LIBRI CHE FANNO BENE AGLI OCCHI
Collirio ripropone “Certi giorni sono migliori di altri giorni”, di Filippo Betto.
Si chiama significativamente “Collirio” la collana digitale della casa editrice Terra Ferma nata da un’idea di Tiziano Scarpa e di Roberto Ferrucci, che la dirige. Una collana che anziché limitarsi a “riprodurre” in digitale libri cartacei, ha fatto la scelta radicale di riproporre libri ormai introvabili, o viceversa testi che “libro” non sono stati e non saranno mai perché magari di poche pagine, letti su qualche rivista, oppure sparpagliati in giornali, antologie, nei blog.
Esce in questi giorni per Collirio la versione digitale di un libro, pubblicato la prima volta nel 1996, di Filippo Betto,autore morto troppo giovane, otto anni fa proprio a Treviso, protagonista a suo modo di una stagione della letteratura italiana. Questa è l’introduzione al volume di racconti che potete acquistare in tutti gli store digitali.
Versione mobile:
Versione per Kindle Amazon: Certi giorni sono migliori di altri
Versione ePub per tutti gli altri e-reader:
https://www.bookrepublic.it/book/9788863222975-certi-giorni-sono-migliori-di-altri-giorni/
Versione per gli utenti Os:
https://itun.es/it/-qedib.l
UN GIORNO MIGLIORE
Se state leggendo queste parole, forse oggi per voi potrebbe essere un giorno migliore di altri. Non per queste parole, ovviamente, ma per quelle che leggerete dopo o che avrete già letto: sette racconti che componevano un libro ormai introvabile di Filippo Betto, di cui è bello poter sentire ancora la voce, a sette anni dalla sua scomparsa, e proprio nel momento in cui, incidentalmente, un “mémoire” di Mario Fortunato (Noi Tre, Bompiani, 2016) lo riporta ad un luogo ed un tempo che ha abitato.
In fondo è questo che fa la letteratura, conserva intatta la voce di chi ormai è assente, e questo è quello che la collana “Collirio” si è prefissa, fin dall’inizio, la sua stessa ragione d’essere: recuperare e rendere ancora disponibili libri perduti o dimenticati, o viceversa dare spazio a pagine inedite e mai pubblicate.
“Alcuni giorni senti una voce che ti porta in un altro posto. Alcuni giorni sono meglio di altri”, cantavano gli U2, in un brano che forse ha ispirato in modo inconsapevole il titolo già bellissimo di questo libro.
E anche Tiziano Scarpa parlava di “voce”, ricordando una serata dedicata a Filippo Betto, pochi giorni dopo la sua morte, in cui con altri autori aveva letto dei suoi brani inediti: “Vedevo quegli scrittori che davano voce alle parole di un altro scrittore morto da poco… Immaginavo Filippo Betto, che non ho mai conosciuto di persona, come un guerriero solitario, lo vedevo combattere e trovare il suo varco dentro un vortice di parole che vengono da lontanissimo, dai millenni passati, e che dureranno per chissà quante generazioni, ancora.”
Le parole sopravvivono sempre a chi le ha scritte, ne perpetuano il ricordo e la voce. E forse non è un caso che il primo racconto di questa raccolta sia chiaramente ispirato all’amico scrittore Pier Vittorio Tondelli, che Filippo ha premurosamente accudito fino alla fine dei suoi giorni: un racconto in prima persona in cui si colgono echi della scrittura di Tondelli, del suo lessico e linguaggio, quindi della sua voce. E nemmeno sembra un caso che alla fine della raccolta, come un controcanto malinconico, Filippo abbia voluto inserire un racconto che è invece la lucida ma anche struggente consapevolezza di una privazione, di una mancanza e di una vita che, d’ora in poi, dovrà essere “senza”. Sono voci, tra le tante di Filippo Betto, che in questo primo libro sembra abbia voluto provare diversi registri, accordando il suo strumento alle storie che voleva o doveva raccontare. Beninteso: non che questo sia un libro incerto, immaturo, d’esordio. Tutt’altro. È piuttosto un libro in cui Filippo dà corpo, e voce appunto, alle sue diverse anime e alla molteplicità dei suoi umori. Credo del resto che lo abbia partorito e custodito a lungo prima di decidersi a pubblicarlo. Anche per questo, stranamente, Filippo non compare in nessuna delle raccolte del progetto Under 25 di Pier Vittorio Tondelli, pur avendone tutti i presupposti, per meriti letterari e per vicinanza con il curatore. Non si sentiva pronto, allora. Ed era ancora troppo impegnato a vivere, con quell’avidità di cose, eventi, letture, quella cultura enciclopedica e quella curiosità infinita che lo caratterizzava. Stava prendendo appunti, assumendo dati ed esperienze per i libri che avrebbe scritto, prima o poi: lo sapeva benissimo fin dall’inizio. Filippo Betto era uno scrittore dalla nascita, per scelta, vocazione e necessità, e lo sarebbe stato in ogni caso, anche se non avesse mai scritto o pubblicato niente. Sarà forse per l’origine contigua, ma mi ha sempre ricordato un po’ la figura di Roberto Bazlen per le sue frequentazioni e la sua cultura – e ancora mi accorgo di parlare di qualcuno in cui letteratura e vita si intrecciano in modo indissolubile, tanto da diventare egli stesso il protagonista di un romanzo, Lo stadio di Wimbledon, di Daniele Del Giudice. Mi è difficile non farlo, del resto, nel caso di Filippo, per averlo conosciuto e frequentato per una parte seppur piccola della sua vita, quando dopo molte e varie peregrinazioni, era arrivato a lavorare a Colors, la rivista che dirigevo. In fondo anche la vita di Filippo Betto è stata una vita letteraria, e così la sua fine, con quell’immagine che non ho mai visto in realtà e che pure mi si è impressa sulla retina: un vestito nero, ben piegato, adagiato sul letto, accanto al suo corpo steso, l’indizio di un viaggio.
Poco tempo prima, in quella stessa casa, su quello stesso letto, Filippo aveva pagato un tributo, ancora una volta inconsapevolmente, ad un altro dei suoi miti, Ingeborg Bachmann: si era addormentato anche lui con la sigaretta accesa e aveva rischiato di dar fuoco all’intero condominio.
Sembra di risentire quello che Tondelli scrisse a proposito di Andrea Pazienza e di una generazione disposta a “giocare, con il proprio talento, alla roulette russa, strapazzarlo, gettarlo, immiserirlo, sprecarlo, dannarlo, sapendo di poterlo ritrovare intatto il giorno dopo, ancora più brillante e sgargiante”.
Filippo Betto aveva sicuramente un grande talento ma anche una straordinaria capacità di complicarsi l’esistenza, si portava dentro un animale, come cantava il suo amato Battiato, che non lo faceva vivere felice mai. Gli sbalzi di umore di Filippo erano proverbiali: poteva essere in preda alla depressione più nera e folgorarti poi con una battuta arguta e colta, di cui ti capitava di sorridere anche a distanza, da solo, ripensandoci. C’è un pezzo, nel racconto “Un’altra donna”, a proposito di un brano di Joni Mitchell, “Born with the Moon in Cancer”, che me lo ricorda molto: “Non è facile tenersi dentro tutto questo, abitare contemporaneamente due territori così diversi…”
È così in fondo anche questo suo libro: una pluralità di voci ed umori in una persona sola, in cui trovano spazio la rabbia e la malinconia, la tenerezza e la violenza, la futile superficialità e la profondità assoluta,
il parlato vivido e becero e la prosa compassata dal sapore antico, lunghi monologhi e dialoghi fulminanti. E poi le voci degli altri, la musica, le citazioni, i riferimenti culturali, i paesaggi urbani ed antropologici, insomma tutto il campionario di una vita vissuta che non può non riguardarci, almeno un po’, in quanto esseri umani o meglio “mammiferi tristi” che si pettinano. Perché alla fine è vero, “certi giorni sono migliori di altri giorni”, ma “le storie degli uomini si assomigliano tutte”.
Renzo di Renzo