Ho dovuto constatare di recente che le feste di Natale come sono organizzate oggi non hanno quello spirito sentimentale e indimenticabile come una volta. Allora vi erano meno doni, meno pranzi trabocchevoli di vivande e di dolciumi, meno alberi illuminati, meno sbandieramento per le strade. La festa natalizia si svolgeva nel limite degli affetti, con un piccolo presepio nell’angolo di una stanza, con il panettone regalato dal proprio fornaio. Quei natali mi sono rimasti così impressi da suscitarmi nel rimpianto e nel raffronto coi presenti, sempre una profonda malinconia. Vi è stata una grande frattura nella società borghese italiana dopo la prima grande guerra. Qualcosa come se la frattura determinata in Russia dalla rivoluzione, dove ha distrutto e modificato vecchie abitudini, vecchie feste e manifestazioni, avesse, anche in altre parti dell’Europa, compresa l’Italia, modificato la vita borghese. Se ci tocca vedere fotografie della vita di una famiglia a Mosca, prima della rivoluzione, troviamo subito rispondenze con le nostre famiglie di allora, ora cancellate da tempo. Se riguardo certi tovaglioli con le iniziali della mia famiglia ricamate a rilievo, che venivano usate per il pranzo di Natale, viene voglia di metterli sottovetro come una reliquia. Una grande rivoluzione voluta dal tempo ha mutato anche per noi il sapore delle feste di Natale. Hanno cominciato a mutarsi con la prima guerra che nel suo furore, in coincidenza con i nostri vent’anni non ci faceva più credere a questa festa nelle pure e semplici manifestazioni familiari.
Dopo la battaglia di Caporetto quando il nemico era arrivato al Piave, mi trovai per Natale accampato a pochi chilometri dalla mia città. La mia casa era stata abbandonata dai miei familiari, la mia Divisione era nell’imminenza di partire per il Grappa. Mi trovavo in una villa abbandonata sulla strada per Bassano. L’ordine poteva arrivare da un momento all’altro. Ebbi solo il tempo di scrivere una lettera ai miei ricordando quella festa di un tempo e la scrivevo nel tinello di quella villa dove forse anche in quello dovevano essere stati celebrati semplici e cordiali pranzi natalizi come nella mia casa. Ero solo e al lume di una candela scrivevo quella lettera prima di mordere per il mio pranzo natalizio una galletta e carne in scatola.
Altro Natale, per così dire rivoluzionato venne a coincidere subito dopo la guerra, con il tempo dell’impresa di Fiume. Il Governo di Roma deciso di farla finita con noi ribelli ci inviò contro un esercito e una flotta. Nel pomeriggio della Vigilia le navi cominciarono a sparare sulla città e le truppe che ci assediavano ad avanzare. Vi furono i primi combattimenti e i primi morti. Mi trovavo sulla nostra linea vicino alla riva del mare. Con il mio reparto pronto a sparare se fossero avanzati. Tra una linea e l’altra vi era una casa con tutte le finestre illuminate e una donna si affacciava ogni tanto per cantare con voce squillante rivolta alla luna che saliva dal mare, la canzone “Capinera” che allora era di moda. Anche quello fu un Natale triste, ma consolato da quel canto.
Dopo la guerra avevo preso a viaggiare per il mondo e mi trovai a Parigi nella sera di Natale solo senza i miei amici che erano stati invitati altrove a cena. Fui così costretto ad andare nella mia solita trattoria da povera gente. Non vi era alcuno, anche i soliti clienti e persino i padroni erano alla loro festa. Vi era rimasta solo la vecchia serva per darmi qualcosa. La tristezza mi prendeva con i ricordi, quando la porta si aperse ed entrarono due vecchi coniugi, vestiti da festa, che in quella sera si concedevano il lusso di venire a cenare in quella trattoria da imbianchini e da studenti. In quella sera vi era ancora qualcuno più triste di me e ne fui consolato.
Alcuni anni dopo mi trovavo a passare attraverso Marsiglia nella sera che precedeva il Natale. Venivo in macchina dalla Spagna e pensavo di pernottare in quella città, ma appena superata la periferia, avvicinandomi al centro non fu più possibile orizzontarmi, tutte le strade parevano altrettante Cannebiere, dando un incubo ossessionante. Non si poteva uscire da quel labirinto dove i negozi illuminati e la gente che entrava a comperare stordivano e non finivano più. Tutti comperavano con uguale slancio gioielli e giocattoli, frutta di alberi e frutta di mare, pesci e carnami. In quella città esageratamente pavesata di luci con quella gente frenetica di comperare tanto da fare pensare a un saccheggio, fremevo di trovare una via d’uscita. Riuscii infine a raggiungere la zona deserta e silenziosa dove vi è il famoso edificio di Le Corbousier, che avevo sempre detestato e vilipeso. Erano state necessarie quella sera e quella particolare condizione natalizia per riescire a rendermi confortevole e ristoratore quel casermone con i suoi androni semibui a piano terra. E anche questa volta fui consolato.
Giovanni Comisso
da Il Giornale di Sicilia del 03/03/1963
Immagine in evidenza: Basilica di San Domenico Maggiore. Il presepe ligneo del 1507 (foto di Giuseppe Guida, Wikimedia Commons)