Da città che fu quasi distrutta dal bombardamento del 7 aprile ’44 ha rigermogliato dalle sue macerie come nessun’ altra città in Europa.
Ritornato a vivere assiduamente a Treviso, che è la mia città natale e della mia giovinezza, dopo lunghi anni di vita in campagna, mi sono accorto con stupore del suo aspetto estremamente vitale. La casa dove abito ora, è un quartiere che per scherzo chiamo il Quartiere Latino, perché vi è il Museo, la Biblioteca, l’Ateneo e un vero vespaio di scuole. Nell’ora in cui finiscono le lezioni le strade che si incrociano in questo quartiere vengono invase da un’alluvione di migliaia di bambini, di ragazzi e di ragazze impetuosi di gioia, frenetici, urlanti come sparvieri, come falchetti, ai quali siano state riaperte le gabbie che li rinchiudevano. Le ragazze sono numerose quanto i ragazzi e ugualmente scatenate.
Un giorno mentre stavo stupito nel guardare queste nuove generazioni, tanto tumultuose e tanto frementi di vita, ricordai con un vecchio amico, che mi accompagnava, i nostri tempi scolastici, prima dell’altra guerra, quando assieme a noi nella stessa classe ginnasiale, vi erano appena due timide signorine, costantemente preoccupate di trovarsi tra noi. Egli mi diceva che allora la maggior parte delle ragazze, finite le scuole elementari, non proseguivano oltre, solo quelle delle migliori famiglie entravano nei collegi femminili (per accrescere la loro educazione). Oggi invece una ragazza, anche se pretende di occuparsi in un negozio, deve avere almeno un titolo di studio superiore a quello della quinta elementare. Sono di certo mutati assai i tempi, ma vi è anche qualcosa, senza la testimonianza dei censimenti, che è mutato nella volontà procreatrice della mia città, e di certo anche di altre. A Treviso questo rigermogliare imponente di nuove vite, dopo una guerra che l’ha quasi rasa al suolo, fa pensare a certe piante che, potate a fondo e costretta la linfa a più impeto, dischiudono innumerevoli gemme.
Questa città stupisce per la dolcissima bellezza delle giovanette che si vedono all’uscita dalle scuole o scelte quasi con gara, per servire al banco dei negozi o dei caffè. La loro bellezza fa pensare a quella dei fiori e di certe frutta, come le pesche o le albicocche, che, purtroppo, non è duratura, se non nell’essere tramandata, come la specie, da una estate all’altra, per secoli e secoli. Lo testimonia infatti quel pittore del Trecento, Tommaso da Modena, che qui venne per dipingere nelle chiese di Santa Caterina, di San Niccolò e di Santa Margherita e nel comporre la vita di Sant’Orsola, tutte le giovinette che vi raffigura, modellate sulle giovinette trevigiane del tempo, hanno la stessa rosea freschezza. Sfilano queste giovinette rinate, sospeso lo sguardo illuminato sotto alla bella fronte, tra i capelli sciolti, col passo danzante di Diana per confermare il futuro.
Nello stesso tempo la città che fu quasi del tutto distrutta ha rigermogliato dalle sue macerie, come nessun’altra città in Europa, le nuove case con tale abbondanza come se la sua popolazione si fosse accresciuta del doppio. Non solo sono state costruite nuove case, dove erano state abbattute, ma interi nuovi quartieri sono sorti dove prima si coltivavano i campi, fuori della sua cerchia. Se il bombardamento aereo fu crudele e barbarico, non meno è stata la fantasia dei nuovi costruttori. Non hanno per nulla tenuto presente la gentilissima struttura medievale di Treviso, in giuoco bizzarro con ·le chiare acque dei fiumi che l’attraversano, per cercare invece i connubi più orrendi. Nel Medioevo la città delle giostre amorose era come una grande fiera, con le sue case tutte affrescate di bizzarre tappezzerie variopinte, ancora testimoniate dalle poche superstiti. I portici benigni concedevano un passaggio al riparo dalla pioggia e dal sole, i barbacani davano uno sviluppo alle abitazioni, lasciando alle strade una comoda larghezza.
Le acque fluviali, così numerose che fanno pensare alla città come a un’isola, erano sfruttate in modo che le case si componessero con essa senza opprimerle. Oppure, in certi punti, se dovevano scorrere rasenti o sotterranee, era studiato un adattamento, che presagiva Venezia, pure essendo in terraferma. Ai nostri giorni invece tocca vedere una casetta svizzera con ballatoi esterni o altre simili a sanatori elioterapici specchiarsi impavidamente offensive su queste acque.
BOMBE NEL VENERDI’ SANTO
A nulla è valso il monito dei pochi consapevoli perché il nuovo costruire si ispirasse all’antica armonia. come una rinnovata distruzione a tappeto, le barbariche formazioni dei costruttori hanno proceduto col solo scopo della speculazione edilizia, travisando irriconoscibilmente la città superstite. E la presunzione di averla ricostruita più bella è tale che le nuove cartoline Illustrate riproducono per il forestiero principalmente questi mostruosi edifici, confermando la fine di una civiltà. Il bombardamento fu una calamità tra le più tremende, qualcosa come i terremoti che hanno colpito San Francisco, Lisbona o Messina, fu tremendo anche per la coincidenza del giorno. Era il Venerdì Santo di quella Pasqua di guerra, il 7 aprile del 1944, tutte le famiglie erano a tavola sul mezzogiorno con parenti e amici per condividere un pasto che si era cercato di migliorare fuori dalle restrizioni oramai consuete. In tutti era una speranza che, con la primavera, la guerra si concludesse più rapida; improvviso sibilò l’allarme.
Il cielo era limpidissimo, le squadriglie argentee, dopo avere puntato verso oriente, fecero una conversione dirigendosi sulla città in formazione distesa così da coprirla intera con le loro ali per tutta la larghezza della zona abitata. Non fu particolarmente preso di mira la stazione o un ponte o le caserme, ma tutta la città per cancellarla dal suolo. I crolli susseguenti suscitarono un vento travolgente fitto di polvere, di fumo, di esalazioni acri. Si disfecero le capigliature delle donne, come al turbine di un gorgo, con le case precipitarono anche i rifugi inadeguati, l’assordo delle rovine si univa a quello delle esplosioni che continuavano ancora, poi vi fu un immane silenzio, subito rotto dalle urla dei sopravvissuti, dei feriti, degli agonizzanti. Quelle acque chiare del Sile, ostruite dalle macerie, traboccarono, le fiamme si levarono, strade, piazze, furono tramutate in piccoli colli di pietre e sul culmine spuntavano travi eretti come in attesa d’una crocifissione. Migliaia di esseri umani erano morti in quella stessa ora che celebrava la morte di Cristo.
Quando dalla campagna andai a cercare la mia casa, a vedere la mia città natale, allora mi accorsi quanto l’amavo senza che ne avessi avuto fino allora consapevolezza. Senza timore di giudicare con partigianeria per esservi nato, Treviso era una città unica al mondo, qualcosa come le antiche città della Grecia, come Pompei. Aveva i suoi quartieri divisi secondo la loro funzione e tutto era accogliente, umano e saporito.
Vi era la Piazza dei Signori, il centro (dopo questa guerra credendo con ignoranza che i Signori fossero i ricchi, mentre erano i deputati dell’epoca comunale, venne chiamata: Piazza del Popolo), in questa piazza si facevano le feste di Carnevale, la banda civica suonava la musica nella sera della domenica, nei giorni di mercato si trattavano gli affari nei caffè sotto ai portici, vi era il passeggio serale e le donne si sottoponevano al giudizio degli uomini con finta timidezza. A un angolo si radunavano gli studenti chiassosi e burleschi. In altra parte, attorno al Duomo, vi era come un piccolo Vaticano, composto dall’abitazione del vescovo, dei canonici, dalle sedi delle organizzazioni cattoliche e persino da un caffè chiamato “dei preti “, perché solo essi vi si davano convegno. Vicino vi era invece una zona che riguardava la giustizia col tribunale e la Corte d’Assise e nelle strade adiacenti abitavano gli avvocati e i notai. Era allora una passione per il popolo e per le donne andare ad ascoltare gli avvocati di rinomanza quando facevano le arringhe, immancabilmente fiorite di vasti riferimenti letterari.
Altro quartiere raccoglieva nei giorni di mercato i contadini, i mediatori, i signori di campagna per trattare la vendita dei cereali, del bestiame, del fieno e, attorno, caffè e trattorie, li convenivano al momento in cui il risveglio di primissimo mattino e la stanchezza delle discussioni reclamavano di rianimarsi. Più lontano verso i bastioni vi era la rassegna del bestiame e le bancarelle d’ogni genere, con altri caffè, altre trattorie, dove concludere gli affari e accalorarsi al buon vino o a una zuppa di trippe.
La pescheria era situata in un isoletta sul Cagnan, frondosa di castagni ed era la più tipica pescheria del mondo, galleggiante sulle acque. In altra piazza, per il mercato quotidiano, l’erberia riversava fino al selciato tutte le verdure variopinte prodotte dalla campagna circostante e le belle venditrici lanciavano i loro richiami, attraendo anche i pittori del tempo per ritrarle.
Poi, segreto e quasi chiuso come nelle città arabe, vi era il quartiere dell’amore con le vecchie intermediarie agli angoli delle strade sussurranti gli inviti e decantando la meravigliosa bellezza delle cortigiane indolenti. Era una città umana e completa, fatta su conoscenza delle necessità e dei desideri dei viventi. Poi aveva le sue stagioni: il Carnevale festeggiato per la strada maggiore e nella piazza, con gaiezza e amabilità tra popolo e borghesia, come dentro a una casa, il periodo della penitenza con processioni salmodianti e la folla inginocchiata al passaggio del vescovo sotto al baldacchino dorato, la stagione di San Martino coi grandi spettacoli al teatro, al cui ingresso le sartine godevano di vedere sfilare le signore alle quali avevano confezionato il vestito con le loro mani. V’era anche il ritorno dalle corse di cavalli con tanti forestieri venuti da tutte le città del Veneto, seduti sull’alto dei tiro a quattro o nelle prime automobili.
Altra stagione era quella delle elezioni politiche coi discorsi dei candidati che riescivano eletti, quasi sempre, per la frenesia delle donne, sebbene escluse dal voto, se erano belli ed eloquenti, o per la corruzione dei votanti fatta con banchetti ed elargizioni di denaro, se i candidati erano ricchi. Tutto veniva realizzato e goduto nell’attimo, senza attesa del futuro, con la perfetta consapevolezza della brevità della vita e di buttarsi in essa nel modo migliore, afferrando il giorno, con le sue offerte.
UN MONDO PERDUTO
Questi luoghi, questa vita sono in grande parte finiti, crollati con due guerre quasi consecutive, che di questa città ne hanno fatto il bersaglio favorito, col tramutarsi del costume e delle abitudini. Oggi la deliziosa piccola città di provincia ha l’aspetto di una grande città in ridicola miniatura, superficialmente indeterminata, Con la pretesa d’essere molto razionale ad uso di abitanti che possono spendere molto e volere tutte le comodità. Un’aspirazione dei costruttori attuali è di erigere un bel grattacielo a trionfale complemento di tutte le brutte case fatte di recente. Sarebbe da augurarsi venisse concesso di elevarlo, come punizione per coloro che vi andrebbero ad abitare, perché non mancherebbero le occasioni allegre di vederli affannarsi a, fare le scale a piedi, durante le frequenti interruzioni dell’energia elettrica, e tremare per il freddo, agli ultimi piani, in balia ai venti gelidi, con la difficoltà di avere la nafta per il riscaldamento. Un italo-americano venuto di recente in Italia si stupì che in Italia non si cerchi ancora di creare una centrale atomica, ed egli non sapeva che da noi quelle elettriche in provincia, qualche volta danno dispiaceri. Il grave male d’oggi è che siamo tutti degli Italo-americani. Per rara fortuna Treviso, nonostante le distruzioni di guerra, nonostante la furia tramutatrice del tempo e dei costruttori edili conserva ancora una buona parte del suo vecchio spirito, nascosto, come la fede cristiana nelle catacombe.
Mi avviene di scoprire questo vecchio spirito quando devo fare da guida agli amici di altra città che vi giungono per la prima volta. Sta esso nascosto in quei tiepidi e armoniosi ipogei che sono le osterie trevigiane, sopravvissute da secoli. Erano care allo scultore Arturo Mantini, al pittore Gino Rossi e a tutti i chierici dell’arte che vivevano con loro nei primi anni del Novecento. Vi si può bere il vino dei colli, ottimo e genuino, mangiare, come in famiglia, il baccalà o la zuppa di trippe, serviti in tavola da una ragazza rossa alle guance come un papavero e sfolgorante nello sguardo, mentre il padrone accoglie ossequiente e disposto sempre a una conversazione adeguata alla personalità dell’ospite, Fu in queste osterie, dove alle pareti pendono come moniti le oleografie della vita dell’uomo, che Martini, osservandole, meditava sempre di fare un grande gruppo di statue a loro somiglianza e passava le sue ore di tregua ad ascoltare i vecchi clienti che sentenziavano sulla vita e sulla umanità. Oggi quelle osterie sono solo frequentate da vecchi amici che si raccolgono per fare la partita a carte e giuocarsi un bicchiere di vino, o a chiacchierare di mondi irreali per dimenticare i tristi pensieri. Sembra che questa città, sia la sola in Italia ad avere in proporzione agli abitanti un’incredibile sovrabbondanza di osterie. Ve ne sono a ogni angolo specie nei quartieri solitari fuori dal centro e rivelano un gusto a volere convivere e affratellarsi, uscendo dalla cerchia della famigli con altri, non consanguinei, e sentirsi vivere in un’espansione di sentimenti e di pensieri che affermi l’esistenza di una comunità, la comunità civica, quella che dovrebbe stare nelle fondamenta di ogni città.
CITTÀ DI PITTORI
Altra parte del vecchio spirito sta celato indistruttibile nei numerosi corsi d’acqua che cingono e attraversano, ramificati o interi, tutta la città dando meraviglia a tutti i visitatori, fino dai secoli lontani. Anche Dante quando venne esule, ospite di Gherardo da Camino, se ne dovette meravigliare se nella Divina Commedia non cita Treviso col suo nome, ma come punto di affluenza del Cagnan nel Sile. Fu così attento da accorgersi che per la diversità del colore delle acque, questi due fiumi non si fondono subito, ma si accompagnano. E disse: dove Sile e Cagna s’accompagna. Tutte queste acque sono talvolta placide nel loro corso, talvolta impetuose senza mai sollevare minaccia e gli abitanti vi si specchiano conformi. Bonari, allegri, si fanno calorosi nel pretendere o nella difesa ma non arrivano che raramente alla violenza, preferendo sempre un accomodamento cordiale, espresso nella frase abituale: “Mi no vado a combattar”. Ma queste acque che mutano non solo la loro forza, ma il loro colore, da limpido a torbido, hanno anche la virtù di ispirare un’inquietudine fantastica, come nei sogni, che spiega il formarsi in questa città di tanti artisti, particolarmente pittori.
Non è una città di pietre squadrate, monotona e fredda, ma, intrecciata alla mobile e cangiante filigrana d’acque, con smeraldi interposti dovunque d’alberi e di giardini, convince d’essere piuttosto un parco d’incantesimi.
In vero come uno di questi parchi che i principi del Medioevo volevano misteriosi di grotte, di labirinti, di statue di nani e di mostri, di sorprese d’acqua e di fiabeschi ninfei, è ancora in certi angoli risparmiati dalla distruzione. VI sono strette vie che si fanno oscure passando tra esse cosi avvicinate da creare accostamenti incomprensibili di archi, forse per reggerle, forse solo per dare un passaggio al topi; lo sguardo si perde in quegli alti crepacci come in un viottolo montano incastrato nella roccia. Altre passano sotto a grandi archi formati dalle case soprastanti ed è in 7 queste ombre che si schiudono le vecchie osterie come altre grotte dentro a una grotta. Le acque in certi punti sono divise da brevi tratti di terra dove verdeggiano tenui i salici piangenti e si viene presi dal desiderio di passeggiarvi in mezzo, ma è introvabile e misterioso l’accesso. Anche le acque, come i vicoli, passano altrove sotto alle esse, rigurgitando contro i pilastri dei bassi archi occhieggianti.
Sono innumerevoli le case costruite sull’acqua come per un’arte appresa da Venezia e tra una casa e l’altra, un tempo, vi erano interposti dai mulini con la grande ruota di legno che girava lagrimosa d’acqua e cigolante. Ancora sono rimaste queste ruote, ma nei mulini non si macina più. Fu appunto in un giro d’esplorazione con un amico, che non aveva mai visto questa città, che mi convinsi di trovarmi in un giardino di sorprese, Nell’entrare in uno di questi vecchi mulini, tutto sembrava disposto come per un giuoco retrospettivo. All’ingresso vi era la stadera col cassettone per le farine, nel fondo le brevi finestrelle Illuminavano la macina ferma e alcuni sacchi rigonfi, vi era persino nell’aria un odore di grano, ma invece non si macinava più da anni.
Una donna bianca di capelli, ma nera alle sopracciglia e vegeta, sicché sembrava che i capelli fossero stati infarinati dall’aria, disse d’essere la mugnaia, di avere ottant’anni e da sessanta aveva sempre atteso al mulino. Se era ancora bella, a vent’anni doveva proprio essere una bella mugnaia secondo la tradizione popolare e letteraria. Quel mulino era nel quartiere di san Francesco, vicino alla casa dove ero nato, la mugnaia ricordava la mia famiglia e tutti gli inquilini della stessa casa. Ma si ricordava anche di me, piccino che alla notte strillavo così forte che tutti I vicini mi sentivano, interrompendosi nel sonno. Non mi sembrava più di visitare un giardino di sorprese, ma una corte di miracoli. Due guerre hanno mutato l’aspetto di Treviso, il tempo e gli uomini hanno accresciuto questo mutamento, eppure mi era ancora possibile ritrovare tra tante macerie, un essere, come questa donna, che si ricordava di me bambino. come è possibile non amare questa città, gelosa urna di sacri ricordi? Nell’uscire dal vecchio mulino, riguardai la ruota ferma, essa pulsava nel suo ritmo in quel giorno che, nascendo, il mio cuore aveva preso a battere e mi aveva seguito nella mia vita.
Giovanni Comisso
(L’Illustrazione Italiana n. 6, 1956)