“From Object To Exposure – Immagine e forma” di Carlo Sala

A Ca’ dei Ricchi a Treviso fino al 2 aprile è visitabile la mostra “From Object to Exposure” dove alcuni autori emergenti creano un dialogo tra la fotografia e l’installazione, l’immagine e l’oggetto. Di seguito pubblichiamo un estratto del testo critico in catalogo di Carlo Sala, curatore della mostra.

“Il semiologo francese Roland Barthes in uno dei passaggi più noti del suo testo-feticcio La chambre claire (1980) puntualizza come la fotografia possa divenire oggetto di “tre pratiche (o tre emozioni, o di tre intenzioni)” ossia il “fare, subire, guardare”(1). La prima è connessa all’attività del fotografo (l’Operator), la seconda all’oggetto della riproduzione (lo Spectrum) e l’ultima concerne il pubblico che freme la visione (lo Spectator). Oggi, rispetto alla linearità della tripartizione barthesiana, il rapporto tra immagine e oggetto (inteso come porzione del reale) appare maggiormente stratificato al punto che quest’ultimo non si limita ad essere semplicemente il bersaglio dello scatto.
La mostra From Object to Exposure allestita a TRA / Ca’ dei Ricchi a Treviso vuole indagare alcune possibili relazioni e commistioni tra l’oggetto-referente e l’immagine, ponendo l’attenzione sui processi che governano la rappresentazione e la percezione visiva attraverso l’opera di quattro autori contemporanei: Mimì Enna, Silvia Mariotti, Paola Pasquaretta e Marco Maria Zanin.

La ricerca di Mimì Enna (Oristano, 1991) spazia dalla fotografia più tradizionale legata al mimetico, all’uso di immagini provenienti dal web fino agli interventi istallativi site specific. In questi ultimi – riuniti nella serie Delocazioni iniziata nel 2015 e tuttora in corso – l’artista si appropria di veri e propri frammenti della realtà che, mediante il trasferimento all’interno dei luoghi espositivi, sono inglobati nel manufatto artistico: un letto, le tipiche lampade verdi delle sale giochi da biliardo o le catene dei lampadari divengono parte integranti delle installazioni. Questi lavori si distaccano però della pratica del ready-made perché non vogliono straniare l’oggetto in un contesto avulso mediante nuove attribuzioni di senso: al contrario l’elemento fisico è portatore di un’aura nonché della capacità intrinseca di iper-rappresentare il luogo da cui proviene. L’autrice pone gli oggetti in dialogo con alcune fotografie realizzate nel contesto originario per evocarne la storia e l’identità attraverso pochi tratti visivi e creare così una coesione tra la narrazione tridimensionale e quella bidimensionale. Ciò avviene, ad esempio, nell’installazione ambientale Silvana (2015) dove la dimora della protagonista è richiamata dalla presenza fisica della sua lampada da soggiorno e da due scatti che ritraggono le pareti illuminate dal medesimo elemento. L’operazione si fa più radicale in Senza titolo (dalla serie Delocazione dello studio di uno psicologo) del 2016: le due immagini fotografiche esposte documentano il trasferimento dell’intero studio di una professionista bolognese, Caterina Olivo, all’interno dello spazio culturale “Localedue”. Nelle mattinate durante il periodo di apertura della mostra la dottoressa ha svolto la sua normale attività in quel contesto anomalo: la relazionalità così innescata si scontra con la neutralità del luogo che perde la sua funzione contemplativa nei confronti del contenuto-opere d’arte e diviene un teatro temporaneo di socialità (e non un semplice contenitore di ricordi e memorie).

Nelle opere di Silvia Mariotti (Fano, 1980) i paesaggi sono invece trasposti in una dimensione ambigua e trasognante: la serie Dawn on a dark sublime (2014-2015) è nata fotografando all’interno delle foibe, le caverne verticali tipiche della regione carsica e dell’Istria, che immediatamente evocano i massacri perpetrati durante la seconda guerra mondiale ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia. Negli scatti della Mariotti non vi sono però degli elementi strettamente documentari che richiamino i fatti storici: la sua strategia narrativa mira ad accompagnare lo sguardo all’interno di una profonda oscurità che fa perdere ogni riferimento toponomastico. Il paesaggio diviene un pretesto per veicolare stati emotivi e tensioni, creando così una dimensione in bilico tra la specifica vicenda e l’universalità delle sensazioni raccontate. L’autrice, al pari di un viandante che si trova inizialmente smarrito in questi anfratti naturali pervasi dal silenzio, è poi travolta dal loro fascino che la conduce a misurarsi con il sentimento del sublime: ecco perché la descrizione di quei paesaggi è così fondata su atmosfere evanescenti e cariche di mistero, dove il fruitore è libero di misurasi con la suggestioni prodotte dagli “affreschi” visivi della Mariotti. Un mondo sotterraneo che inevitabilmente porta a rivolgere lo sguardo verso il cielo: nel lavoro 10 Parsec (2015) l’elemento più intangibile e aleatorio, la volta celeste, è rappresentato attraverso la fisicità marcata della stampa a lambda che diviene un elemento scultoreo dalle fattezze minimali, mettendo in scena un cielo caduto e fattosi forma. Infine, è lo scatto Scogli di Zinco (opera del 2015 della serie Nessun dove) ad aprire pienamente ad una dimensione “altra”, dove il paesaggio è teatro di una serie di suggestioni oniriche che provengono da alcune fonti letterarie indagate dall’artista.

La morfologia del territorio è al centro anche di alcuni lavori recenti di Paola Pasquaretta (San Severino Marche, 1987), come Clap (2016) che mostra una scultura realizzata scansionando la superficie di un masso in cui alle fattezze naturali si sommano i segni dell’intervento antropico per raccontare metaforicamente la storia di un territorio sospeso tra il progresso ed il dramma della calamità naturale che ha colpito il Friuli nel 1976. Sembra esserci un filo rosso metodologico tra questo lavoro e la precedente installazione Vulcano 01, Vulcano 02, Etna, Vulcano, Lipari, Panarea, Stromboli, Vesuvio (2014) costituita da un tavolo dove sono collocati una serie di calchi di vulcani realizzati mediante un materiali effimero, il sapone; ad essi sono affiancati gli scatti Vulcano 01 e Vulcano 02 (2014) che ritraggono alcune delle precedenti forme, modellate stavolta con della schiuma. Il paradosso visivo di quest’opera è che nella sua globalità genera un dispositivo narrativo fondato sulla pluralità di mezzi espressivi, dove la scultura è un elemento fragile, transitorio mentre il carattere di permanenza, congenito alla sua natura, è invece demandato alle immagini bidimensionali. E’ così compiuta una riflessione sui processi della rappresentazione e sulle possibili ambiguità rinvenibili nel rapporto tra l’immagine e la fisicità che può assumere.

La ricerca autoriale di Marco Maria Zanin (Padova, 1983) è la risposta alle istanze derivanti da due concezioni della vita agli antipodi: da un lato le tradizioni agresti (e la riscoperta del passato) tipiche delle zone rurali limitrofe alla sua città natale; dall’altro la dimensione vitalistica e tesa all’esasperazione del presente – anche mediante fenomeni di deregulation – connessa alle megalopoli contemporanee di paesi emergenti come il Brasile dove l’artista vive durante buona parte dell’anno. La riflessione su tale dicotomia si riversa nella sua ricerca artistica, come si evince dai lavori Natura Morta III e Natura Morta VI, entrambi del 2015. Ad essere fotografati sono dei detriti (provenienti dalle frequenti demolizioni operate a San Paolo del Brasile) che l’artista ha ricomposto mediante lo still life, citando le forme metafisiche e sospese dei dipinti di Giorgio Morandi: così facendo si innesca un cortocircuito tra la violenza dello sviluppo edilizio incontrollato e l’armonia presente nelle opere del maestro italiano. In Copernico (2016) il relitto prelevato dal paesaggio antropico è usato come matrice sia per una mimesi scultorea che per una fotografica: queste due dimensioni sono destinate a convivere nell’opera finita insieme all’oggetto originario, generando così un gioco visivo dove si alternano e si confondono realtà e finzione. Le opere di Zanin vogliono essere un baluardo della memoria attraverso una iconografia che non segue una progressione lineare, ma un tempo circolare fondato sulla persistenza di archetipi e topos visivi. Per questa ragione la mostra affianca alle opere autoriali materiali vernacolari, incisioni, stampe, fotocopie e fotografie che rimandano a edifici, piante cittadine, idoli e opere d’arte di autori moderni come Brâncusi e Morandi, mettendo in scena il personale atlante warburghiano dell’artista”.

Carlo Sala
note:
(1) Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980, p. 11.

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