Viviamo tra un popolo distratto e in una terra che non ha una sola capitale, ma una per ogni regione.
Questo rallentamento dell’attenzione e della memoria, questo chiudere le società artistiche e letterarie negli ambiti delle regioni, invece che in un ambito metropolitano, come avviene a Parigi per la Francia, sono causa principale del misconoscimento di tanti nostri autentici artisti contemporanei e della nostra facile sottomissione a qualsiasi novità che provenga dall’Estero.
In queste capitali regionali hanno germogliato sempre certi cenacoli, vere sette e talvolta vere bande, che sfuggendo non solo a una critica rigida, ma persino a una satira diretta, tanto è cauta la provincia, permettono un malinteso artistico e l’esaltazione a numi di piccoli storpi.
Il malanno è circoscritto nella sua definizione di provincialismo, e la stessa Roma non manca di essere colpita come una qualsiasi capitale regionale.
Anche se questo malanno non fosse sufficiente a far disperdere e confondere i valori, rimane sempre il tempo, con le vicende distruttive dei popoli, particolari all’Italia per una consuetudine secolare, a compiere l’insabbiamento di nostri artisti genuini, delle loro opere e degli elementi complementari di esse, fatti di ricordi, di memorie; di carteggi.
Si pensi i musicisti veneziani del Cinque, del Sei e del Settecento, della cui vita quasi nulla più si sa per essersi perduto ogni documento e testimonianza, e le cui opere caddero in dimenticanza fino alle esumazioni avvenute in questo secolo, tra le quali primeggia l’opera ricostruttiva di Malipiero nei confronti di Claudio Monteverdi.
Si pensi ancora alle carte inedite di Ippolito Nievo che sono scomparse durante la prima guerra mondiale e alla sua giusta valutazione raggiunta soltanto qualche decennio addietro. Non minori sono le dimenticanze e le dispersioni delle opere dei pittori, perché più facilmente soggette alle distruzioni del tempo e degli uomini e più accanito è il misconoscimento provocato dalle sette dei pittori provinciali.
Ma se dalla provincia per la nostra arte, possono sorgere queste negazioni e minacce, sembra quasi inverosimile che oggi in una piccola città, con una impresa editoriale privata, sotto il pacato emblema: Edizione di Treviso, si tenti di opporsi per alcuni nomi di indiscutibile valore, alle fatali dispersioni del tempo e alle umane dimenticanze.
Compito degno di una metropoli della civiltà e della cultura.
Un serio intendimento sta alla base del lento e non interrotto lavoro delle « Edizioni di Treviso», e tipico volume è quello uscito adesso: L’opera di Gian Francesco Malipiero, curato da Gino Scarpa.
A questa prima testimonianza che attorno al nome del Maestro veneziano illustra mezzo secolo di vita musicale, seguirà tra breve L’epistolario dello scultore Arturo Martini, che svelerà in modo inatteso le fasi della sua vita e della sua arte, ormai leggendarie.
Il libro su Malipiero, di ampio formato, è anzitutto, nella sua veste, un bel libro per carta, caratteri e armonia della composizione.
E’ stato ordinato in modo da dare sulla voce: Gian Francesco Malipiero, per gli iniziati, tutte le testimonianze utili da non dimenticare sulla sua vita, sulle opere e sulla loro fortuna, e, per i non iniziati, in modo da rivelare in pieno chi sia e cosa abbia fatto questo artista dei nostro tempo.
Una prima parte raccoglie ventitré saggi di scrittori italiani e stranieri sull’opera e la persona del musicista; una seconda, il catalogo completo delle opere con annotazioni dell’autore che ne spiegano l’origine, le interpretano e le giudicano, a volte severamente; una terza, in una specie di giornale, raccoglie ricordi, pensieri e umori del Maestro, e ce ne dà l’autobiografia; per ultimo, in appendice, un gruppo di lettere a lui dirette da musicisti e da scrittori illustri.
Il libro offre uno schema esemplare per illuminare la posizione di un artista nella sua epoca e sarebbe augurabile che libri simili a questo, ideato da Gino Scarpa, potessero essere fatti anche per altri e non soltanto musicisti, se si vuole contribuire a togliere i nostri creatori dall’occultamento provinciale. A lettura finita questa piacevolissima documentazione risulta come una nota di enciclopedia vista con una lente grandissima.
Il vivo interesse con cui si legge il libro fu sperimentato anche da me che, pur conoscendo Malipiero da tanti anni, mi sono accorto di molto ignorare della sua vita tormentata e della sua opera vastissima.
La pubblicazione dei suoi ricordi o pensieri rivela accanto al musico una vena di narratore toccante e piena, che appare come il contenuto delle sue pause musicali, la congiunzione tra una sua opera e l’altra, tanta sua inquietudine, ribellione e intransigenza non si possono comprendere se non dopo aver letto le pagine della sua infanzia e aver inteso da quali fatti personali sorse la sua prima reazione al mondo melodrammatico dell’Ottocento e come, sui vent’anni, gli si rivelassero i tesori dell’antica musica italiana.
Quello che sorprende poi è che un artista cosi esclusivamente musico, e cosi chiuso nell’obbedienza alla propria spontanea ispirazione, si sia lasciato indurre a collaborare con la brutale insensibilità musicale di D’Annunzio.
Una lettera del poeta, riportata nel catalogo delle opere,rivela che Malipiero ha fedelmente seguito (o creduto di seguire) la traccia dannunziana per scrivere i suoi «Ritrovati».
Non si capirebbe come il musicista abbia potuto obbedire alle indicazioni sul quinto tempo che, a gusto dei poeta, avrebbe dovuto «illuminarsi dell’ immortale volontà di vendetta e di liberazione e di glorificazione », se non si pensasse al fascino senza scampo che e gli esercitò anche su altri artisti non meno fieri della propria ispirazione.
Meno spiegabile, considerando l’indipendenza di Malipiero, è la sua collaborazione con Pirandello che gli diede il libretto per La favola del figlio cambiato e che gli valse, nella recente esecuzione, di sentirsi dire da un critico che questa importante opera poetica non ha trovalo la musica adeguata. Quell’opera di Pirandello è del tutto insussistente come una delle sue tante novelle e non meritava il connubio con alcuna musica. Certo, dalla lettura di questo libro, risulta la fastidiosa posizione di un musicista che, con un temperamento dispotico, particolare a tutti i musicisti, per attuare un’opera di teatro deve servirsi di un’opera letteraria altrui.
Agli inizi Malipiero fu l’inventore delle sue favole teatrali, ma per quanto la parte musicale con la sua potenza le sommerga, servendosi di esse come di pretesti, egli non è riuscito a darci qualche cosa di bello nella sua improvvisazione letteraria. Meglio di tutto sarebbe che il musico moderno, tanto più in un’epoca come l’attuale in cui il teatro drammatico non è né carne né pesce, con l’avvento del cinematografo, rinunziasse del tutto a trattare questo genere. Ed è anche questa convinzione che sorge dalla lettura del libro.
Giovanni Comisso
Il Giornale, 8 ottobre 1952