E la poesia quindi sta lì… Dopo il diluvio. Recensione e intervista a Leonardo Malaguti

Recensione e intervista di Arianna Previtali a Leonardo Malaguti, Dopo il diluvio, Roma, Exorma, 2018.

Immaginate di vedere dall’alto, attraverso una teca, da lontano, un paese piccino che si muove, secondo un ingranaggio tutto suo. Concentrando lo sguardo, come in un effetto zoom, vedrete caratterizzarsi il prete, il sindaco, il dentista-filosofo, la tenutaria del bordello, il rabbino, il contadino, la donna senza un braccio, il generale e l’ispettore. E vedrete le loro passioni, pulsioni, paure e fierezze intrecciarsi ed esasperarsi, dopo una notte di diluvio che annega le case, il benessere e l’armonia. Il racconto principia con il rozzo contadino Thomas Marz di rientro dai campi che non trova Lisestka, la moglie, si rende conto di essere preoccupato ed esce a cercarla. D’altro canto la donna, sentendosi sempre maltrattata, sogna la fuga. Dopo la notte di diluvio, sparisce il sindaco, tanto che gli assessori, inetti, decidono di consultare il Rabbino Blum, il vecchio saggio, che trovano arrampicato su un albero, impaurito ed affamato. Nello sconvolgimento c’è da risolvere un misterioso omicidio, ma soprattutto, il diluvio ha alterato gli equilibri e si palesa il volto scomposto del paese. A risolvere il mistero ci penserà l’ispettore Van Loot, figlio di Berta, donna sanguigna e dura a cui il lettore si affeziona con facilità.

Il racconto di Malaguti, una favola grottesca a tinte forti, che richiama l’iconografia di un Bosch ma anche i tratti di Otto Dix, avvolge il lettore, lo attira in questo universo sospeso e allagato. Lo humor nero, abilmente dosato, che emerge dalla pagina, accompagna il lettore, favorisce lo spiraglio attraverso il quale si apprezza la tessitura della storia, da seguire con molta attenzione. È una scrittura concisa, ponderata, ironica e coinvolgente, non si abbandona a gravi monologhi né ad eccessive descrizioni. L’immagine è trasferita dagli occhi dell’autore a quelli del lettore con semplice maestria.

Un libro, un’opera prima, da leggere per pensare ridendo, per tentare uno sforzo di immaginazione e per capire dove potrebbe arrivare l’umanità se esacerbasse gli istinti. È un inno alla bellezza, alla poesia che si coglie nel buio più scuro.

Sembrava che questo limbo procedesse di inesauribile moto rettilineo uniforme. Fu così per giorni interi: qualcuno dice sia stata una settimana, e c’è chi, in certi annali, esagera e sostiene che ne fossero passate addirittura due, ma la verità è che nessuno seguiva il calendario e potevano benissimo essere passati un secolo o un respiro. Poi, come un uovo rimasto immobile per troppo tempo nel nido, di colpo si aprì una crepa, e prima che qualcuno potesse ribattere il guscio fu rotto.

Prima che uscisse il libro, hai scritto alcuni racconti che sono stati pubblicati?

Esiste una raccolta di racconti che ho iniziato a scrivere nel 2012 e che considero leggibili.Ancora non c’è stato modo di pubblicarli, fatta eccezione per uno di questi,La passione di Kreg, che è uscito nel numero 83 Nuovi Argomenti (2018), ma lo vorrei rivedere per intero e probabilmente modificherei tutto.

Cambieresti qualcosa del libro?

Non so se l’ho riletto tutto dopo l’uscita, ogni tanto lo apro e l’effetto è particolare, tanto che non mi ricordo i pezzi che ho scritto. Dalla scrittura alla pubblicazione sono passati 2 anni: finito di scrivere nel 2016 e uscito nel 2018.Ho riletto tre capitoli subito dopo aver finito la prima stesura e l’ho chiuso in un cassetto pensando che fosse pessimo e quasi lo detestavo. Poi con tutte le correzioni ho fatto pace con il materiale.

Forse ero eccessivamente duro, perché io parto sempre aspettandomi l’eccellenza assoluta, a cui aspiro.

So che è impossibile da raggiungere, ma proprio per questo faccio di tutto per essere certo di aver scritto la cosa migliore che potevo, cercando di volta in volta di migliorarmi. 

Come nasce Dopo il diluvio?

Il libro nasce dal desiderio di capire se fossi stato in grado di scrivere un romanzo. Avevo finito questa raccolta dove i racconti erano tutto di circa 10 pagine tranne l’ultimo che è di 60 e quindi ho pensato di provare ad andare oltre. Per ora non sono uno scrittore da fiumi di parole, per il momento scrivo più per immagini che per concetti. È come abbattere un muro, con uno sforzo psicofisico non da poco.

Per me la creatività è un’esperienza varia e poliedrica, non concepisco la scrittura come separata dal resto delle arti, ad esempio io scrivo e dipingo e i due processi si influenzano vicendevolmente.

La copertina è opera tua?

Sì,portai all’editore delle idee. Prima avevamo pensato ad una scansione poi in verità ho fatto una fotografia:ho messo il disegno sotto una teglia di vetro trasparente, riempita di acqua, poi ho messo la sagoma di un uomo che fa ombra, poi un po’ di rosso effetto sangue e ho fatto fotografia.Io parto sempre da un impianto visivo: fare la stessa cosa con mezzi diversi. L’ispirazione mi viene da mio nonno,insegnante di storia dell’arte, era pittore ma non ha mai esposto, forse per timore del mondo esterno. In famiglia in ogni caso è sempre stato considerato il maestro creativo per eccellenza e crescendo assieme a lui è come se mi avesse passato il testimone. Le arti sono tutte facce della stessa medaglia.

Tutte le volte che provo a scrivere cose filosofiche poi le elimino o le riduco perché mi chiedo sempre se sia un pensiero originale, di qualche valore e se la mia opinione su un dato argomento possa essere utile a qualcuno o se sto facendo l’equivalente letterario di un post su Facebook. Questo è il discrimine fondamentale.

Nella tua favola grottesca racconti i tipi umani nelle loro nefandezze, mettendole in scena, e mostrando un microcosmo che potrebbe diventare realtà se ci involvessimo rispetto a dove siamo arrivati. Come meglio esprimi la tua interpretazione del mondo, che nel testo emerge con vivacità?

Il fatto è che non penso che si debba forzare il filosofeggiare in mezzo al libro o la propria opinione, perché l’autore non si può eliminare del tutto dalla scrittura e quindi tutto quello che si aggiunge, a me no che non abbia funzione pedagogica, è superfluo.  Avendo idee chiare, l’opinione dell’autore esce fuori comunque dal testo anche senza essere espressa in maniera diretta.

Il processo è proprio quello, durante la scrittura, di rileggere costantemente per tenere ciò che è necessario ed eliminare quello che si può tranquillamente evincere dal contesto.

Mi divertiva molto creare un mondo partendo da zero, una piccola cosmogonia, dettando le regole della realtà e in questa piccola bolla far succedere qualcosa per vedere come si sarebbe sviluppata la storia e che strade avrebbero imboccato i personaggi. 

Come hai gestito i numerosi personaggi?

Ho cominciato senza pensare troppo a quanti personaggi inserire, poi le cose hanno cominciato a evolversi autonomamente e ho dovuto per forza cedere al numero perché il vero protagonista è il paese e quindi erano necessari. Ho inserito i personaggi come attori caratteristi, non una folla senza volto. Non volevo rimanere sul vago. perché già sono vaghi il tempo e l’ambientazione, ma quello che accade all’interno del paese è di una precisione millimetrica.Volevo che si vedessero le facce nei dettagli, anche se si trattava personaggi secondari o terziari, doveva essere tutto ben delineati, per dare l’idea di avere davanti persone reali, tangibili e non una fantasia astratta. Un vero gioco di equilibri.

Io ho un grande amore per i non luoghi, dove è facile creare un universo da zero, anche ad esempio in un aeroporto, dove si ricrea la società in piccolo.

Non mi sento di scrivere di cose che non conosco perfettamente:si trattasse anche di una cosa semplice come descrivere il mio quartiere, mi aspetterei lo stesso di non conoscerlo abbastanza bene, di trovare qualcuno che mi dica che non sono stato abbastanza preciso, in questo processo mentale forse c’è qualche lieve tratto ossessivo. Il problema è poi far sì che le cose funzionino. Io mi sono fatto un canovaccio a maglie larghe per sapere dove andare a parare, ma il processo è simile a costruire una macchina che già al primo ingranaggio comincia a muoversi: da quel momento puoi continuare ad aggiungere componenti, ma stando attento a non inceppare il movimento. È l’autore che deve adattarsi alla realtà che crea, per fare in modo che risulti credibile e non forzata. Alla fine si arriverà sempre dove si vuole andare, ma seguendo il tracciato che detta la storia, che non sempre coincide con quello che ci si era prefissati. 

La figura di Berta, ad esempio, non era prevista, ma la sua immagine si è presentata nella mia mente con tale intensità da averla vinta e finire sulla pagina. 

Inizialmente Adam doveva avere una moglie, un figlio e suoceri di nobile lignaggio, ma alla fine loro sono stati scartati e Berta è arrivata, diventando presto la preferita di molti lettori. Avrebbe dovuto esserci una nobiltà del paese che invece poi non è neanche comparsa nella storia, anzi forse non sarebbero stati adatti. In quel buco non sarebbero rimasti, forse avrebbero avuto un castello poco lontano.Berta è un personaggio cardine per la trama: appare poco ma ha un impatto forte.

A quali iconografie ti sei ispirato?

Il libro ha molte più influenze di storia dell’arte che letterarie, viene da quattro anni di frequentazione della cultura mitteleuropea, ho girato molto Germania e Austria. È un tipo di cultura a cui mi sento vicino. Brueghel, Bosch, Dix, ma anche l’espressionismo, la cultura del cabaret, o, per altri motivi, i film di Herzog. L’alternarsi di crudezza e lampi di poesia molto forti, di disumanità e umanità è proprio il modo in cui è stato costruito il libro. Nell’arte mitteleuropea i piccoli villaggi con figure chiave ben definite sono un topos.

Giocare con schemi noti come questo, con il cliché di alcune figure, mi hai aiutato a far orientare meglio il lettore in un ambiente che altrimenti di primo acchito è completamente estraneo.

Stessa cosa vale per la trama gialla: è un pretesto, una mano tesa per invogliarlo a entrare in un luogo che non conosce. 

Quanto grottesco vedi uscendo di casa?

Il grottesco è profondamente radicato nell’italianità, sia culturalmente che sociopoliticamente, per quanto sia un aspetto che si tende a nascondere e ignorare.

Viviamo in tempi che invece ci ricordano quotidianamente quanto il grottesco pervada tutto: sperimentiamo ogni giorno situazioni al limite del terrificante che però si manifestano con la goffaggine e la buffoneria propri della farsa. La situazione è grave, ma non seria, diceva giustamente Flaiano. In tutto il mondo, comunque, la deriva è questa. 

E lo spiraglio di poesia dove si coglie nel mondo reale?

Il grottesco è bistrattato perché è difficile da incasellare, non è satira, non è sfottò, non è dramma, eppure contiene in sé i semi del tragico e forse è lì che sta la poesia, su quel confine. L’ironia è qualcosa da cui non riesco mai a prescindere (per quanto sia un bolognese “poco bolognese”, lo humor nero che è colonna portante del DNA Emiliano scorre a litri nelle mie vene), e il grottesco parte dall’ironia usandola come una torcia che con la sua luce metta in risalto gli aspetti più drammatici e contraddittori della realtà. Al tempo stesso ridimensiona ciò che ci fa paura, rivelando il lato più umano e patetico dell’orrore.  Alcuni personaggi sembrano spaventosi perché sono strambi, ma attraverso il grottesco si rivelano per quello che sono veramente: dietro il terrore si mostra la fragilità, dietro la normalità si scova il disumano. 

Intendo l’arte come un filtro e tutto ciò che passa per un filtro, necessariamente, viene privato di qualcosa: se faccio filtrare la realtà così com’è, sulla pagina troverò una versione blanda della stessa, privata di ciò che la rendeva viva; se invece esaspero la realtà, la stilizzo, una volta filtrata rimarrà qualcosa di intenso e vibrante, forse non una fotocopia della realtà, ma sicuramente qualcosa di altrettanto vivo e originale. 

Penso anche che se si vuole davvero far pensare il pubblico, non si debba dirgli cosa pensare: il mio libro espone una storia, mostra dei personaggi che compiono azioni, e io autore ci sono, si intuisce la mia presenza, ma invece di esprimere giudizi lascio che sia chi legge a doverli evincere, a dover giudicare quello che succede. Non ci sono buoni o cattivi, solo esseri umani che compiono azioni positive o negative, e il lettore, che osserva da una posizione privilegiata, trae le sue conclusioni. La realtà (compresa quella drammaturgica) è sempre imprevedibile, ed è da questa imprevedibilità che si innesca il pensiero. 

Ma questa ‘Peste di Atene’? Hai imparato a memoria tutto Lucrezio?

No, l’ho studiato alle superiori ma non da impararlo a memoria. Quello è il passaggio che mi ha impressionato di più, al punto addirittura che volli disegnarlo. Molti dei materiali letterari citati direttamente nel romanzo non sono cose che conosco nel dettaglio, ma risalgono a memorie scolastiche o sono stati scovati nelle mie lunghe ricerche tra la biblioteca e il web, dove passo ore e ore.

Nel libro i personaggi che hanno un più di consapevolezza sono anche quelli con più cultura degli altri. E così?

C’è un personaggio del paese che ha una cultura maggiore, il professor Hanselberg. Questo mette sempre le mani avanti. E altri, è vero, riescono ad avere una visione d’insieme anche se poi sono suscettibili rispetto agli avvenimenti. Così come nella realtà: per avere una propria opinione, per accedere alle informazioni, anche in maniera approfondita ci vuole veramente poco e farsi una cultura non dovrebbe apparire come chissà quale particolarità, anche perché la cultura genera il dubbio che è necessario.

Perché il diluvio scopre le debolezze del paese?

Il paese non è marcito per colpa dell’acqua, semplicemente la situazione di crisi ha esposto problemi sotterranei già presenti da tempo. Probabilmente il paese del romanzo non è mai stato una vera comunità, ma in tempi sereni è facile fingere. L’irrazionalità e la paranoia nascono dall’eccesso di certezza, di rigidità, e alla minima scossa tutto crolla; al contrario, il dubbio è elastico e consente di adattarsi; questo è figlio dell’apertura mentale che si guadagna studiando, leggendo, informandosi (con umiltà, non in maniera sommaria, militante e violenta).

Sono orripilato dal tabù attuale di avere una cultura, dalla convinzione che chi ne sa più di me non è qualcuno a cui chiedere aiuto, ma una minaccia alla quiete dell’ignoranza. È questa l’origine dei drammi che viviamo quotidianamente.

È anche colpa di una buona fetta dell’intellighenzia, che con gli anni si è alienata dal mondo, barricandosi dietro uno snobistico senso di superiorità, utile soltanto a inasprire il conflitto. La poesia quindi sta lì, quando cadono questi eccessi, quando si vedono i personaggi. Nel dramma è più facile vedere la bellezza.

Di che colore è questo romanzo?

Io me lo immagino blu scuro, poi verde e marrone per il paese e le sue case di legno, con dei lampi di rosso molto brillante. Me lo immagino ambientato tra foreste nordiche dagli alberi molto alti, claustrofobiche e ampie allo stesso tempo. Ricco di suoni e colori a volte affascinanti a volte spaventosi. Ho sempre lottato contro l’idea che la bellezza debba essere legata a tutti i costi a qualcosa di gradevole.

Piuttosto preferisco cercare la bellezza in qualcosa che mi spaventa, perché mi aiuta a combattere la paura.

Non è che mi dispiaccia l’amenità, anzi, ma mi pare che da sola sia soltanto metà della storia, qualcosa che mi serve per rilassarmi ma che non mi mostra il volto completo della bellezza. Per me la bellezza è quando non riesco a comprendere del tutto qualcosa. Quando rimane una dose di mistero. Come nell’arte, dove se si sfocia nella didascalia l’opera sfiorisce. Devono coesistere una parte molto cosciente e una completamente lasciata all’inconscio.

Quanto serve scegliere le parole?

È fondamentale. Io sono molto legato alle immagini e nella letteratura le immagini sono suoni. La bravura non sta nel trovare il suono che descrive l’immagine, ma quello che la rende tangibile. Ho un rapporto particolare con le parole: il significato è l’ultima cosa, prima di tutto sono segni grafici e sonori, e questi segni e questi suoni devono catturarti prima ancora che tu ci colleghi un significato. È un processo stratificato. La scrittura deve mostrare una qualità estetica e musicale fin dalla prima stesura. Il lavoro di cesello non avviene dopo, ma durante la scrittura.  

E la punteggiatura?

L’uso della punteggiatura è parte dell’esperimento letterario. Il discorso diretto è volutamente inserito senza essere segnalato per non distrarre il lettore dal flusso della scrittura. All’inizio può risultare straniante, ma una volta interiorizzato il meccanismo penso aiuti a rimanere all’interno della finzione narrativa. Far sì che il lettore rimanga immerso nell’universo del libro e non riesca del tutto a prevedere quel che accadrà sono elementi importantissimi. Ormai si confonde l’intrattenimento con la semplicità di fruizione, mentre invece intrattenere è essere capaci di spiazzare e sorprendere chi legge facendolo entrare in luoghi che non si sarebbe mai aspettato di visitare. Al tempo stesso provo a non sacrificare il lato “letterario” dell’opera:

chi scrive, qualsiasi cosa scriva, dovrebbe sapere che sta aggiungendo un tassello a un discorso lungo secoli e che è suo dovere, nel suo piccolo, portarlo avanti provando ad aggiungere qualcosa di nuovo. Qualcuno riesce, qualcuno no, io di certo non so che valore avrà il mio tassello, ma faccio del mio meglio per non sprecare questa chance. 

Grazie Leonardo

Biografia dell’autore

Leonardo Malaguti nasce a Bologna nel 1993. Si è laureato in Arti e scienze dello spettacolo all’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Attualmente si dedica alla scrittura sia di narrativa che sceneggiature, alla pittura e alla regia di teatro e cortometraggi.Con il suo romanzo d’esordio è stato finalista al Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza e tra le 57 proposte del Premio Strega.

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