel nostro erbario – scrisse Gianfranco Contini – e non accorgersene e cosa di cui noi tutti letterati contemporanei dobbiamo rendere ammenda”. E giù una serie di rimpianti e scaricabarile. Buonanotte.
Pierluigi Panza