Come (il) Calvino può cambiarti la vita
Io sono una bibliotecaria, tu una libraia, ci capiremo al volo! Sono le prime battute che scambio con Emanuela Canepa, che è sì una bibliotecaria ma è anche la vincitrice del Premio Calvino 2017, con il suo romanzo d’esordio “L’animale femmina” di prossima pubblicazione per Einaudi.
Torniamo per un attimo al cinque maggio 2017. Emanuela sta aspettando una telefonata che le comunicherà la sua eventuale partecipazione alla finale del Premio Calvino. Complici inconsapevoli due immense autrici, Alice Munro e Margaret Atwood, la telefonata arriva. Come arriverà l’assegnazione del Premio all’unanimità della Giuria, presieduta da Rossana Campo, perché
“romanzo compiuto, maturo, di esemplare nitidezza nella struttura e incisivo nella lingua, che mette in campo uno spiazzante gioco di seduzione senza sesso e che, pur attento alla psicologia maschile, dà in particolare voce, con stringente analitica, alla forza carsica del femminile.”
Emanuela, raccontaci la favola della bibliotecaria che diventò scrittrice, vincendo il più autorevole dei premi italiani assegnati ad un autore esordiente…
Forse la cosa più sorprendente è stata la sproporzionefra la telefonata con cui mi hanno comunicato di essere tra i nove finalisti, e l’annuncio della vittoria la sera della premiazione, tre settimane dopo. Nel primo caso la gioia è stata enorme, ma la sorpresa un po’ più contenuta. Avevo qualche speranza, non tanto per una questione di merito – nessuno riesce a valutarsi oggettivamente, credo, o comunque certamente non io – quanto per uno strano presagio irrazionale che non sarei in grado di spiegarti. Qualcosa mi diceva che potevo illudermi.
Ma la vittoria era completamente al di fuori dal raggio delle mie aspettative, e perfino dei miei deliri di onnipotenza. Oltretutto tra i finalisti c’erano due donne e sette uomini, quindi nemmeno la statistica era a mio favore. La sorpresa è stata veramente enorme. Credo di essere rimasta in trance per tutto il resto della serata, e infatti ne ho solo ricordi molto confusi.
Ci sono incontri, anche professionali, che cambiano la vita. Quanto ha influito nella stesura del tuo romanzo l’incontro con Mattia Signorini fondatore della scuola Palomar?
Devo molto alla vocazione didattica di Mattia,che è strettamente empirica. È un artigiano dello storytelling. Ti aiuta a edificare una storia stimolandoti a provare tutti gli incastri, tutte le potenzialità della trama, imboccando ogni bivio, inclusi i vicoli ciechi, per vedere dove portano. Non c’è nessuna preclusione ideologica e nessun desiderio di soverchiare la tua visione. È sempre un rapporto da pari a pari che non ti inibisce e nemmeno ti sovrasta.
Desmond Morris, etologo, descrisse con taglio scientifico il comportamento dell’animale donna.Cosa puoi dirci, da narratrice, dell’animale femmina?
Il motore della storia è il rapporto dispotico tra un vecchio avvocato e una studentessa che si trova a lavorare per lui. L’avvocato Lepore è un uomo ombroso e cinico, innamorato della sua visione del mondo sulla quale non ammette contraddittorio. Pensa male di tutti, non ha stima per nessuno, il suo unico piacere è catalogare gli individui. Ma gli uomini lo interessano meno. È sulle donne soprattutto che riversa la sua insoddisfazione e la sua smania aristotelica di classificatore.
Ho scelto questo titolo proprio perché allude allo sguardo da etologo che posa sul genere femminile, di cui crede di sapere tutto.
Insuccessi universitari, un lavoro insoddisfacente, un rapporto conflittuale con la madre, l’apparente sudditanza nei confronti di un uomo influente, un rapporto sentimentale clandestino…non possiamo non amare la protagonista del tuo romanzo. C’è speranza di riscatto per questa moderna eroina?
Certamente sì. Credo molto nel potenziale degli individui e nel potere di risalire la china anche di fronte a situazioni disperate.
Mi affascinano sempre le storie di metamorfosi, quelle in cui un personaggio rivela a se stesso attraverso il lampo di luce di una scelta sbagliata.
Nei rapporti familiari, ad esempio, trovo quasi disturbante l’ossessione che hanno certi genitori nel voler proteggere i figli dal rischio di commettere un errore. Ma gli errori sono straordinariamente didattici. Non esiste nessuna lezione esistenziale che ci dica con altrettanta chiarezza chi siamo e cosa possiamo fare. Rosita, la protagonista, parte proprio da questo punto: una serie di decisioni sbagliate la porta sull’orlo di un fallimento esistenziale. Ma è solo qui, sul fondo del barile, che vede riflessa un’immagine di sé che le sarebbe sfuggita in superficie, e se ne serve per risalire, trasformata.
La tua recente partecipazione al CartaCarbone festival ha messo a confronto varie voci di donna sul tema della scrittura femminile in Veneto. Ne è nato un dibattito stimolante e di grande interesse. La scrittura è femmina?
Proprio a CartaCarbone, insieme a Saveria Chemotti, Elisabetta Baldisserotto e Annalisa Bruni, ci siamo trovate d’accordo nel citare alcuni passaggi di Una stanza tutta per sé.
È piuttosto sconcertante che, a quasi cent’anni dalla pubblicazione di quel saggio, gli appunti che si fanno alla scrittura delle donne siano ancora molto vicini a quelli che Virginia Woolf citava allora. Per un verso è vero che le cose sono cambiate, se non altro a livello di opinioni di contesto.
Non credo che nessuno scrittore o membro del mondo dell’editoria oggi si sognerebbe mai di definire la scrittura femminile come ‘minore’. Magari lo pensa –abbiamo ricordato la sconcertante dichiarazione del direttore della Feltrinelli di Bologna Marco Bonassi [di autrici non ne legge nemmeno una? Lo confesso, non ne leggo molte. E non volevo barare, né fare il politicamente corretto]* – ma credo che, a parte eccezioni come questa, nessuno oggi si spingerebbe a dirlo a voce alta come accadeva ai tempi di Virginia Woolf. Però poi è vero che, al di fuori del contesto degli addetti ai lavori, non è raro che le cose vadano proprio in questo modo. Quel che mi lascia più sconcertata è prendere atto che questa dimensione opera come una censura inconsapevole.
Conosco molti uomini che non avrebbero nessuna difficoltà a definirsi femministi e a sostenere pubblicamente le donne, e per derivazione la scrittura femminile, che però alla prova dei fatti non si sentono rappresentati da quel genere di libri, e tendono a scartarli.
Come se le storie raccontate dagli uomini –indipendentemente dal livello di qualità – avessero un potenziale di condivisione che manca alla scrittura femminile. È questo il punto: quando le donne scrivono, si mette in discussione l’universalità della loro visione.
Molti anni fa studiai un saggio sulle Epistole paoline. Diceva una cosa che mi è sempre rimasta impressa. Paolo scrive alle molte comunità cristiane sparse per il Mediterraneo che aveva visitato nei suoi viaggi o contribuito a fondare. Le donne avevano sempre un ruolo di primo piano e lui lo sapeva. Quando si rivolge direttamente a loro nei saluti, e le chiama per nome, è cristallino nel riconoscerne il ruolo e il valore. Dotandole di un’identità precise non può misconoscerle.
Ma quando parla della Donna in senso astratto, disincarnata da una personalità unica e irriducibile, allora si esprime nei termini che tutti conosciamo: la donna deve tacere, perché non è decente che essa parli in pubblico e tutto il corollario di misoginia che accompagna le sue considerazioni.
Quello che vedeva e sperimentava con i suoi occhi interagendo con donne reali, non era sufficiente a sradicare il peso della censura sulla Donna che si trascinava dal passato. Per la letteratura mi sembra che le cose non siano poi così diverse. C’è una diffidenza verso le donne a livello letterale e una molto meno consapevole, che è più difficile da aggirare. Se prendiamo singolarmente certe autrici immense, non possiamo negare che le cose siano molto cambiate dai tempi di Virginia Woolf. Chi si sognerebbe di considerare minore Alice Munro o Margaret Atwood, per citare le due da cui siamo partite?
Ma se le consideriamo collettivamente, sulle scrittrici pesa ancora una stigma di minore rappresentatività. E su questo c’è ancora molto da lavorare.
Da “Piccole donne” alle “Storie della buonanotte per bambine ribelli”…qualcosa è cambiato anche nelle proposte dedicate alle piccole lettrici. Quali i tuoi romanzi di formazione?
Entro sempre in crisi di fronte a questo genere di domanda, perché bisogna selezionare e tagliar fuori tante cose importanti. Di recente mi è capitato di ricordare che la prima emozione letteraria me la diede Italo Calvino con I Nostri Antenati. Prima di allora non avevo letto niente che non fosse narrativa di banale intrattenimento per ragazzi.
Poi lessi Calvino e capii che un libro non è una cosa che serve solo a passare il tempo – attività comunque meritoria, specie per me che detesto annoiarmi – ma un oggetto metafisico capace di modificare empiricamente il corso di un’esistenza. Un’esperienza che cambia la tua percezione della realtà, e per conseguenza incide sulla sua qualità.
Con Marguerite Yourcenar sono diventata grande. Rimane il mio ideale di scrittura sulla pietra, pura e scarnificata, completamente priva di identificazione sessuale, che era una cosa che a vent’anni sentivo moltissimo avendo grossi problemi a trovare una conciliazione con il mio lato femminile.
Poi ho passato una stagione esistenziale disordinata tra classici molto diversi fra loro, a cui ancora oggi penso come creature di carne. La Austen, Thackeray,Dostoevskij, Flaubert, George Eliot, le sorelle Brontë, ma soprattutto Victor Hugo, che mi emoziona perfino quando è ossessivo e debordante, cioè quasi sempre. I Miserabili però è un’epopea e un monumento letterario perfettamente compiuto.
In Italia mi sento a casa con Buzzati, la Morante, la Ortese e Bufalino. Recentemente le mie libraie di fiducia mi hanno fatto riscoprire Fabrizia Ramondino, una grande scrittrice davvero poco considerata. Amo molto alcune scrittrici italiane contemporanee come Laura Liberale, Rossella Milone, o Elvira Seminara, però le autrici che oggi mi catturano di più sono tutte di lingua inglese anche se di nazionalità diverse e stili distantissimi fra loro: abbiamo già citato Alice Munro e Margaret Atwood, e poi Marilynne Robinson, Joan Didion, Antonia Byatt, ma anche Lauren Groff, che è di una generazione successiva, e più di tutte Elisabe thStrout: Olive Kitteridgee Amy e Isabelle sono state delle vere rivelazioni.
Sono sempre colpita dal grado zero di queste scritture di grana sottilissima. Un raggio di luce che colpisce una minuscola porzione di universo e ne mette in risalto quanti emozionali impercettibili.
Ma non ci sono esclusivamente donne nel mio pantheon, cosa che sarebbe irragionevole. Philip Roth, per citarne solo uno: uno scrittore immenso. O Kurt Vonnegut, un altro visionario, anche se di segno opposto.
Emanuela, ti ringrazio per questa chiacchierata. Rinnovando l’invito in Piazza Comisso, non appena il tuo romanzo sarà pubblicato, propongo inoltre la lettura dell’incipit del romanzo per far conoscenza con la donna che stira…e poiché anche la curiosità è femmina ti chiedo quanto c’è di Emanuela nell’”Animale femmina”.
È tutta mia l’inadeguatezza di Rosita, la tentazione di restare ai margini del mondo senza farsi notare e senza richiamare l’attenzione, e insieme la consapevolezza che è sempre la scelta più comoda e meno rischiosa. Ma siamo qui per fare qualcosa della nostra vita, per realizzare un desiderio o una vocazione. Ed è un obiettivo che non si può ottenere sottraendosi alla luce oppure rifiutando di sporcarsi le mani.